bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 27 settembre 2019

le figlie impazzite che pregano e aspettano la capitolazione del giorno

ho perso le braccia - la lingua anchilosata
le caviglie inchiodate al materasso
la verticalità appartiene ai palazzi,
l'orizzonte ai morti e alle figlie impazzite
che pregano e aspettano
la capitolazione del giorno

Gaia Ginevra Giorgi

Instanza
resto in piedi coi piedi
(e con le mani in mano)
mi hai scucito le briglie ai vestitini
e me ne sto
precisamente nuda (non un filo
coperto)
si alza un poco la fronte
(il naso lo lascio dov'è)
e la mano in bocca non è la mia
mi tengo qualche voglia
per l'inverno
(e qualche maglia
per non essere rosa carne)

Roberta Durante

e poi Wissal Houbabi
di cui non trovo tracce poetiche sul web ma che è una gran bella poetessa rap e araba e marocchina e bellissima

le ho ascoltate al Poetry Slam (ha vinto Wissal) del tempo delle donne e ne serbo un ricordo bellissimo
che fulgore la poesia nella bocca e nel corpo di tre bellisiime giovani donne.

giovedì 26 settembre 2019

corpus christi

regia di Jan Komasa.
chi è?
non lo so.
con Bartosz Bielenia.
e lui chi è?
di nuovo non lo so.
so che sono in un film, Corpus Christi, in anteprima alle Giornate degli Autori di Venezia 2019.
come l'ho scelto?
per intuizione vedendo il trailer.
film polacco.
sembra un suicidio.
e invece è un capolavoro.

un ragazzo è in riformatorio e la vita non gli sorride.
per uno strano equivoco e cavalcando l'inganno si trova a improvvisarsi prete, pur seguendo una qualche vocazione, in un paese dove non so.
la comunità gli riconosce carisma e in effetti ne ha da vendere con una visione del mondo autentica, calorosa, singolare e generosa.
il ragazzo torna però in riformatorio, l'equivoco viene scoperto e così risolto, e la vita non solo non gli sorride, assume una tonalità drammatica, imprevista, a me insopportabile, con una inquadratura finale indimenticabile.
una parabola.

un film che ha tutto da dire, niente da dimenticare.
ho letto una recenione sul web e ne riporto la chiosa finale, direi perfetta:
Il crescendo del film è luttuoso, l’incedere emotivo fragoroso: merito di una sceneggiatura che non fa una grinza (con tanto di chiusura difficile da dimenticare) e anche di un protagonista superlativo.
(https://www.masedomani.com/2019/09/02/recensione-film-corpus-christi/)

martedì 24 settembre 2019

come osate?

come osate?
è un'espressione desueta, antica.
da dove viene?
mi sono domandata quale parte inconscia di Greta la faccia parlare così.
a chi si rivolge con tanta rabbia e indignazione fino alle lacrime?
in fondo non ha importanza cosa muova la sua rabbia e a chi stia veramente parlando.
ora parla al mondo.
alla faccia della sindrome di Asperger.
il suo superpotere, il superpotere della differenza, della diversità.
e dalla sua diversità, emozionata, non teme di svergognarci tutti, di smascherarci.
non concede nulla, sembra impenetrabile, esprime disprezzo con il volto, parla uno splendido inglese.
non ammicca, non cerca consensi, non concede nulla all'immagine, in assoluta ostinata tenace controtendenza. 
quel che mi colpisce è il valore simbolico delle sue parole.
Greta parla agli adulti e li richiama alle loro responsabilità.
come osate, voi adulti, negare a me, a noi, ragazzi, il diritto ai nostri desideri?
Greta parla ai padri, al padre evaporato della nostra società liquida e desautorata.
chiama, esige, pretende un padre, una figura che sappia, come ogni padre dovrebbe fare, garantire la via al desiderio di ogni figlio.
mi avete rubato i sogni l'infanzia la scuola. come osate?
come osi, padre, negarmi il diritto al futuro, come osi padre non fare ciò che sei chiamato a fare, come osi padre non essermi di esempio, come osi padre essere incapace di tenere fede alla tua parola verso di me? essere garanzia del mio desiderio perchè sei portatore del tuo.
come osi, padre, come osate, genitori, venire meno alla vostra funzione?
garantire la strada del progetto, della via sociale alla felicità, alla realizzazione del desiderio. 
come osate?
how dare you?
noi, figli, vi guardiamo, vi teniamo d'occhio, siete sotto il nostro sguardo.
e se non terrete fede al vostro mandato noi non vi perdoneremo mai.

