ho ricevuto in dono libri strabilianti, Mortalità di Christopher Hitchens, L'età dell'Inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni di Eric Kandel (uno sballo di libro, credetemi, uno sballo, dopo la mia estate a Vienna, la passione per l'art nouveau, la fase eroica ed epica di quegli anni in Europa), e Cosa resta del padre? di Massimo Recalcati (per chi non lo conoscesse, psicoanalisita lacaniano dotato di una capacità narrativa ed esplicativa senza eguali, un incantatore), solo che si aggiungono a una lista già lunga di letture che ho in corso e che mi attendono...cosa c'è di peggio per me che avere una lista di "cose" -parola senza nome- che mi aspetta? niente, vivo nella torura.
in più, mi prende una foga vacanziera, milanese, di vedere tutto quel che Milano, e pure Torino, mi offrono e, come se non bastasse, faccio ordine.
ordine, pulizia.
anche questo è una specie di godimento, ossessivo?,certamente ma ma non solo. anche purificatore, pacificatore. zen.
è un soffermarsi sul qui ed ora, massima zen di ormai diffusissima fama, ma non certo altrettanto diffusa pratica.
io pulisco e riordino volentieri, ritrovo vecchie cose, ritrovo il gusto di riguardarle e selezionarle, qualsiasi cosa esse siano, di disfarmene o di riporle, magari per poi eliminarle alla prossima tornata di pulizia domestica. siamo fatti anche di questo, di fluttuazione dei valori e della memoria.
insomma,
pulizie come etica.
pulizie come rinascita,
parola che leggo ovunque, a fine d'anno.
mi viene in mente un articolo divertente che ho letto su La Lettura, ormai insostituibile compagna domenicale, che riporto, a fine d'anno.
Spiritualità
Pulisci la casa, ritroverai te stesso
La lezione del monaco Keisuke Matsumoto: l’Occidente ha delegato troppo alle colf «Lavare i piatti, riordinare i letti: è una preghiera e un atto per riappropriarci della vita»
Pulire una macchia d’olio sul pavimento richiede una meccanica complessa: rimuovere delicatamente il liquido con un panno asciutto; passare la giusta quantità di detersivo diluito nell’adeguata quantità d’acqua; risciacquare; asciugare con un panno apposito, per non lasciare aloni. È solo una macchia d’olio, ma prevede un piccolo patrimonio di conoscenze artigianali, concrete. Competenza nella «manutenzione delle cose», che vediamo dispersa nell’astratta frenesia metropolitana. E il bel volume pubblicato da Vallardi, Manuale di pulizie di un monaco buddhista, arriva per ricordarci che così disperdiamo parte di noi.L’autore è Keisuke Matsumoto, poco più che trentenne, bonzo del tempio Komyoji di Tokyo. Un monaco «digitale» (ha la pagina Facebook e cura il blog del tempio), ma la sua raccomandazione è di stampo pragmatico-domestico: «Ritorniamo a fare le pulizie di casa. Riappropriamoci di quei saperi concreti che abbiamo perso o affidato ad altri. Perché la cura delle cose è cura di se stessi». Va detto che per i monaci zen le incombenze domestiche non sono incombenze: si svegliano all’alba e, dopo aver rinvigorito il corpo all’aria aperta, ciascuno comincia a svolgere i compiti quotidiani, che sono parte della propria pratica spirituale. Riordinare il letto, pulire la stanza, spolverare il comodino e lavare l’abito monacale (juban) è una forma di preghiera.
Non c’è insomma quella leggera venatura sacrificale che apparteneva alla Regola benedettina o la dedizione silenziosa dei monasteri delle carmelitane. Nelle pulizie zen c’è ricerca. «Ricerca di se stessi — dice Matsumoto —, perché i lavori domestici ti aiutano a concentrarti sul presente. Concetto chiave, questo, del buddhismo, dove l’attenzione non viene posta né sul passato né sul futuro, bensì su quel momento che si sta vivendo». È una questione di educazione, prima di tutto: «In Giappone — osserva il monaco — nelle scuole elementari e medie, sono gli scolari a occuparsi della pulizia dei locali, cosa che, all’estero, non accade. Nel nostro Paese, fare i servizi di casa è un concetto che non si riferisce semplicemente a togliere lo sporco dalle superfici, ma è in stretta relazione con lo spazzar via le nubi dalla nostra anima».
