più che la mostra il posto.
forse anche più delle foto, l'allestimento.
e non è la prima volta.
i Tre Oci è un super mega luogo in quel della Giudecca, Venezia, fermata Zitelle.
quanto mi piace il vaporetto. mi ricorda lo spettacolo di Paolini, e rido.
nella miseria generale, personale e mondiale, mi sono concessa questa leccornia in una giornata, splendente e velenosa di smog, di fine anno.
forse ho visto troppe foto, in questi anni ne ho ingurgitate a centinaia, forse di più, molte delle autrici mi sono note, altre no, ma la maggior parte si. quindi poca sorpresa, comunque bellissime Donata Wenders, Shirin Neshat, Bettina Rheims, Martina Bacicalupo. e, spiritosa, con l'inconscio all'aria, Sophie Calle.
ma sono tante, non le cito tutte. ci sarebbe anche Giorgia Fiorio per carità, ma con lei ho un problema di simpatia. allestimento di Marras, si gira tra abiti armadi e pareti bordeaux, mi sento a casa, in una bella casa, toccherei tutto, vorrei una stanza, lì, tutta per me. frammenti di quotidiano, quello che tocca alle donne, che vogliano o no, ovvero gli altri, sempre gli altri, onnipresenti gli altri, una vita fatta di altri. e di molte molte molte parole. per te.
le mie foto, invece, fanno schifo, mi devo rassegnare, fotografo ma di certo non perchè ne sia capace, e via.
Donna Ferrato
“Sono in grado di scattare una straordinaria quantità d’immagini del dolore privato
delle persone perché questo è l’unico modo per educare le masse. Non c’è niente di
più potente di una fotografia documentaria che diventa una storia dentro una
storia, raccontata senza trucchi o abbellimenti”
Sophie Calle
“Ho da sempre avuto l’impressione che le mie foto
non potevano esistere da sole, le immaginavo all’interno di una struttura narrativa
insieme alle parole. Lo stesso discorso si può fare per la scrittura. Le storie mi
parevano povere senza le immagini
e quindi utilizzare i due media era una conseguenza logica. In più mi piaceva
fotografare e amavo scrivere”
Letizia Battaglia
“La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e tanto altro
ancora. L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e
purificata.
L’ho vissuta come salvezza e verità”
Martina Bacigalupo
“Cerco di “rubare” alla natura un segreto che il tempo suo di epifania non mi
permette di esplorare – ma che
lo permette invece il tempo miracoloso della fotografia – che riceve le cose e le
sospende, offrendoci il Tempo magico di guardare al di là del Tempo”
Diane Arbus
“Una fotografia è un segreto
che parla di un segreto.
Più essa racconta, meno
è possibile conoscere”
Giorgia Fiorio “Le fotografie non sono mai delle risposte ma delle domande. E ognuno le legge e le
interpreta come le sente. Secondo la propria sensibilità e percezione.
Il fotografo in realtà non deve dire nulla
di più. Non deve spiegare a tutti i costi che cosa vogliano dire le sue immagini”
Roni Horn
“Le mie opere si sviluppano in modo tale da non permettere mai allo spettatore di
prendere troppa familiarità, o di fare ipotesi al riguardo. […]
Io non sono interessata alle risposte.
Le risposte creano chiusura. E, in ogni caso, non credo che esistano risposte, le
risposte sono sempre provvisorie”
Shirin Neshat
“Sto cercando di mettere insieme le immagini e le storie, di trovare l’armonia tra
fotografia, pittura e parole. […] Quello che cerco è l’universalità, una storia iraniana
che possa valere per tutti”
Bettina Rheims
“Trent’anni fa, quando volevo diventare fotografa, giravo con la mia macchina
fotografica e riprendevo ciò che avveniva intorno. Poi, ho voluto vedere le donne
svestirsi. Si pensa che io svesta le donne, non è vero. Io svesto i loro pensieri”
Sam Taylor-Johnson
“Uso la fotografia come punteggiatura, per segnare i capitoli fondamentali della
vita. Il lavoro nasce da questa sensazione di libertà mentale e spirituale”
Donata Wenders
“A volte è solo un fugace istante, un gesto o un movimento improvviso, quando ci
chiediamo: «Cosa sto facendo veramente con la mia vita?».
Spesso abbiamo paura della risposta, ma c’è ancora tanta speranza in questo
interrogarsi, ed è anche il cuore della nostra identità”
“Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione.” Susan Sontag
25 autrici, 25 storie, 25 sguardi singolari sul mondo, sull’altro, sulla relazione.
Sguardo di donna è una mostra potente di 250 immagini, che parla di diversità, responsabilità, compassione e relazione: un racconto dell’essere che ama per antonomasia, la donna, capace del “dono totale dell’anima e del corpo” (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza), con quella dedizione incondizionata alla cura delle relazioni, al rapporto con l’altro, a uno sguardo sul mondo a partire dalla propria consapevolezza.
Il mezzo fotografico diviene una sorta di coscienza storica, facendosi testimone anche di quello che spesso viene nascosto. Da qui nasce la scelta di autrici che usano la fotografia come mezzo per esprimersi, di varie parte del mondo, ognuna pronta a cogliere il linguaggio dell’ umanità, dell’unicità, della differenza nelle infinite varietà dei soggetti ritratti, nell’intento di sottrarsi alla paura della diversità.
La mostra, a cura di Francesca Alfano Miglietti, è una complessa drammaturgia, ricca di rimandi a varie fonti: reportage e documentari, poetiche struggenti e malinconiche, linguaggi di denuncia e di compassione.
La caratteristica di tutte le opere è l’assoluta centralità del dialogo con il reale, una centralità che stabilisce un vincolo stretto con le forme del mondo, nel recupero di materiali di vita.
Antonio Marras firma l’allestimento con una scenografia capace di trasportare il visitatore all’interno delle storie che si leggono nelle varie sale: un’esperienza nell’esperienza, in cui anche l’allestimento diventa parte fondamentale della narrazione e crea la relazione tra gli spazi della Casa e le opere fotografiche.
La mostra si articola intorno a tre nuclei centrali, tre luoghi d’incontro.
Il pianterreno è invaso da una spettacolare installazione di costumi provenienti dal Teatro La Fenice: gli abiti appesi e volutamente esibiti dal rovescio, con le fodere esposte, impongono il sovvertimento della forma e mostrano ciò che sta sotto, lo strato più intimo.
Il secondo nucleo, il salone del primo piano, è allestito con armadi/scatola, sempre provenienti dalla Fenice, i quali, aperti, custodiscono alcune fotografie in una sorta di dialogo segreto e ravvicinato. Opere sottratte dalle varie sale che, come quelle esposte anche negli altri luoghi comuni, hanno lasciato dietro di sé un’impronta sulle pareti originarie.
Elemento centrale dell’ultimo piano sono le “cavalle americane” (sostegni delle quinte), le quali diventano percorso, ostacolo, costruzione. Da ogni salone si accede a una serie di spazi in cui le opere sono disposte su fondo rosso veneziano leggermente scurito dal tempo immemore della Casa. Ogni stanza espone una, due, tre storie, che dialogano fra loro e con quelle delle altre, per raccontare, con sguardi diversi, la stessa storia, la storia dell’umanità.