si, mi sono sentita tirata in causa.

lunedì 23 settembre 2019

non contate più un cazzo

ha una bel da fare il febbrile Alessandro D'avenia nel suo articolo di oggi sul Corriere.
e pure l'inveterato e ormai consumato Umberto Galimberti, qualche giorno prima, sempre sulle pagine del Corriere.
il primo oggi cita due racconti di Kafka, il primo si intitola Rinuncia, ed è, al solito, di grande potenza.
Era di mattina molto presto, le strade pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello di un campanile, vidi che già era molto più tardi di quanto avessi creduto, dovevo affrettarmi, l’ansia per quella scoperta mi fece incerto della strada, non conoscevo ancora bene quella città; per fortuna lì vicino c’era una guardia, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada. Egli sorrise e disse: “Da me vuoi sapere la via?”. “Sì”, dissi, “perché non riesco a trovarla da me”. “Rinuncia, rinuncia!”, disse e si girò bruscamente, come chi vuole essere solo con la propria risata.
nell'articolo cita Umberto Galimberti, intervistato sul Corriere settimana scorsa, che denuncia: «i ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca...Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista — prosegue Galimberti — i problemi erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso».
scrive D'avenia che il vuoto di senso ha i suoi guardiani, come racconta Kafka: essi non dicono che non ci sia una strada, ma scherniscono chi la cerca, voltandosi dall’altra parte, con una risata. Sono coloro che, a vario titolo, annichiliscono (la radice è la stessa di nichilismo) le vite loro affidate. In qualsiasi ambito (politico, economico, professionale, educativo...), i burocrati della Rinuncia non spingono ma spengono la vita.
"voi non contate più un cazzo", se la ride dall'alto della torre di citylife.
quel che contano sono gli influencer e e quelli che li accompagnano.
lo squallido Fedez (mai musica fu più infelice e marcescente di quella degli ultimi anni tra rapper e trapper, un'inno al nichilismo all'arricchimento all'uso facile e povero delle parole), a seguito della montagna di soldi che il criticatissimo film di sua moglie sta incassando, afferma, rivolgendosi ai critici, a gran voce: potetete pure dire quello che vi pare, ma ormai non contate più un cazzo.
già la forma e il depauperatissimo italiano dicono tutto sulla levatura dei personaggi ma quel che conta, oltre alla miseria umana di chi rispone con volgarità a chi si è speso di criticare usando le strutture fondamentali alla vita della ragione della valutazione e dell'educazione, è che la ragione sta solo dalla parte dei soldi.
vendo guadagno sono ricco viaggio spendo posto quindi io ho ragione su di te.
il mio denaro non ha bisogno di cultura e formazione, già da solo dice tutto, dice tutto di me, del potere che io ho in confronto a te. alla gente piaccio, come i salvini come i like delle votazioni 5 stelle, questo conta, questo paga, questo arricchisce.
come per salvini con i rosari in mano e i baci alla madonna, così per questa gente conta il consenso della massa, la risposta di pancia, le viscere che fanno aprire il portafoglio e recarsi al cinema per vedere un sottoprodotto della cinematografia italiana e quindi urlare al successo.
perlamadonna io piaccio.
quindi tu sei un coglione.
abbiamo aperto le porte a questo consenso, a questo vuoto di senso e nessuno mai ce ne libererà.
la cultura tecnologica dei cellulari degli instagram del web degli influencer del populismo ha splancato la porta della volgarità, dell'arricchimento sulla vacuità, sul sostegno dell'incompetenza e non torneremo indietro mai più.
anche io ho un bel da fare dietro a film teatri convegni concerti mostre, dietro al culto della bellezza per farne senso, al cibarmi di boccate di  bellezza.
io e quelli come me non contiamo un cazzo, contano loro e i soldi che fanno.
e sono in molti, anche dentro casa, a farmelo notare. non conto più un cazzo.
per questo guardo con grande interesse all'unico possibile rivolgimento culturale, quello ecologico.
leggo con commozione dei milioni scesi in piazza venerdì scorso, in tutto il mondo, per chiedere una speranza di salvezza per questo mondo in fiamme.
ecologia oggi, o forse da sempre, è politica.
perchè la questione non si ferma all'abuso e spreco delle canucce di plastica, la questione è sostanziale e chiede un fondamentale cambio di passo.
la questione sta nell'arresto, se mai è possibile, della corsa capitalistica.
il capitalismo non ha migliorato il mondo, ha creato abissi incolmabili tra classi sociali e gruppi  etnici mondiali, ha scavato nello sfruttamento delle risosrse di paesi poveri, ha favorito guerre universali, ha consentito la distruzione in macerie della Siria e permesso trasumanaze epocali di milioni di uomini verso un futuro possibile.
la corsa del capitalismo all'arricchimento incondizionato, al consolidamento della richezza di chi già la possiede, l'inarrestabile accelerazione lavorativa che fa stramazzare chi il lavoro ce l'ha e fa morire di fame chi non ce l'ha e mai l'avrà, è la corsa allo sfruttamento incondizionato delle risorse del pianeta, finchè anche il pianeta, stremato, alzerà bandiera bianca affondando nelle acque dello spreco e dell'ingordigia dell'uomo tecnologico.
antropocene.
non se ne può più di questa eccentricità, del singolo (o quanti ce ne sono) e dell'umanità.
vorrei vedere i miei figli unirsi a questo slancio, ma non tutti i figli vengono col buco, come le ciambelle.
i figli non ci somigliano e questi navigano indifferenti dietro alle loro piccole cose o ai grandi progetti di fare montagne di soldi, da grandi. da grandi. e quante risorse invece ci sono, ora, da giovani?
il capitalismo ha attecchito bene in loro, nonostante me.
mi piacerebbe vedere questo movimento culturale cambiare lo stato attuale del nulla, del vuoto di senso, mi piacerebbe vedere accendersi una fiamma, non amazzonica, ma di desiderio in giovani e non.
mi piacerebbe avvertire un "via di qua, via di qua, solo questa è la mia meta", citata nell'altro racconto di Kafka, riportato da Alessandro D'Avenia nel suo bell'articolo di oggi.
"non ho bisogno di viveri, il viaggio è così lungo che dovrò morire di fame, se non ricevo nulla sulla via. nessuna provvista mi può salvare, per fortuna è un viaggio veramente immenso."

