"Credo che non lo sappia dire nessuno che cos’è la poesia. Io penso che per me sia stata una ricerca, fin da ragazzo, di me stesso e della mia identità. Vedere chi sono insomma, cercare di capire chi sono e attraverso di me, cercare di capire chi sono gli altri. Perché io penso che il poeta sia un po’ come il minatore che dalla superficie cioè dall’autobiografia scava, scava, scava, scava finché trova un fondo nel proprio Io che è comune a tutti gli uomini. Scopre gli altri in se stesso.”
Mia ambizione, o vocazione, è sempre stata quella di riuscire, attraverso la pratica del verso, a trovare, cercando la mia, la verità di tutti. O, per esser più modesti e precisi, una verità (una delle tante verità ipotizzabili) che possa valere non soltanto per me ma anche per tutti gli altri mèzigues (o "me stessi") che formano il prossimo (l’Altro, diciamo pure), del quale io non sono che una delle tante cellule viventi.
Il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli stratti superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno conoscenza.
L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria esistenza o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dai laterizi delle proprie personali esperienze, a costruendo con tali laterizi le proprie metafore, riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare a giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono a individuare.
Mi par che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta, in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto nel profondo di se stesso una verità che vale per tutti, e che già, come la Bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti, in attesa del Principe capace di svegliarla.
E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale – civile – della poesia, sta, o dovrebbe stare, appunto in questo. "
(http://www.lamacchinasognante.com/giorgio-caproni-sulla-poesia/)
Giorgio Caproni
(Univrsità di Urbino , 1 dicembre 1984: trascrizione dell’intervento tenuto delll’autore in occasione dell’assegnazione della Laurea Honoris Causa).
a proposito di Gifuni, domenica sera, il 10 giugno, è proprio lui che ho ascoltato, al Franco Parenti, leggere Giorgio Caproni.
è il suo corpo che ha prestato, ancora una volta, alla letteratura, alla poesia, a Caproni.
Caproni è un galantuomo, un uomo delizioso, un poeta da divorare.
amo la sua immediatezza, la sua linearità, il suo grande amore per la lingua italiana, il suo modo di dire poesia, il suo amore per sua madre, quel suo io che, così sondato nell'abisso, diventa noi.
Gifuni mi ha fatto il solito eccezionale dono, la sua voce, la sua lettura ad alta voce, il suo ritmo, il suo accento, le sue parole di Caproni, la sua poesia di Caproni, i suoi discorsi di Caproni (era Caproni), il suo omaggio alla nostra bellissima inesauribile lingua italiana, la sua musica vocale, la sua musica viscerale.
come farà a vivere tutta quella gente che domenica non è venuto a sentirlo??
"Allora io vidi in Enea, non la solita figura virgiliana, ma vidi proprio la condizione dell’uomo contemporaneo, della mia generazione: solo nella guerra, con sulle spalle un passato che crolla da tutte le parti, che lui deve sostenere e che per mano ha un avvenire che ancora non si regge sulle gambe. Proprio l’uomo solo, vedovo, rimasto così…, senza né una speranza, né una tradizione. Avevo visto il simbolo, appunto, della mia generazione."
Il passaggio d'Enea
1 - Didascalia
Fu in una casa
rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo, come il mare.
Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.
Erano lampi erranti
d'ammotorati viandanti.
Frusciavano in me l'idea
che fosse il passaggio d'Enea.
2 - Versi
A l'accent familier
nons devinons le spectre.
La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo, e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fìtte d'un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l'occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!... Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t'aggrediscono — l'acume
t'aprono in petto, e il fruscio, delle vele.
T'aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle molli cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma - entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell'ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi cui nebulosa e sfatta
casca la palla morta di mano. E se dice
il sangue che c'è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano — il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscio delle streghe.
Ti ferma in petto il richiamo d'Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico il senso, e in quell'eterno
rombo di fibre rotolanti a un'asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell'assurdo delirio — trovi i gridi
spenti in un'acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d'ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lèmure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.
Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido - Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
dì porre in salvo, e al rullo d'un tamburo
ch'è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell'avvampo
funebre d'una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dei fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto,
d'estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo — possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio — al cuore dell'ottenebrato
principe d'Aquitania), olte le magre
torri abolite l'imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l'alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce — il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.
3 - Epilogo
Sentivo lo scricchiolio,
nel buio, delle mie scarpe:
sentivo quasi di talpe
seppellite un rodio
sul volto, ma sentivo
già prossimo ventilare
anche il respiro del mare.
Era una sera dì tenebra,
mi pare a Pegli, o a Sestri.
Avevo lasciato Genova
a piedi, e freschi
nel sangue i miei rancori
bruciavano, come amori.
M'approssimavo al mare
sentendomi annientare
dal pigolio delle scarpe:
sentendo già di barche
al largo un odore
di catrame e di notte
sciacquante, ma anche
sentendo già al sole, rotte,
le mie costole, bianche.
Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso, nei panni,
dell'acqua dei miei anni.