Tretatre
di Giorgio Manganelli
Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspettare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro. Se l’appuntamento è ad un angolo di strada, gli piace fingere una favola di possibili equivoci: e passa da un angolo al prossimo, ritorna, si guarda attorno, scruta, attraversa la strada; l’attesa diventa avventurosa, irrequieta, infantile. Vi fu un tempo in cui un ritardo di dieci minuti gli dava un’ira sorda, come se fosse stato insultato. Ora vorrebbe ritardi di quindici, venti minuti. Ma deve essere un vero ritardo; pertanto, non serve arrivare in anticipo. Talora l’attesa è immobile; trova un qualche oggetto su cui sedersi, e lì si appoggia e ciondola una gamba, pienamente; si guarda la punta della scarpa, cosa che non potrebbe fare in nessun altro momento della giornata. Prolungandosi il ritardo, cambia gamba, e si studia un ginocchio; poi si cava il cappello e ne guarda attentamente la fodera; compita nome e indirizzo del cappellaio; si ripone in capo il cappello, poi chiacchiera un poco con se stesso, come egli fosse a sé un estraneo appena incontrato: parla del tempo, della moda, perfino di politica, ma con cautela, perché non si sa mai come uno la pensa. Ama proporre appuntamenti in luoghi riparati, ad esempio portici, che gli consentono di camminare a lungo, di gustare qualsivoglia dilazione, con il lento piacere di un padrone che attende gli ospiti, nel mezzo di un giardino. Di fatti, durante le attese, egli diventa il proprietario dell’angolo; lì si colloca da ospite, ed il ritardo è il naturale dono che un proprietario generoso concede agli stranieri che vengono da lontano – mentre lui è, sempre, a casa. Se il tempo si rabbuffa di nuvole e vento, suggerisce appuntamenti nei pressi di chiese. Ove sopraggiunge la pioggia, gli piace enormemente riparare nella chiesa, quasi sempre buia e semivuota, ed ivi esercitare la clandestina pietà dell’attesa. Conta le candele, saluta d’un cenno del capo Sant’Antonio con l’orfano in camiciola, e guarda fisso, dalla parte dell’altare, rilassato il corpo, senza impazienza, con una segreta speranza, in quella allusione d’attesa che è il capolavoro della sua esistenza.
di Giorgio Manganelli
Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspettare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro. Se l’appuntamento è ad un angolo di strada, gli piace fingere una favola di possibili equivoci: e passa da un angolo al prossimo, ritorna, si guarda attorno, scruta, attraversa la strada; l’attesa diventa avventurosa, irrequieta, infantile. Vi fu un tempo in cui un ritardo di dieci minuti gli dava un’ira sorda, come se fosse stato insultato. Ora vorrebbe ritardi di quindici, venti minuti. Ma deve essere un vero ritardo; pertanto, non serve arrivare in anticipo. Talora l’attesa è immobile; trova un qualche oggetto su cui sedersi, e lì si appoggia e ciondola una gamba, pienamente; si guarda la punta della scarpa, cosa che non potrebbe fare in nessun altro momento della giornata. Prolungandosi il ritardo, cambia gamba, e si studia un ginocchio; poi si cava il cappello e ne guarda attentamente la fodera; compita nome e indirizzo del cappellaio; si ripone in capo il cappello, poi chiacchiera un poco con se stesso, come egli fosse a sé un estraneo appena incontrato: parla del tempo, della moda, perfino di politica, ma con cautela, perché non si sa mai come uno la pensa. Ama proporre appuntamenti in luoghi riparati, ad esempio portici, che gli consentono di camminare a lungo, di gustare qualsivoglia dilazione, con il lento piacere di un padrone che attende gli ospiti, nel mezzo di un giardino. Di fatti, durante le attese, egli diventa il proprietario dell’angolo; lì si colloca da ospite, ed il ritardo è il naturale dono che un proprietario generoso concede agli stranieri che vengono da lontano – mentre lui è, sempre, a casa. Se il tempo si rabbuffa di nuvole e vento, suggerisce appuntamenti nei pressi di chiese. Ove sopraggiunge la pioggia, gli piace enormemente riparare nella chiesa, quasi sempre buia e semivuota, ed ivi esercitare la clandestina pietà dell’attesa. Conta le candele, saluta d’un cenno del capo Sant’Antonio con l’orfano in camiciola, e guarda fisso, dalla parte dell’altare, rilassato il corpo, senza impazienza, con una segreta speranza, in quella allusione d’attesa che è il capolavoro della sua esistenza.
Giorgio Manganelli (1922-1990), Tretatre, da CENTURIA, 1979
legge Giole Dix
suona Ramin Bahrami
uno spettacolo delizioso, parole e musica e ironia.
2 commenti:
quanto mi piace!!
buon fine settimana Rouge
Manganelli, una vera assoluta sorpresa...
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