giovedì 19 settembre 2019

Titani

non so come sia possibile, ma pare lo sia.
anzi lo è.
l'ho sentito.
sabato mi sono deliziata con la filarmonica di San Pietroburgo con la rassegna MiTo.
e c'era un primo violino indimenticabile, un vero dandy, russo, alto, impeccabile, lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle, scarpe di vernice, lughissime gambe, occhiali inforcati solo al momento del lavoro musicale, elegante, movenze virili in un contesto di sublime bellezza (vorrei saper descrivere come la Munro ma non ci posso proprio arrivare..).
prima
James MacMillan
Larghetto for Orchestra
poi
Gustav Mahler
Sinfonia n. 1 in re maggiore “Titano”
tutto mi è piaciuto, certo con Mahler abbiamo scalato alto, abbiamo toccato il cielo.
l'orchestra mi è sembrata speciale.
molto speciale.
l'abbiamo anche attesa fuori dal conservatorio, e certo il raffinato Lev Klychkov non ha perso smalto con i vestiti borghesi al contrario dei suoi connazionali. tutti riuniti li abbiamo perfino inseguiti una volta saliti sui tre pullman per chissàdove (vabbè dai, probabilmente Torino).
a parità di Mahler, seppure con la ben diversa Sinfonia n. 4 in sol maggiore “La vita celestiale”, l'effetto orchestra è risultato anch'esso ben diverso ieri sera alla serata finale della rassegna, a Dal Verme.
si, un'altra cosa. l'orchestra della Rai è sembrata in confronto un gruppetto di dilettanti.
mi imbatto in un trafiletto sul Corriere che commenta (a distanza di quasi una settimana!) il concerto di sabato e mi conforta con una valutazione eccelsa della qualità del suono dell'orchestra di San Pietroburgo, scuro, morbido e vellutato, sapiente nel suo modo unico di fraseggiare che inscena una prima sinfonia rapinosa e scintillante (Enrico Girardi).
mi domando come sia possibile.
come si fa a creare un suono diverso?
come può un'orchestra suonare meglio di un'altra?
come può un'orchestra (che è un organismo palpitante e vivo che mi commuove solo a vederlo figurarsi ad ascoltarlo) suonare in modo unico ed inequivocabile e creare un suono così potente e incisivo?
lo so che la risposta c'è, è chiaro, io non la so per ignoranza, e per me rimane uno splendido gioioso mistero.

