Erodias, a teatro, con Federica Fracassi.
testo di Giovanni Testori.
Teatro I di Milano
non voglio farla lunga, il testo è incredibile, la lingua di Testori fracassante.
lo spettacolo è uno stordimento ipnotizzante.
quel che mi preme dire è che Federica Fracassi mi ha travolta, sedotta, illuminata.
l'ho vista recitare più volte in questo ultimo anno, due volte impegnata con Ibsen al Franco Parenti, bellissima soprattutto in Rosmersholm .
ma qui, in Erodias, la Fracassi mi è sembrata immensa.
è una donna.
una donna normale.
un corpo normale, femminile, come tanti ce ne sono al mondo, senza particolari bellezze.
una donna normale.
un volto normale, dei capelli strepitosi in un volto regolare.
eppure
Federica Fracassi si dona con un'intensità fisica, verbale ed emotiva di potenza esplosiva.
mi ha donato il suo corpo, bellissimo, travolgente, il suo volto, straordinario e vivo, come mai nessuno. o meglio, ho visto, più volte, Gifuni fare la stessa straordinaria fatica, con il medesimo ardore.
il corpo si fa parola, la parola si fa corpo.
ma Gifuni ha una sua obiettiva bellezza, Federica Fracassi acquista bellezza donandosi, così generosamente, così autenticamente, così immensamente in questo testo viscerale e violento, visionario, moltiplicato da una lingua pulsionale in un'invenzione epocale.
“Jokanaan! Juan, Juan“
per saperne di più, dal sito del teatro (http://teatroi.org/portfolio/erodias/)
“Jokanaan!“
Erodiàs, il più violento dei Tre Lai, inizia così, con un urlo reiterato che si fa gioco di parole, musica che parte dal nome ebraico del Battista e che giunge a poco a poco a conficcarsi nella carne lombarda dilaniata.
Giovanni Testori ha dedicato a Erodiade più di un testo. Noi scegliamo Erodiàs, l’Erodiade spodestata, posseduta, ossessiva, che balbetta. Noi partiamo dalla rabbia che smangia l’essere umano quando si trova davanti al limite, alla finitudine, quando il discorso s’incaglia e resta solo la potenza del grido.
Perché affrontare Erodiàs? Che cosa rappresenta oggi questa donna dilaniata d’amore per Giovanni Battista? Che cosa raccontano le sue parole di lussuria verso il profeta, simbolo di una religione che lei non riesce a comprendere né a definire?
Erodiàs incarna un tempo in cui la ragione non è ancora arrivata: una zona d’ombra non illuminata dalla luce dello spirito, un eterno purgatorio in cui la conoscenza/coscienza non trova spazio. Un personaggio “sottovuoto”, una figura bidimensionale che vive dietro un vetro. Un manichino che a noi si mostra da una vetrina di sbarlusc: il suo è un mondo inevitabilmente separato dal nostro, ma ora del tutto compromesso e scardinato dall’arrivo di un Dio che si è fatto carne: il verbum.
Sulla scena un quadro che prende vita e, al contempo, un negozio o uno schermo: l’unica dimensione in cui Eròdias può ancora sopravvivere, seppur confusa da quel conzerto e conzertino di dubbi e domande che il profeta ha in lei provocato. Non è abbastanza averlo messo a tacere con un atto cruento e blasfemo: la testa di Giovanni, separata da corpo, continua a parlarle, la provoca, le impone interrogativi a cui non trova risposta.
Erodiàs non è più l’Erodiàs che era, ormai è il Battista stesso. Di lui prende le fattezze, una maschera nella maschera, da lui prende parole che non conosce, che non stanno ancora nella sua bocca, di lui cerca segni in ogni dove.
Da lui, dall’amore per lui, nasce il suo tormento: che fare? Come andare avanti?
Questa domanda risuona. Anche oggi.
Che fare di un Dio che è diventato uomo e che, come ogni uomo, può anche sbagliare? Che fare di un mondo che ha perso il suo centro? Che fare di un amore che si sapeva di carne eppure ha l’odore dell’anima?
Lo spettatore assiste. Guarda e aspetta, non può fare altro.
Per l’ennesima volta vede, davanti a sé, una dicotomia senza tempo: corpo e mente, ignoranza e conoscenza, sesso e morte. Infinite declinazioni della stessa cosa.
Di una vita che cerca, non trova, e allora attende. Attende. Come se non ci fosse altra possibilità che questa.
Ma è così? Oggi, è davvero così?
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