Su una foto in bianco e nero, due ragazze in un vialetto, spalla contro spalla,
entrambe tengono le braccia dietro la schiena. Sullo sfondo, qualche albero e un
alto muro di mattoni. Sopra di loro, grandi nuvole bianche nel cielo. Sul retro
della foto: luglio 1955, nei giardini del collegio di Saint-Michel.
A sinistra c’è la più alta delle due, bionda, con i capelli corti e spettinati, un
vestito chiaro e i calzini alla caviglia, il viso in ombra.
A destra, una mora con i
capelli ricci, corti, gli occhiali sul volto in carne, attraversato dalla luce, la fronte
alta, un golfino scuro con le maniche corte, una gonna a pois. Entrambe portano
le ballerine, la bruna è senza calze. Devono essersi tolte i grembiuli di scuola per
scattare la foto.
Anche se nella ragazza di destra non si riesce a riconoscere la bimbetta con le
trecce che posava sulla spiaggia, che crescendo sarebbe potuta diventare anche la
bionda, è lei, e non l’altra, a essere stata quella coscienza, è lei a essere stata
presa in quel corpo, con una memoria unica, il che permette di assicurare che i
capelli sono ricci per via di una permanente, rituale del mese di maggio dopo la
cresima, che la gonna era stata ricavata da un vestitino estivo dell’anno
precedente diventato troppo stretto e che il golfino era stato fatto a maglia da una
vicina di casa. Ed è con le percezioni e le sensazioni ricevute da quella brunetta
occhialuta di quattordici anni e mezzo che la scrittura, ora, può rinvenire
qualcosa di ciò che pulsava negli anni Cinquanta, captare il riflesso proiettato
sullo schermo della memoria individuale dalla storia collettiva.
A parte le ballerine, non c’è niente nell’aspetto di quell’adolescente che possa
essere ricondotto a «ciò che usava» al tempo e che si poteva vedere nelle riviste
di moda o nei negozi delle grandi città, la gonna scozzese a metà polpaccio, un
grosso pendente sopra un maglioncino nero, la coda di cavallo con la frangetta
come Audrey Hepburn in Vacanze romane. La foto potrebbe essere stata scattata
tanto sul finire degli anni Quaranta quanto all’inizio dei Sessanta. Agli occhi di
chiunque sia nato dopo è, semplicemente, vecchia, appartiene a quella preistoria
di sé in cui si appianano tutte le vite che sono venute prima. Eppure, quella luce
laterale che illumina il viso della ragazzina e scende sul golfino tra i seni ben
dritti è stata sensazione di calore di un sole di giugno in un anno che, tanto per
gli storici quanto per chi allora c’era e viveva, non può confondersi con nessun
altro, il 1955.
Forse non si accorge del divario che la separa dalle altre ragazze della classe,
quelle con cui sarebbe inimmaginabile farsi ritrarre in fotografia. Un divario che
si manifesta negli svaghi, nel modo di impiegare il tempo al di fuori delle ore di
lezione, nella maniera generale di vivere, e che la allontana tanto dalle ragazze
chic quanto da quelle che già lavorano in ufficio o a bottega. O forse percepisce
questa distanza e non se ne preoccupa.
Non è ancora mai stata a Parigi, a centoquaranta chilometri da lì, non ha mai
partecipato a un «party», non ha il giradischi. Nel fare i compiti ascolta le
canzoni della radio e ne trascrive le parole su un quaderno, se le porta nella testa
per giornate intere, mentre cammina, a lezione, tu che dicevi, che dicevi, che
dicevi che l’amavi, che ne hai fatto del tuo amor che ora piange nella pioggia.
Non parla con i ragazzi, ci pensa tutto il tempo. Vorrebbe avere il diritto di
mettersi il rossetto, le calze da donna, i tacchi alti – i calzini la fanno vergognare,
li toglie appena esce di casa – per mostrare che già appartiene alla categoria delle
ragazze e che può essere seguita per strada. Con questo preciso scopo la
domenica mattina dopo la messa va a «fare le vasche» in città in compagnia di
due o tre amiche del suo stesso ambiente «semplice», badando bene a non
trasgredire la rigorosa legge materna a proposito dell’ora («se ti dico di tornare
alla tal ora torni alla tal ora, non un minuto dopo»). Compensa il generico divieto
di uscire con la lettura dei romanzi d’appendice pubblicati sui giornali, I signori
di Mogador, Affinché nessuno muoia, Mia cugina Rachele, La cittadella. Si
astrae immaginandosi storie e incontri che sfociano in orgasmi serali sotto le
lenzuola. Si sogna puttana e al contempo ammira la bionda della foto, così come
altre compagne di scuola più grandi che la rimandano al suo corpo ancora
invischiato in un bozzolo informe. Vorrebbe essere loro.
Al cinema ha visto La strada, Lo spretato, Gli orgogliosi, Le piogge di
Ranchipur, La belle de Cadix. Sono più i film che vorrebbe vedere ma che le
sono vietati – Les enfants de l’amour, Quella certa età, Le compagne della notte
eccetera – di quelli che le sono concessi.
(Andare in città, sognare, darsi piacere e attendere: riassunto possibile di
un’adolescenza in provincia.)
Gli anni, Annie Ernaux
la storia degli Anni passa attraverso delle foto, immagini che rispecchiano il passare del tempo.
è geniale, proprio la foto fa testimonianza, che cattura la memoria di un istante, un istante perduto un attimo dopo, ma indelebilmente fissato, anche al posto della memoria stessa, quando tutto sarà cancellato.
sono stregata da questo libro, vado piano, non voglio perdermi niente, capisco che sto attraversando un luogo misterioso, capisco che sono sul limitare di qualcosa che potrebbe travolgermi, questa indagine sulla memoria e sulla perdita mi fa venire le vertigini.
quando lo leggo sento la morte che passa, vicina.
sento i miei genitori, sento i miei figli quando sarò morta.
2 commenti:
io l'ho letto alcuni anni fa, aveva colpito molto anche me
un po' la storia della mia/nostra generazione, vista al femminile e anche la storia di una liberazione femminile
E' sempre un piacere leggerti, Rossa
Un saluto
marco
ciao Marco buongiorno e scusa.
non ti ho risposto.
grazie del commento, il mio libro è pieno di orecchie, spunti da rivedere...quanta roba.
grazie ancora e buona giornata
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