il solito tempo, delle donne

mi sono fatta il mio giro dalle parti del Tempo delle Donne.
le considerazioni sono sempre le stesse, il giornalismo non è scienza, ma opinioni, non sempre proprio supportate dall'evidenza.
ne ho sentite di cose, e a volte mi chiedo perchè chiedere a Annalisa o a Francesca Einaudi opinioni in merito al corpo. mi domando perchè loro ne debbano sapere di più di una qualsiasi altra persona. 
non ne sanno di più, si chiede a loro per una questione ovvia di visibilità e popolarità, quindi il sistema si morde la coda.
ore a sproloquiare quanto ci si debba difendere dal boomerang dell'esposizione dell'immagine e poi si chiede a chi fa di questo sistema il suo di sostentamento in vita come se la cava con il suo specchio.
lo chiedi a loro, e non a me, proprio perchè è la loro immagine che conta, e non la mia. giusto?
si contorcono in risposte insensate, come se l'esposizione dell'immagine fosse un obbligo. 
si può fare l'attrico o la cantante senza esporsi al pubblico ludibrio.
senza scrivere tutti i giorni su instagram.
senza dire quanto si va in palestra o dove si va in vacanza.
se ci stai sai quel che paghi.
ovvero moltissimo.
inoltre, sono convinta che le signore, le Sandrelli, madre e figlia e nipote, le cantanti, le starlette, le Boschi e le Santanchè, tutte le signore famose intervistate dicano delle gran balle.
ma grosse.
stanno tutte benone.
tutte hanno risolto "la cosa".
tutte "se ne fregano", tutte non si fanno problemi, dicono quel che vogliono, fanno quel che pare a loro.
tutte a posto con il loro corpo, tutte si piacciono come sono.
tutte serene in pace con se stesse, tutte "risolte".
non una che abbia detto la verità.
cioè che non c'è donna al mondo che con il corpo non ci litighi tutti i santi giorni della sua vita, e la bellezza non salva, e che la questione si affievolisce con l'età, a meno che poi l'età non dia il colpo fatale con la menopausa.
ognuna si porta con sè, nel suo scrigno corporeo, misteri e traumi e immaginari carichi di contraddizioni e sofferenze.
qundi, alla fine, la kernmesse risulta inutile, nessuna delle donne si svela, vince l'immagine sopra ogni cosa, è per questo che sono lì. è per questo che il Corriere della Sera le chiama.
per contarsela su.

