l'ho comprato e poi ho cominciato ad ascoltarlo.
sicuramente la lettura d'altri non è come la propria, soprattutto se l'altro è un attore, che sia Servillo o Gifuni o Piera degli Esposti o Maddalena Crippa.
no non è la stessa cosa, e credo che sia di più.
qualcuno mi ha fatto notare che non è valida, una lettura d'altri non è valida. come a dire che sia una lettura impropria. impersonale. inautentica.
non so, a me fa molto bene. mi cambia la giornata, mi salva la vita, mi regala serenità e sorrisi e riflessioni.
leggevo, ascoltavo e sapevo bene che questa volta la scelta l'avevo fatta su una precisa indicazione, di uno di cui mi fido.
trattasi di Severgnini, trattasi di articolo su La lettura, trattasi di una breve trattazione sulla bellezza della brevità e di una citazione nel suddetto articolo.
peraltro una citazione che confuta il senso della trattazione, Gadda è tutto tranne che conciso.
Gadda è un giocoliere, un acrobata su un filo, un mago della parola. sento, avverto, percepisco un gusto inestinguibile nella ricerca dell'espressione verbale più ricca più pericolosa più sensazionale possibile. avverto un fanatismo fonetico, un'esasperazione riverberante. la parole rotolano, si inseguono, si creano l'un l'altra, si potenziano, si inventano da sole. non ho mai letto niente di simile, è veramente funambolico nel suo paziente reticolo di invenzioni lessicali, onomatopee, allitterazioni, assonanze, un gioco colto con il suono delle sillabe.
forse leggendo Nabokov, la sua Lolita, ho percepito un senso simile, una creazione fantasmagorica del discorso, la reinvenzione della lingua inglese da parte di un russo,la progressione della parola che tocca l'infinito, che va oltre la finitezza del verbo.
Gadda scrive in romanesco se la dobbiamo prendere alla leggera...e se ride alla granne, passa al molisano del suo protagonista dott. Ingravallo comm'aggia a pensà, si sposta all'inflessione veneta della sig.ra Menegazzi traumatizzata ...Mària Vergine! El me gaveva ipnotisà.. se si tratta di caratterizzare, e punta su un italiano colto, serio, sottilmente sarcastico quando si sposta con la telecamera sul paesaggio italiano degli anni venti, sulla descrizione demolitiva del fascio e dei suoi retorici armamentari. è una giostra di inflessioni sfumature e prese di posizioni grazie all'uso del linguaggio: la nuova resurrezione della Italia si aggiungeva a una rinascita poco tegumentata nelle specie naturali, e nelle pittoriche o poetiche di cui la notò il mondo come infame a un tempo ed insigne: e teneva dietro, dandosi l’aria di conchiuderlo pel meglio, a un risorgimento un tantino troppo generoso nel disprigionare pathos dal pelame de’ suoi trovieri capelluti, o barbuti, o lautamente baffuti, o gloriosi discopettoni o basette, bisognosi tutti, comunque, a gusto nostro, delle radicali cure di un figaro dalle drastiche forbici..
geniale.
se penso alla letteratura moderna, all'italiano che si legge oggi, anche in autori di successo, allora penso che abbiamo perso molto forse tutto. il virtuale ammazza ogni cosa, di certo la parola il discorso il messaggio la creatività e la ricchezza verbale.
ecco l'articolo, ecco Severgnini ed ecco la mia attuale audio lettura.
I vantaggi della concisione (escluso questo articolo)
ELOGIO MORALE DELLA BREVITA'
Da Tacito a Twitter la sintesi è bella e generosa. Regala tempo a chi legge.
Ho scoperto la sintesi una mattina d’inverno del 1970, nella stanza d’angolo di un palazzo d’epoca di Crema, affittato dal liceo-ginnasio Alessandro Racchetti per alloggiare quattro classi di movimentati adolescenti. Il nostro movimento non era politico, bensì sportivo; e rivendicava i propri diritti.
Nell’intervallo giocavamo a calcio in cortile e avevamo ottenuto, in caso di parità al suono della campanella, di poter disputare i supplementari.