L’Occidente (e anche l’Oriente occidentalizzato) ha invece da tempo delegato queste mansioni a un esercito di lavoratori manuali: c’è la colf specializzata nelle pulizie di interni e del giardino, c’è il calzolaio tecnologico; di recente (specie tra gli immigrati cinesi) si è affermata anche la figura dell’aggiustatutto, che ripara quasi ogni cosa, dall’ombrello alle borse. Non si tratta solo di stranieri: secondo l’Inps, dal 2008 a oggi le collaboratrici domestiche e le badanti di nazionalità italiana sono aumentate del 20 per cento. E questa tendenza a demandare la cura dell’ambiente più intimo ad altri ha risvolti spirituali. Perché, come ci ha ricordato due anni fa l’americano Matthew Crawford ne Il lavoro manuale come medicina dell’anima, edito da Mondadori, non saper più nemmeno piantare un chiodo ci allontana da un muro familiare, da un quadro che ci piace e che vorremmo appendere. Dalla «bellezza pratica», insomma. E, al tempo stesso, è interessante notare come cresca l’ansia di «altre pulizie»: quelle del computer per esempio (con i numerosi tipi di antivirus sul mercato) o quelle dell’auto. Forse perché la nostra vera casa, oggi, è altrove?
«La mia attività di pulizia preferita — continua Matsumoto — consiste nello spazzare un giardino giapponese con una scopa di bambù. La monotonia di questo gesto mi aiuta a rivitalizzarmi». La scopa giusta, il momento giusto (nel libro sono indicati anche i giorni propizi del mese), lo spirito ben disposto. Ecco come si recupera davvero il lavoro manuale. Che è un atto d’amore. Sì, perché nell’artigianalità del pulire un lavello o nel saper scrostare un tegame c’è quella ritualità gestuale che nasce da intuizione, creatività, esperienza. Come sosteneva il filosofo scettico Pirrone di Elide che, racconta Diogene Laerzio, era solito prendersi cura personalmente della casa. Ma è anche una questione di auto-terapia: «Se paghi altre persone perché puliscano la casa al posto tuo — chiede il monaco — sei davvero sicuro che tu stia facendo qualcosa di più importante del pulire la casa?». Come nei vasi comunicanti, l’eccessiva concentrazione su astrazioni (il Lavoro, gli Amici, le Relazioni Sociali) portano a un deperimento della fisionomia domestica: i piatti sporchi che si accumulano e che infondono tristezza, togliendo la voglia di cucinare e spingendo a riempire il frigo di surgelati, i quali a loro volta andranno a male perché fatti per il pronto consumo. E così via. Di qui lo spreco, che secondo imonaci buddhisti è quasi un delitto. Sottolinea il bonzo: «Per i giapponesi l’espressione “Che spreco!” non si riferisce solo al fatto che sia un peccato buttar via qualcosa, ma veicola gratitudine per ciò che è stato utilizzato fino a quel momento. Chi non dà la giusta importanza alle cose non la dà neppure alle persone».
Nel divertente volume tradotto in italiano da Feltrinelli Lo sporco degli altri, Louise Rafkin racconta la sua vita come donna delle pulizie. È curioso osservare con distacco le vite di chi delega questi compiti: la pigrizia di chi rinuncia a invitare gli amici solo perché non sa come pulire il tinello; l’indolenza di chi si lamenta della muffa ma non capisce che è una questione pragmatica, di osservazione e soluzione: «Arieggiare, evitare l’umidità, ma soprattutto trovare il coraggio di liberarsi di libri, gingilli e cose superflue» suggerisce Matsumoto come rimedio anti-muffa. Pulizie come etica.
Così i servizi domestici (nel Sud Italia si dice così, «servizio», termine che richiama un senso di funzionalità finalizzato a qualcosa, mentre al Centro si usa il più gravoso «faccende» e al Nord si preferisce il calvinista «mestieri») sono una specie di aritmetica della vita, un ordine segreto da rintracciare, una forma di conoscenza di se stessi. Si racconta che un discepolo del Buddha abbia raggiunto il nirvana mentre stava spazzando. Insomma, il libro di Matsumoto ci riporta con i piedi per terra, anzi… con la scopa sul pavimento. Per uomini e donne, come dimostra la recente manifestazione del Movimento dei Casalinghi italiani (sarebbero circa 300 mila gli uomini che in casa si danno da fare) e come la stessa ministra del Lavoro Elsa Fornero ha rimarcato pochi mesi fa. La ricerca di sé non ha gonna o pantaloni. Al massimo indossa il samue, il costume tradizionale da lavoro dei monaci buddhisti.
Roberta Scorranese