venerdì 13 settembre 2019

rach 3

ed è così che Nicola Campogrande, sempre lì, seduto in ogni teatro nella stessa identica posizione, centrale, centralissima, sta piazzando le sue bombe musicali, una dopo l'altra.
vorrei essere meno stanca e pure bionica per riuscire a seguirle tutte e sempre con lo stesso livello di attenzione, ma non ce la faccio.
posso dire che Rach 3 (ovvero il Concerto n. 3 in re minore per pianoforte e orchestra op. 30 di Sergej Rachmaninov) eseguito dalle agili - agili? basta agili? ma no che non basta- mani di Alexander Romanovsky, e il Concerto per due pianoforti e orchestra di Francis Poulenc e il Il carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns eseguiti dalla fantasmagoriche e inaspettate Katia e Marielle Labèque -mammamia che personaggi-, sono stati momenti altissimi di impegno e divertimento, allo stesso tempo.
andare ai concerti è un lavoro e una gioia allo stesso tempo, almeno per come io ascolto la musica. 
sono fanatica e intollerante, sono schizzata e intransigente, penso sovente a punizioni esemplari per le persone a me prossime nelle file dei teatri, davanti, dietro, di fianco o in giro per la sala alle 21.10 a cercare il proprio posto a sedere, in fondo scopro che sono un soggetto asociale e poco incline alla clemenza, la musica, per quanto celestiale, non ha fatto di me una persona migliore.
ma chiedo a Campogrande di non mollare causa mia.

a questa particolare persona, a quella, selezionate dal mucchio, apposta, una alla volta

- C'è una cosa di cui non ti ho parlato.
...
- Riguarda il nostro bambino più piccolo- disse- il nostro bambino più piccolo è morto l'estate scorsa.
Oh.
- Travolto da una macchina - disse - al volante c'ero io. stavo facendo marcia indietro sul viale di casa.
...
Sapevo già tutto. Adesso sapevo vhe Mike aveva toccato il fondo. Mike sapeva con esattezza - come io non potevo sapere e nemmeno lontanamente immaginare - che cosa sia il fondo. Lui e sua moglie l'avevano scoperto insieme, e questo li aveva legati, come una cosa che può soltanto separare per sempre o legare per tutta la vita. Non che avrebbero continuato a vivere là, sul fondo. Ma gliene sarebbe rimasta la consapevolezza, sarebbe rimasta la conoscenza di quello spazio chiuso, centrale, vuoto e senza calore.
Poteva succedere a chiunque.
Certo. Ma non è così che sembra. Sembra invece che capiti a questa particolare persona, a quella, selezionate dal mucchio, apposta, una alla volta.
Dissi: - Non è giusto -. Mi riferivo alla distribuzione di questi castighi casuali, di questi corpi devastanti e maligni. Peggiori in circostanze del genere, forse, che non quando avvengono fra mille disgrazie, nel mezzo di una guerra o di un'altra catastrofe umana. Peggio che mai quando esiste un individuo il cui gesto, magari nemmeno consueto, è da ritenersi l'unico responsabile dell'accaduto.
...
- Comunque - disse Mike, con voce gentile. Il giusto non sta di casa da nessuna parte, in fondo.
(da Ortiche, Alice Munro)

ammiro e invidio il talento di Alice Munro, anche se lo guardo come una cosa lontana, in fondo.
condensa, sintetizza, narra in poche pagine.
quando leggo un'autrice come lei mi rendo conto del vano tentativo di migliaia di scrittori improvvisati che scrivono libri inutili e nocivi alla letteratura, che danneggiano l'ambiente saturandolo di prodotti scadenti e scaduti.
saper scrivere è un dono raro e quando c'è è irrimediabile, è devastante. è una marea, uno tsunami, è un effetto potente che cambia la vita, di chi scricve e di chi legge. 
è inequivocabile.
Munro ha un talento spaventoso, anche troppo.
di lei non amo troppo la condensazione del racconto. il racconto è una formula ibrida che non mi soddisfa, direi mai.
non posso che riconioscerne il carattere e inchinarmi al genio ma un racconto mi lascia pochissimo, quasi niente.
Munro poi è anche criptica a volte, leggo e non so cosa abbia voluto dirmi con quella storia al punto che credo non gliene freghi un gran che di dirmi qualcosa.
è COME lo dice che conta.
almeno, che conta per me.
a volte rimango minuti a pensare alla parola che ha usato, all'espressione che ha adottato, a ciò che ha osservato e descritto, a come è entrata dentro, nella carne.
lei scava, con grazia e senza ombra di retorica, non è mai ridondante, è raffinatissima nelle tecniche temporali e nei colpi di scena, negli avanti e indietro nel tempo narrativo. è cinematografica.
certo sono istantanee, sono attimi, sono momenti sublimi di verità letteraria.
di lei, di Ortiche, di Nemico, amico, amante, non mi porto via le storie,
mi porto via un universo di parole e di descrizioni esemplari esaltanti, l'idea che dovrei mettermi a studiare la lingua italiana, scandagliarla, imparare parole nuove, arriccchire il mio vocabolario, per poi usarlo e trasmetterlo, e combattere tenacenente e fino all'ultimo respiro una battaglia per questo barbaro impoverimento, miserevole e meschino, della nostra lingua italiana. 

