Un giorno di ottobre, sul battello Ischia-Capri un uomo appoggiato al parapetto di prua contro il vento e il sole guardava fisso e senza pensiero il blu del mare e le spume bianche.
Disse: «L’estate è finita», la gola si chiuse e non poté più parlare. Allora pensò: “Chissà dove sarà” e rivide accanto a sé su quello stesso parapetto di prua la moglie che non vedeva più da molti anni, e come quell’estate la guardò. Aveva lunghi capelli castani raccolti a coda di cavallo ma battuti dal vento, un volto ovale timido e selvatico da suora orientale, cortissimi shorts bianchi, una camicetta di Madras scolorita, scarpe da tennis impolverate di rosso sui piedi nudi, pelle già scura, denti bianchi e forti e un po’ convessi (spesso teneva la bocca schiusa). Aveva diciannove anni, non parlava quasi mai, si muoveva e camminava in fretta con confusione e grazia, spesso aveva fame, sete e sonno. Insieme non avevano molti soldi, anzi pochi, ma erano molto felici e molto infelici come succede a quell’età. Litigavano moltissimo, lui la tirava per i capelli per non farle troppo male, certe volte la prendeva anche per il collo e stringeva, o le storceva il braccio, lei lo graffiava, soprattutto tirava calci.
Ma quel giorno di quell’estate erano abbastanza
felici arrivando a Capri e lui avrebbe voluto dirle,
vedendola così vestita: «Come sei graziosa» con vero
e imparziale entusiasmo; ma non lo disse per
timidezza, per timore di essere troppo parziale e anche
perché voleva fare un po’ il duro. Non avendo
molti soldi e anche per gentilezza portarono da soli
le valige (vecchissime, bellissime, con etichette
Goa, Singapore), salirono con la funicolare, attraversarono
la piazzetta lei in fretta e con gli occhi
bassi perché qualcuno guardava e arrivarono non
senza fatica ma senza pause alla Pensione Scalinatella.
Nel percorso dalla piazzetta alla pensione lei
sentì il profumo delle bougainvilles e vide il colore
viola e morbido di quel fiore coprire un vecchio
muro: il piccolo naso si arricciò un poco (lei annusava
sempre tutto) e non disse nulla.
Il Signor Morgano li accompagnò alla loro stanza
e spalancò le finestre su una terrazza che guardava
la Certosa e il mare. Coltissimo il napoletano
capì dei due giovani sposi tutto quanto c’era da capire,
la natura selvatica ed elegante di lei, il cervello
a conchiglia di lui (che già conosceva), notò con
occhio guizzante il cerchietto d’oro al dito di lei ma
ebbe il genio di dire: «La signorina non conosce
Capri?» Lei intuì il genio del signor Morgano, le
piacque molto quel nome di fata, schiuse le labbra
ridendo e disse: «No». A seguito del signor Morgano
arrivò un bambino vestito di bianco con un cocomero
in ghiaccio, poi scomparvero senza che nessuno
li udisse scomparire. La stanza era grande,
bianchissima, con soffitto a volta, lenzuola, copriletti,
coperte, tutto bianco. Il pavimento era di mattonelle
azzurre e su quell’azzurro freddo e lucente
in terrazza c’era un tavolo bianco e due grandi
chaises longues di vimini dipinte di bianco. Oltre
la terrazza c’erano pini e tamerici di due verdi diversi,
cupolette bianche, terrazze e giù in fondo, di
là dai salti di roccia, il mare blu. Sul mare blu un
grande panfilo blu, fermo e ondulante e dietro il panfilo
un motoscafo bianco in corsa.
Non uscirono subito perchè in quel momento si amavano e perchè lei mangiò mezzo cocomero verde e rosso con le mani e, cosa strana, sorrise per la seconda volta. Solo dopo uscirono, percorsero tutta la strada di Tragara fino alla punta. Da lì, senza dire nulla, senza annunciare ciò che sarebbe apparso, lui scese verso i faraglioni tra i pini. Si aspettava un commento ma lei non parlò, arricciò ancora il naso e poi tese le narici per sentire bene l’odore di resina ma non fece nessun commento. Come altre volte egli invece guardò dall’alto le due rocce salire dagli abissi blu tra piccole e lente spume estive, avvolte alla sommità dai grandi branchi di bianchi uccelli planipteridoi (non gli piaceva chiamarli gabbiani, né diomedei e questo nome lo teneva per sé in omaggio all’autore) tra fortissimi stridi. Ma non seppe resistere e disse alla moglie il suo segreto: «Sai come si chiamano quegli uccelli?».
