«Ed ecco l’ultima bestemmia concessami” pensò.
“In
Inghilterra non mi sarà certo permesso; né potrò mai più
romper la testa a un uomo, né dirgli che mente per la
gola, né estrarre la mia spada e passarlo da parte a parte;
non potrò più sedere tra il consesso dei Pari, né portare
una corona, né andare in processione, né condannare un
uomo a morte, né comandare un esercito, né caracollare
sul mio palafreno in Whitehall, né portare settantadue
medaglie sul petto.
Tutto quello che mi sarà permesso,
dopo che sarò sbarcata in Inghilterra, sarà di servire il tè
e di chiedere ai signori ospiti come lo preferiscono. Lo
volete zuccherato? Un po’ di crema?” E mentre parodiava se stessa, fu colpita da orrore, avvedendosi della bassa opinione che si andava formando dell’altro sesso,
quel sesso forte al quale un giorno era stato suo orgoglio
appartenere.
“Cadere da un pennone” pensava “per aver
visto una caviglia di donna; vestire come un burattino,
pavoneggiarsi per strada per farsi ammirare dalle donne;
rifiutar loro il diritto di essere colte, per timore di incorrere nel loro ridicolo; rendersi schiavo della più fragile
civettina in gonnelle, e pure andare attorno con l’aria di
essere il re della creazione: Cielo! Che zimbelli fanno di
noi, e che sciocche siamo mai!” E qui, dall’ambiguità di
alcune sue parole, si sarebbe potuto comprendere come
ella censurasse entrambi i sessi, quasi non appartenesse
né all’uno né all’altro; e, in quei momenti, ella pareva titubare; era un uomo; era una donna; conosceva i segreti,
divideva le debolezze di entrambi. Era uno stato d’animo stupefacente, e che le dava le vertigini. Persino il conforto dell’ignoranza le pareva negato. Si sentiva
come una piuma in preda a un turbine. Non farà dunque
meraviglia se, confrontando l’un sesso all’altro, e trovandoli, ciascuno a turno, dotati delle più deplorevoli
debolezze – pur non essendo sicura di appartenere né
all’uno né all’altro – non farà dunque meraviglia, dicevamo, se quando l’àncora cadde con gran scroscio in
mare ella fu sul punto di mettersi a gridare che voleva
tornare in Turchia e ridiventar zingara.
«Sia ringraziato Iddio per avermi fatta donna!» esclamò; e stava per commettere quell’estrema follia – la
peggiore in cui possano cadere tanto l’uomo quanto la
donna – di sentirsi orgogliosa del proprio sesso, quando
il suo pensiero si arrestò su quella singolare parola che,
per quanti siano gli sforzi finora da noi fatti per impedirglielo, è riuscita a scappar fuori in coda all’ultima frase:
amore. «Amore» aveva detto Orlando.
E in quell’istante
– tale è il suo impeto – l’amore prese forma umana; ché
tale è il suo orgoglio. Perché, laddove gli altri pensieri si
contentano di rimanere astratti, nulla potrà soddisfare
quest’ultimo, finché non riesce a rivestirsi di carne e
ossa, a indossar scialli e gonnelle, stivali e giustacuore.
E siccome tutti gli oggetti dell’amore, per Orlando, erano stati donne, ora, per colpa della colpevole riluttanza
della natura umana ad acconciarsi a nuove convenzioni,
era ancora una donna che ella amava; e se poi la coscienza dell’esser del medesimo sesso sortì su di lei effetto alcuno, questo fu certo di avvivare e approfondire
quei sentimenti che già aveva provato in veste d’uomo.
Perché tutti i dubbi, tutti i misteri, una volta oscuri, ora
si rischiaravano nella sua mente. Ora l’oscurità che divide i sessi, e permette a innumerevoli impurità di vivere
nella penombra, si era dissipata; e se c’è qualcosa di
vero in ciò che ha detto il poeta sulla verità e sulla bellezza, quell’affetto guadagnò in bellezza ciò che aveva
perso in falsità.
Finalmente, esclamò Orlando, conosceva Saša quale era realmente, e per la gioia della scoperta, e intenta com’era alla ricerca di tutti i tesori che ora
le si rivelavano, era rapita ed estasiata a tal segno, che
una voce virile parve al suo orecchio la voce d’un cannone, quando disse: «Permettetemi, Madama...». E una
mano d’uomo l’aiutava a sollevarsi; e le dita d’un uomo,
con un tre alberi veleggiante tatuato sul medio, indicavano all’orizzonte.
capisco che sto leggendo un bellissimo libro.
capisco anche che sia una lettura difficile, un flusso perdurante di percezioni e istanti, si vive in minuti, non in ore nè in giorni, senza un solo dialogo, mai, un'immersione nel pensiero.
si tratta abolire il superfluo e pleonastico, i dialoghi!, per arrivare al cuore, al nucleo delle cose.
la realtà non è fuori ma frugata dentro di sé.
"Mi è venuto in mente ciò che voglio fare, è di saturare ogni atomo. Eliminare, cioè, ogni spreco, tutto ciò che è inerte, superfluo. Rappresentare il momento nella sua interezza, con tutto ciò che comprende. Diciamo che il momento si compone di pensiero, di sensazioni; la voce del mare. Lo spreco, l'inerzia nascono dall'inclusione di cose che non appartengono al momento.
(Virginia Woolf, agosto 1928)
ed ecco Orlando.
3 commenti:
che scrittrice affascinante e complicata.lo so I paragoni sovente sono fuori luogo, ma penso che solamente la Lispector si avvicini a questo mostro sacro. ciao Rouge
Vedi, ben noto sconosciuto, tu mi parli della Lispector, autrice che io non conosco, se non di nome. E invece mi sembra interessante, molto interessante. Grazie della segnalazione.
Rossa
ahah iniziare la settimana così me gusta:non so perché mi esca alle volte "sconosciuto",probabilmente faccio pasticci.l'autrice che ti ho citato merita,merita davvero.
buonissima giornata cara Rouge
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