venerdì 6 settembre 2019

MiTo, scuola di musica

arriva zoppicando, aiutato da un bastone.
Zubin Metha è del '36.
lo segue, e lo sostiene, anticipata dalla sua ben nota chioma seppure ormai grigia, Martha Argerich, del '41.
non due novellini, non due promesse, due pilastri della musica.
del concerto n.2 per piano e orchestra di Beethoven, di fatto, io sento solo lei, sento solo il piano.
la Synphonie Fantastique di Berlioz, mi interessa meno.
ero alla Scala, e abbiamo detto tutto.
indubbiamente ero in buona compagnia, nella fila davanti alla mia c'erano almeno due assessori del Comune di Milano, direi Cocco e Scavuzzo.
sopra, palco centrale, insieme a Sala, c'era Del Corno.
a centro sala Nicola Campogrande, chedioglienerendamerito.
sempre al piano di sopra Anna Gastel, direttore della rassegna.
a destra ho visto De Bortoli, a sinista la Shammah.
ne ho visti altri, certamente non li ho riconosciuti.
ho visto una Scala molto elegante, non è più sempre così, a certi balletti ho visto gente in bermuda e ciabatte, gente seduta per terra, nel foyer.
la prima di MiTo è la seconda prima della Scala, è fuor di dubbio.
la questione è seria, molto mondana, molto abbordabile anche, però.
e non è poco.
ieri sera ero all'Auditorium, Carmina Burana di Carl Orff e Till Eulenspiegels lustige Streiche poema sinfonico di Richard Strauss.
mi sono piaciuti?
non particolarmente.
dei Carmina Burana amo la questioncina della fortuna, la ruota che gira e ci annienta tutti piccoli e potenti ha un potere oscuro e maligno che  mi affascina.
però, mi dico, a MiTo imparo una valanga di cose, è come andare a scuola di musica.
ascolto a volte composizioni trascinanti e sconvolgenti, a volte meno, ma in ogni caso sono immersa nella musica. in questi anni ho portato a casa bottini milionari.
per 20 giorni non faccio altro e certamente devo a Campogrande un merito immenso, mi insegna la musica, me la fa ascoltare, me la fa conoscere, io gli sono grata.
è il momento della gratitudine, è chiaro.