Mi piaceva giocare a calcio, almeno quanto scrivere. Avevo strane idee in materia: ero convinto che la qualità dipendesse dalla quantità e dalla complessità. Arrivare alla quarta facciata del foglio di protocollo, nei compiti in classe, era una sfida. Sceglievo ogni polisillabo che mi avvicinasse all’obiettivo. La mattina, prima di uscire di casa, aprivo a caso il vocabolario e sceglievo tre parole insolite — per esempio «palese», «criptico» e «allegorico» — e le includevo nel componimento. Il tema assegnato era irrilevante. Il progresso? «È palese il collegamento tra progresso e istruzione. Può sembrare criptico solo a chi rifiuta il valore allegorico di alcuni personaggi letterari». La famiglia? «Il ruolo del padre è allegorico. Un riferimento palese e costante per i figli, un ruolo criptico per l’interessato». Un quattordicenne che scrive in questo modo va affidato subito a uno specialista. Ma erano tempi confusi, e molti insegnanti amavano lasciarsi ingannare.
Non la mia professoressa d’italiano, Paola Cazzaniga Milani (veniva da Milano, cosa che a tredici anni mi appariva interamente logica). Ricordo ancora quel compito in classe. Un lungo tema sulla libertà, che avevo farcito di inutili roboanti vocaboli, mi fruttò un misero 6. Un compagno di classe di notevole intelligenza e scarso impegno — alle medie producevamo insieme fumetti ciclostilati e costringevamo i parenti all’acquisto — scrisse solo una frase: «Libertà è il cielo azzurro qui fuori, incorniciato dalla finestra. Fa male guardarlo, chiuso in quest’aula. Meglio convincersi che è una fotografia». Voto 9, lettura in classe.
Non provavo invidia (è un sentimento di cui non sono mai stato capace). Ero sconvolto. La professoressa Milani lo capì e mi chiese di restare dopo la lezione. Disse soltanto: «Ricorda: meno è meglio». Da quel giorno, nei miei temi, solo avverbi svelti, un aggettivo alla volta, mai due «che» nella stessa frase. Mai superare la seconda facciata, per nessun motivo.
Ancora oggi scrivo — spero di scrivere — nello stesso modo.
La sintesi è una spremuta di pensiero: fa bene alla salute mentale. Aiuta a capire e a far capire. È un lavoro che facciamo per qualcun altro: ce ne sarà riconoscente. Nella scrittura — in tutte le forme di comunicazione — le parole superflue non sono inutili: sono dannose.
Non condivido, perciò, le preoccupazioni di Carlo Bordoni che recentemente, qui su «la Lettura», ha scritto: «Abbiamo inventato la logica binaria per far funzionare i computer e ora quella stessa logica inflessibile e stringata nella sua meccanicità ci insegna e ci governa».
Non capisco perché autori di qualità — Massimo Gramellini e Michele Serra, Francesco Piccolo e Jonathan Franzen — si siano scagliati contro la sensuale costrizione dei 140 caratteri. Twitter non è un’alternativa ad altre forme di espressione. È uno strumento nuovo. Un decespugliatore del pensiero.
...
Conoscete ragazzi che leggono Carlo Emilio Gadda, campione del plurilinguismo facondo? Io no. Stiamo parlando di un fuoriclasse, sia chiaro. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è un capolavoro che ha lasciato a bocca aperta anche un autore (sintetico) come Pier Paolo Pasolini. Sto ascoltando l’audiolibro recitato da Fabrizio Gifuni: uno spettacolare esercizio di bravura. Un testo mozzafiato,ma faticoso (Emilio Cecchi definì Gadda «un Joyce con una forte base di preparazione nelle scienze fisiche e meccaniche»). Il Pasticciaccio è un’opera molto lodata e spesso ricordata; ma ostica e poco conosciuta. L’avessi proposto a una ragazza nel 1973, avrei rischiato l’ostracismo. Quarant’anni dopo il rischio è immutato: ragazzi, non fatelo.
...
Sintesi è una parola greca (da syn, che significa «con», e thésis, che significa «posizione») che significa «composizione» (l’azione di mettere insieme). È, quindi, un destino etimologico: la composizione ha il dovere d’essere sintetica, quand’è possibile. Nessuno aveva intuito, vent’anni fa, quanto i messaggi di testo (sms) avrebbero cambiato la nostra vita. Insieme alle mail e ai social network hanno riportato la scrittura al centro della comunicazione: non accadeva dall’Ottocento. E scrivendo la brevità rende, perché è costretta ad arrivare all’essenziale. Uno sforzo che risparmiamo al destinatario, il quale ce ne sarà grato.
La forza dell’onda sintetica è evidente in altri fenomeni: l’ubiquità delle sigle, il successo delle contrazioni, la marcia della «k» contro il «ch», la lenta agonia della «i» afona (efficiente). Resistere non è eroico: è inutile e sbagliato. La lunghezza gratuita merita d’essere sconfitta. Anzi, punita. Spesso, infatti, è una forma di pigrizia. «Se avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve», si scusò Blaise Pascal (uno dei tanti autori cui viene attribuita questa frase). Prolissità e complessità, spesso, sono sintomi di confusione e pavidità: molti non si fanno capire perché temono di essere capiti.
