ha una bel da fare il febbrile Alessandro D'avenia nel suo articolo di oggi sul Corriere.
e pure l'inveterato e ormai consumato Umberto Galimberti, qualche giorno prima, sempre sulle pagine del Corriere.
il primo oggi cita due racconti di Kafka, il primo si intitola Rinuncia, ed è, al solito, di grande potenza.
Era di mattina molto presto, le strade pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello di un campanile, vidi che già era molto più tardi di quanto avessi creduto, dovevo affrettarmi, l’ansia per quella scoperta mi fece incerto della strada, non conoscevo ancora bene quella città; per fortuna lì vicino c’era una guardia, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada. Egli sorrise e disse: “Da me vuoi sapere la via?”. “Sì”, dissi, “perché non riesco a trovarla da me”. “Rinuncia, rinuncia!”, disse e si girò bruscamente, come chi vuole essere solo con la propria risata.
nell'articolo cita Umberto Galimberti, intervistato sul Corriere settimana scorsa, che denuncia: «i ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca...Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista — prosegue Galimberti — i problemi erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso».
scrive D'avenia che il vuoto di senso ha i suoi guardiani, come racconta Kafka: essi non dicono che non ci sia una strada, ma scherniscono chi la cerca, voltandosi dall’altra parte, con una risata. Sono coloro che, a vario titolo, annichiliscono (la radice è la stessa di nichilismo) le vite loro affidate. In qualsiasi ambito (politico, economico, professionale, educativo...), i burocrati della Rinuncia non spingono ma spengono la vita.
"voi non contate più un cazzo", se la ride dall'alto della torre di citylife.
quel che contano sono gli influencer e e quelli che li accompagnano.
lo squallido Fedez (mai musica fu più infelice e marcescente di quella degli ultimi anni tra rapper e trapper, un'inno al nichilismo all'arricchimento all'uso facile e povero delle parole), a seguito della montagna di soldi che il criticatissimo film di sua moglie sta incassando, afferma, rivolgendosi ai critici, a gran voce: potetete pure dire quello che vi pare, ma ormai non contate più un cazzo.
già la forma e il depauperatissimo italiano dicono tutto sulla levatura dei personaggi ma quel che conta, oltre alla miseria umana di chi rispone con volgarità a chi si è speso di criticare usando le strutture fondamentali alla vita della ragione della valutazione e dell'educazione, è che la ragione sta solo dalla parte dei soldi.
vendo guadagno sono ricco viaggio spendo posto quindi io ho ragione su di te.
il mio denaro non ha bisogno di cultura e formazione, già da solo dice tutto, dice tutto di me, del potere che io ho in confronto a te. alla gente piaccio, come i salvini come i like delle votazioni 5 stelle, questo conta, questo paga, questo arricchisce.
come per salvini con i rosari in mano e i baci alla madonna, così per questa gente conta il consenso della massa, la risposta di pancia, le viscere che fanno aprire il portafoglio e recarsi al cinema per vedere un sottoprodotto della cinematografia italiana e quindi urlare al successo.
perlamadonna io piaccio.
quindi tu sei un coglione.
abbiamo aperto le porte a questo consenso, a questo vuoto di senso e nessuno mai ce ne libererà.
la cultura tecnologica dei cellulari degli instagram del web degli influencer del populismo ha splancato la porta della volgarità, dell'arricchimento sulla vacuità, sul sostegno dell'incompetenza e non torneremo indietro mai più.
anche io ho un bel da fare dietro a film teatri convegni concerti mostre, dietro al culto della bellezza per farne senso, al cibarmi di boccate di bellezza.
io e quelli come me non contiamo un cazzo, contano loro e i soldi che fanno.
e sono in molti, anche dentro casa, a farmelo notare. non conto più un cazzo.
per questo guardo con grande interesse all'unico possibile rivolgimento culturale, quello ecologico.
leggo con commozione dei milioni scesi in piazza venerdì scorso, in tutto il mondo, per chiedere una speranza di salvezza per questo mondo in fiamme.
ecologia oggi, o forse da sempre, è politica.
perchè la questione non si ferma all'abuso e spreco delle canucce di plastica, la questione è sostanziale e chiede un fondamentale cambio di passo.
la questione sta nell'arresto, se mai è possibile, della corsa capitalistica.
il capitalismo non ha migliorato il mondo, ha creato abissi incolmabili tra classi sociali e gruppi etnici mondiali, ha scavato nello sfruttamento delle risosrse di paesi poveri, ha favorito guerre universali, ha consentito la distruzione in macerie della Siria e permesso trasumanaze epocali di milioni di uomini verso un futuro possibile.
la corsa del capitalismo all'arricchimento incondizionato, al consolidamento della richezza di chi già la possiede, l'inarrestabile accelerazione lavorativa che fa stramazzare chi il lavoro ce l'ha e fa morire di fame chi non ce l'ha e mai l'avrà, è la corsa allo sfruttamento incondizionato delle risorse del pianeta, finchè anche il pianeta, stremato, alzerà bandiera bianca affondando nelle acque dello spreco e dell'ingordigia dell'uomo tecnologico.
antropocene.
non se ne può più di questa eccentricità, del singolo (o quanti ce ne sono) e dell'umanità.
vorrei vedere i miei figli unirsi a questo slancio, ma non tutti i figli vengono col buco, come le ciambelle.
i figli non ci somigliano e questi navigano indifferenti dietro alle loro piccole cose o ai grandi progetti di fare montagne di soldi, da grandi. da grandi. e quante risorse invece ci sono, ora, da giovani?
il capitalismo ha attecchito bene in loro, nonostante me.
mi piacerebbe vedere questo movimento culturale cambiare lo stato attuale del nulla, del vuoto di senso, mi piacerebbe vedere accendersi una fiamma, non amazzonica, ma di desiderio in giovani e non.
mi piacerebbe avvertire un "via di qua, via di qua, solo questa è la mia meta", citata nell'altro racconto di Kafka, riportato da Alessandro D'Avenia nel suo bell'articolo di oggi.
"non ho bisogno di viveri, il viaggio è così lungo che dovrò morire di fame, se non ricevo nulla sulla via. nessuna provvista mi può salvare, per fortuna è un viaggio veramente immenso."