giovedì 5 settembre 2019

non lasciarmi

Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro.
questo libro è stata un'esperienza.
un'esperienza che non credevo possibile con un libro.
ciò che mi è arrivato non è tramite la scrittura ma tramite la non scrittura.
ciò che è scioccante di questa narrazione non è ciò che vi si trova scritto ma ciò che non vi si trova.
è un'esperienza forte, fortissima, basata sulla sottrazione.
siamo in un tempo possibile, quello degli anni 90, ma con un innesto fantascientifico. la creazione per clonazione di individui destinati alla donazione di organi.
la storia, potrei anche quasi dire, non è interessante, la narrazione, soprattutto all'inizio, è straniante, estranea, distante, indifferente.
e tutta la storia dei protagonisti, nel suo dipanarsi, ha un tratto portante che non tradisce mai la propria consistenza: è totalmente priva di emozioni.
la perdita (non si dice mai MORTE) dei soggetti, giunti al termine del loro "ciclo", seppure presenti per tutto il libro, è lasciata indietro, da una riga all'altra, improvvisamente, senza nessuna, e dico nessuna, nota sentimentale, ma nemmeno un parola è spesa sul distacco, la perdita, la malinconia, la mancanza.
ciò che è iniziato senza amore finisce senza amore.
si sviluppa una prossimità, un attacamento per contingenza, perfino una sessualità, senza che nulla lasci traccia, solco, dolore o gioia.
la potenza devastante di questo libro è in ciò che non c'è. non ci sono genitori, non c'è famiglia, potrei dire che non c'è inconscio.
non c'è nevrosi, non c'è ripensamento, non c'è divisione, non c'è dolore.
non ci sono case, non ci sono luoghi, non ci sono tradizioni, non ci sono abitazioni, non ci sono professioni, non ci sono capi, non ci sono figli, la vita è una somma di giorni, disadorna e disabitata.
una cosa c'è, eccome se c'è. la solitudine.
c'è un inzio indistinto che non è stata una nascita e c'è una fine indeterminata che non è una morte.
non è l'esistenza che fa un uomo, non è il suo essere e abitare il mondo, è ciò da cui veniamo e ciò verso cui andiamo che ci rende umani.
senza radice e senza rami, l'abero è un tronco spoglio, deprivato di ogni speranza.
la storia prosegue in una narrazione monocorde che a tratti, sempre più, insistente e insinuante, fa sorgere dubbi e domande - ma chi sono? cosa sono queste persone? cosa hanno? di cosa mancano?- e che si conclude su una specie di speranza, qualcosa che ha a che fare con una malinconia, una nostalgia, con una vaga idea di ciò che la vita sarebbe potuta essere se fosse stata vita.
i protagonisti, soprattutto la voce narrante, cercano di farsi portatori di un senso, ma tutto li abbandona, cercano di aderire a ricordi e progetti, ma l'incosistenza derivante dal non essere mai nati, e di andare verso una non morte, disperde ogni energia, in modo disperante.
vorrei che fosse chiaro che nulla di tuttò ciò è mai scritto, esplorato, narrato, indagato.
è la mancanza di tutto ciò che fa esplodere la sensazione che la vita narrata non è la nostra, non è la mia, è un corpo estraneo (non alieno, non robotico, anche questo sia chiaro, sarebbe una banalità sconcertante) in cui i giorni si susseguono senza che nulla prima abbia lasciato un segno, una traccia, un tatuaggio, un segno di riconoscimento.
sono ammaliata da un talento di questa misura. questa è una creazione senza pari, capisco il nobel alla letteratura, ma forse bisognerebbe fare di più, dargli di più, dirgli meglio, dirgli ancora, al signor Ishiguro, che ha un potere sulla parola spiazzante e sorprendente.
sono anche sconcertata dalle critiche che leggo dove sfolgorano parole come emozione commozione e tristezza e addirittura amore (nel commento che accompagna il libro perfino) che mi lasciano sgomenta perchè mi dice che chi legge usa parametri precodificati, pregiudiziali, perchè sono queste le categorie che ci si aspetta da un libro  ma che in questo libro, con genio magistrale, proprio non ci sono per consegnarci la paura di una umanità senza inconscio. 
chi legge non sa leggere in attesa di uno stupore, di una cosa nuova, di un modo e di un mondo inediti di cui parlare ma mette ciò che già sa, stupidamente, pigramente, senza testa. 
io non so nemmeno dire se il libro mi è piaciuto, non lo so dire, non è questa la categoria che possa permettere di dire di questo libro. 
questo libro è altro, altro che non avevo mai incontrato e che mi ha posto un insolvibile enigma.
grazie.
(anche a chi me lo ha consigliato ormai due anni fa)

lunedì 2 settembre 2019

Bath for ever day

















questa città nella sua straordinaria scenografia, immersa in un verde rigoglioso, disegnata architettonicamente in modo superbo, splendidamente gerogiana nel suo stile, a tratti intatta (peccato per le auto), sovente set cinematografico (come anche durante la mia visita), è un miracolo di bellezza e incanto.
e io sono stata presa da un incantesimo, avrei voluto rimanerci per giorni, vivere alla fine del 700, passegguare con Jane Austen e scambiare le ultime impressioni sul ballo alla Assembly Room.