un film sul transessualismo?
no, sul dolore di non riconoscersi.
il film non prende parti, ma osserva, descrive, sottolinea, non giudica.
si ambienta in un mondo ideale in cui il pregiudizio, il giudizio, la contrapposizione, il rifiuto, la segregazione, la discriminazione non esistono.
il reale ha ben altre fattezze.
facciamo finta che sia così, che il padre sia una figura angelicata pronta a qualsiasi sacrificio, anche della propria realizzazione, pur di favorire il cambiamento desiderato dal proprio figlio, o dalla propria figlia.
che il mondo accetti, anche in una scuola di ballo (luogo in cui si premeditano e si affettuano omicidi e lotte sanguinose e competizioni disumane), la lotta senza pari, straziante, di un ragazzo contro le proprie limitazioni corporee e ne favorisca, quanto meno silenziosa e disciplinata, la realizzazione.
facciamo finta.
e facciamo anche finta che, una volta effettuata la mutilazione psicotica del proprio corpo, la vita diventi un luogo felice in cui il nuovo taglio di capelli santifichi il viraggio ormonale e anatomico.
facciamo finta.
la natura di quel dolore, quel dolore che non può accettare il proprio corpo, non ne riconosce la forma, ne rifiuta l'appartenenza, lo fa a pezzi e invoca la scienza per trasformarlo, lo vuole diverso ed è disposto a martirizzarsi, non passa mai.
è questo l'equivoco: la trasformazione corporea non pacifica quella sofferenza. quella invocazione è eternamente presente, quell'immaginario non verrà mai soddisfatto dall'invaginazione, o dall'operazione contraria. quella non accettazione è uno stato perenne, e non è una questione sociale, politicamente corretta, e nemmeno di genere, non si cura con la chirurgia, ha bisogno di molto di più, di molto altro, di tanto altro oltre il corpo.
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