Le nostre formazioni sanitarie, ottenute grazie a Tarrou, debbono essere
giudicate con una soddisfazione oggettiva; per questo il narratore non si farà il
cantore troppo eloquente della volontà e d'un eroismo a cui egli non attribuisce che
un'importanza ragionevole. Ma egli continuerà a essere storico dei cuori straziati ed
esigenti che la peste diede allora a tutti i nostri concittadini.
Quelli che si votarono alle formazioni sanitarie non ebbero sì gran merito a farlo,
infatti: sapevano ch'era la sola cosa da fare e che il non decidersi a farla, questo
sarebbe stato incredibile. Le formazioni aiutarono i nostri cittadini a penetrare nella
peste e li persuasero in parte che, se c'era la malattia, bisognava fare il necessario per
combatterla. Siccome la peste, in tal modo, diventava il dovere d'alcuni, apparve
realmente quello che era, ossia una faccenda di tutti.
Questo è bene. Ma non ci si congratula con un maestro di scuola per il fatto
d'insegnare che due più due fa quattro. Forse ci si congratula con lui per aver scelto
un bel mestiere. Diciamo quindi ch'era lodevole se Tarrou e altri avessero cercato di
dimostrare che due più due fa quattro piuttosto che il contrario, ma diciamo inoltre
che questa buona volontà l'avevano in comune col maestro di scuola, con tutti quelli
che hanno lo stesso cuore del maestro di scuola e che, per l'onore dell'uomo, sono più
numerosi di quanto non si pensi: tale almeno è la persuasione del narratore. Questi,
d'altronde, vede benissimo la obiezione che si potrebbe fargli, ossia che quegli
uomini rischiavano la vita. Ma arriva sempre un momento nella storia in cui chi non
osa dire che due più due fa quattro è punito con la morte. E la questione non è di
sapere quale sia la ricompensa o la punizione che spetta a tale ragionamento. La
questione è di sapere se due più due, sì o no, fa quattro. Per quei nostri concittadini
che allora rischiavano la vita, si trattava di decidere se, sì o no, erano nella peste e se,
sì o no, bisognava combatterla.
Molti nuovi moralisti andavano allora dicendo nella nostra città che nulla, nulla
sarebbe servito e che bisognava mettersi in ginocchio. E Tarrou, e Rieux, e i loro
amici potevano rispondere questo o quello, ma la conclusione era sempre quella a
loro nota: bisognava lottare in questo o in quel modo e non mettersi in ginocchio.
Tutta la questione era d'impedire al maggior numero possibile d'uomini di morire e di
conoscere la separazione definitiva. Per questo non c'era che un solo mezzo:
combattere la peste. Questa verità non era ammirevole, ma soltanto logica.
Per questo era naturale che il vecchio Castel mettesse tutta la sua fiducia e la sua
energia nel confezionare dei sieri sul posto, con materiale di fortuna.
Rieux e lui speravano che un siero fatto con le colture del microbo stesso che
infestava la città avrebbe avuto un'efficacia più diretta dei sieri venuti da fuori: tale
microbo, infatti, differiva dal microbo della peste, com'era classicamente definito.
Castel sperava d'avere assai presto il suo primo siero.
Per questo, anche, era naturale che Grand, che nulla aveva dell'eroe, assicurasse ora
una sorta di segretariato alle formazioni sanitarie. Una sezione delle squadre formate
da Tarrou si consacrava, infatti, a un lavoro d'assistenza preventiva nei quartieri
sovrappopolati. Si cercava d'introdurvi la necessaria igiene, si faceva il còmputo dei
granai e delle cantine non visitate dalla disinfezione. Un'altra sezione delle squadre
aiutava i medici nelle visite a domicilio, assicurava il trasporto degli appestati e anche
in séguito, in assenza del personale specializzato, guidò i veicoli dei malati e dei
morti.
Tutto questo esigeva un lavoro di registrazione e di statistica che Grand aveva
accettato di compiere.
Da questo punto di vista, e più di Rieux o di Tarrou, il narratore ritiene che Grand
fosse il vero rappresentante di quella virtù tranquilla che animava le formazioni
sanitarie. Aveva detto di sì senza esitare, con la buona volontà che gli era propria.
Aveva soltanto domandato di rendersi utile in piccoli lavori; era troppo vecchio per il
resto.
La peste, Albert Camus
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