«I gabbiani?»
«Non so se sono gabbiani, non credo, pare siano di un’altra specie, rara e molto antica. Io li chiamo planipteridoi.»
Lei cercò di spalancare i suoi occhi a mandorla. «Pla...» disse, e si fermò. Per concentrarsi l’occhio sinistro si fece un poco strabico, pochissimo.
«Planipteridoi» disse l’uomo e la baciò su una guancia.
«Pla-ni-pte-ri-doi » ripeté lei con molta attenzione guardando dentro di sé e per aiutarsi a dirlo prese una mano di lui e la strinse forte quasi aggrappandosi.
Scesero correndo il lungo sentiero e arrivarono ai piedi dei faraglioni. Lì entrarono in una cabina, appoggiarono maschere e pinne, si spogliarono in fretta nudi e si guardarono chiusi tra le vecchie assi piene di mare e di sale, poi si abbracciarono per un momento e tutti stretti sentirono il loro odore (lei lo annusò tra il collo e la spalla), infilarono i costumi e scesero verso la grande piscina naturale di mare frizzante tra i picchi. Infilarono pinne e maschere molto in fretta, si tuffarono, si guardarono sott’acqua e si presero per mano un momento, poi riemersero. Lei aveva i capelli gocciolanti e flottanti sull’acqua, e ciglia gocciolanti sugli occhi a mandorla e altre gocce sul volto un po’ contratto per il sale dentro gli occhi e per le brevi raffiche di acqua, aria e jodio che il vento soffiava dalla stretta gola della prima roccia. Lui avrebbe voluto dirle: “Come sei splendente” perché il cuore di lei e tutto il suo carattere selvatico splendevano di una grandissima autonomia naturale e solitaria. Ma egli fu geloso di questa autonomia e della sua fortunata bellezza e qualcosa di meschino gli fece dire soltanto «Come sei carina», ma lei nella sua felice sordità e autonomia marina non udì.
Si tennero per mano e guardarono sott’acqua nelle profondità sempre più buie piccoli branchi di saraghi (più l’abisso sprofondava più lei stringeva la mano di lui), nuotando lenti e come volanti attraverso il bacino e toccarono con mani di madreperla le prime rocce taglienti di Monacone. Lì si arrampicarono dentro forre e cunicoli fino alla cima e tra grosse lucertole restarono al sole. Poi tornarono a inabissarsi nelle profondità marine, poi riemersero e nuotarono lentamente e raggiunsero il punto da dove erano partiti.
Mangiarono sulla terrazza di legno sconnesso “Da Luigi”, ma con tovaglia bianca e bicchieri a calice di un vetro verde e leggerissimo che si appannò subito al vino d’Ischia ghiacciato. Sentirono il sapore di zolfo di quel vino mischiarsi in bocca al sale amaro del mare e le labbra diventare più dure e come anestetizzate dal bordo gelido e sottile del bicchiere senza peso. Mangiarono cozze al pepe (lei succhiava le cozze con la piccola bocca indurita dal vino freddo) e a quel punto lui la baciò proprio su quelle labbra per sentire se era vero: era vero, le labbra erano indurite dal vino freddo e fuori, intorno, sopra il labbro era rimasto un po’ di sale. Mangiarono un’aragosta enorme: lei masticava rapidamente, con forza, a bocca chiusa; ma sapeva, conosceva le cose che mangiava e il momento in cui le mangiava? L’uomo che in quegli anni intuiva soltanto, se lo chiese. No, lei non sapeva, era troppo giovane per sapere, aveva molta fame e basta e subito dopo mangiò una mozzarella in carrozza.
Dormirono abbracciati su un materassino su uno scoglio, coperti da un asciugamano di ciniglia blu, con un grande delfino, un bordo giallo e una piccola iniziale. Anche lui dormì (meno), con la guancia appoggiata a quella di lei già un po' madida; per qualche breve istante si svegliava, sentiva i capelli umidi di lei sulla spalla, una volta sentì che lei nel sonno gli dava due o tre bacini molto piccoli sulla guancia.
Restarono fino al tramonto, si tuffarono ancora nell'acqua senza sole e si asciugarono, poi salirono il sentiero tra i pini a passi veloci, sudando moltissimo.
La notte dormirono tra le bianche lenzuola che sapevano odore di aria mattutina, tenendosi per mano come dentro il mare. La finestra era spalancata e l’uomo guardò per molto tempo la luna: era luglio, poi venne agosto, e così passò l’estate.
Da I sillabari, Goffredo Parise
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