La bella brevità è onesta, utile e generosa: non garantisce soltanto chiarezza ed efficacia, ma regala tempo a chi legge.
La «Columbia Journalism Review» ha diffuso i dati relativi al giornalismo longform negli Usa. Dal 2003 al 2012, gli articoli superiori alle 2.000 parole sono diminuiti dell’86 per cento. Non è una tragedia, è un progresso. Se poi, ogni tanto, vogliamo leggere lungo, nulla lo vieta.
Oggi, per esempio, l’avete fatto. Siete arrivati qui dopo 1.830 parole, e vi ringrazio.
Beppe Severgnini
apprezzo il parere di Severgnini -e lo ringrazio per la preziosa indicazione che ho colto al volo- ma non ne condivido tutta la portata.
penso, come dicevo, che twitter tolga tutto l'immaginabile, è una faccenda che non ha a che vedere con la sinrtesi, ma con la povertà. e soprattutto non ha a che vedere con linguaggio se non nel senso della sua paurosa desertificazione.
la brevità non mi appartiene, non ne sono capace, ma la apprezzo, almeno in certi contesti. spesso la invidio.
mi sono ritrovata ad ascoltare, pure da un'amica, elogi patologici della complessità, come se la complessità avesse dei pregi, se non quella di non farsi comprendere. chi sa quel che dice sa parlare, sa farsi capire, sa di ciò di cui sta parlando al punto di farlo capire agli altri, semplicemente. è poco? da quando non capire quel che si ascolta è sinonimo di ricchezza o di profondità? ma che discorso è? malato, fanatico, non condivisibile.
ed eccolo Gadda, mi fa impressione...
La Menegazzi, ravviati i capelli, entrò di
nuovo in scena, tossendo leggermente. Un
gran foulard lilla attorno al collo, che sul davanti appariva scarno e appassito: un tono
languido di tutta la traumatizzata persona. Un negligé un po’ imprevisto, tra giapponese e
madrileno, tra la mantiglia e il chimono. Un
baffo bleu sul volto piuttosto vizzo, la pelle
pallida, come d’un geco infarinato, le labbra
fatte di due cuori congiunti smaltate in un
rosso fragola dei più procaci, le conferivano
l’aspetto e il prestigio formale momentaneo
d’una tenutaria od ex frequentatrice d’una
qualche casa d’appuntamenti un po’ scaduta
di rango: non fosse stato invece quel tanto di
neovirginale e di rasciutto, e la tipica sollecitudine devozione delle indelibate, a collocarla
senza preventivo sospetto nel romantico elenco delle disponibili, oltreché donne per
bene. Era vedova. La mantiglia vestaglia si soprapponeva al foulard, ai foulards anzi, non
uno ma due, incipriati loro pure e vagamente
modulati nei toni, che sfumavano il primo nel
secondo e il secondo nei tenui pétali, o forse
farfalle, di quel chimono un tantino castigliano. Accavallò il suo referto a quello della
portinaia, dirizzando, precisando. Interloquiva con un tremito nella voce, nella povera voce, con una speranza negli occhi. Non forse
la speranza di riavere i suoi ori, ma la certezza... di usufruire della protezione della legge,
così validamente impersonata da Ingravallo.
Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se alcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l’orlatura e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne, d’un pallore da clorosi: quelle due cosce un po’ aperte, che i due elastici in un tono di lilla parevano distinguere in grado, avevano perduto il loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore. L’esatto officiare del punto a maglia, per lo sguardo di quei frequentatori di domestiche, modellò inutilmente le stanche proposte d’una voluttà il cui ardore, il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte, da quella riga, il segno carnale del mistero... quella che Michelangelo (don Ciccio ne rivide la fatica, a San Lorenzo) aveva creduto opportuno di dover omettere. Pignolerie! Lassa perde! Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondulazione chiara di lattuga: l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo, significava a momenti la frale gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione, tramutata ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino. Tese, le calze, in una eleganza bionda quasi una nuova pelle, dàtale (sopra il tepore creato) dalla fiaba degli anni nuovi, delle magliatrici blasfeme: le calze incorticavano di quel velo di lor luce il modellato delle gambe, dei meravigliosi ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile. Oh, gli occhi! dove, chi guardavano? Il volto!... Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio, sur naso!... Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel nimbo, che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte.