Il panorama qui era vasto, multiforme e improntato a liberalità. I suoni delle
lingue più conosciute si fondevano in uno smorzato sussurro. L’abito da sera, universale
assisa di costumatezza, collegava esteriormente in una cornice signorile
le varie specie di umanità. Accanto alle facce lunghe e scarne degli americani si
vedeva la numerosa famiglia dei russi, signore inglesi, bambini tedeschi con bambinaie
francesi. L’apporto slavo sembrava predominante: proprio lì vicino sentì
parlare polacco.
Era un gruppo di adolescenti o poco più che tali, raccolto attorno a un tavolino
di vimini, sotto la sorveglianza di un’istitutrice o dama di compagnia che fosse:
tre giovinette che mostravano dai quindici ai diciassette anni di età, e un ragazzo
dai capelli lunghi sui quattordici anni. Aschenbach notò con meraviglia la bellezza
perfetta di quest’ultimo. Il volto pallido e gentilmente assorto, incorniciato
dai capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la bocca vezzosa, l’espressione
soave e divina di gravità ricordavano le sculture greche dell’epoca aurea; e alla
pura compiutezza dell’aspetto si univa una grazia così rara e insigne che lo scrittore
si confessò di non aver mai veduto, né in natura né in alcun prodotto delle
arti figurative, un simile capolavoro. Da un altro particolare fu richiamata la sua
attenzione: l’evidente netto contrasto fra i criteri educativi che rispecchiava l’abbigliamento
e, in genere, tutto il contegno del fratello in confronto alle sorelle.
Le vesti delle ragazze – la maggiore delle quali poteva già dirsi una donna fatta
– erano compassate e austere al punto da imbruttirle: tre tonache monacali identiche,
di media lunghezza e di tinta mattone, disadorne e volutamente goffe nel
taglio, rilevate unicamente da un colletto bianco rovesciato, e tali da mortificare e
da impedire ogni avvenenza fisica. I capelli lisci e ben aderenti al capo, davano ai
loro visi l’espressione vuota e insignificante delle converse. Era ben ravvisabile
la mano di una madre, che evidentemente non pensava nemmeno a seguire anche
col ragazzo la severità pedagogica ritenuta idonea alle figlie. Visibilmente l’esistenza
di lui si svolgeva in un’atmosfera di tenerezza e di sollecitudine. Neppure
un colpo di forbici aveva toccato la sua bella chioma: come nella celebre statua della Spinario, essa cadeva ricciuta sulla fronte, sopra gli orecchi e giù fino agli
omeri. L’abito inglese alla marinara, dalle maniche a sbuffo che, restringendosi
verso il basso, aderivano agli esili polsi delle mani ancora infantili ma ben fatte,
conferiva alla leggiadra figuretta, con le sue cordelline, i fiocchi e i fregi, un che
di lussuoso, di opulento. Seduto di tre quarti rispetto ad Aschenbach, egli teneva
l’uno sull’altro i piedi calzati di scarpe di vernice nera e con un gomito si appoggiava
al bracciolo della poltrona, sostenendo la guancia col pugno chiuso, in un
atteggiamento di grazia noncurante, affatto alieno dalla compostezza quasi subalterna
delle tre sorelle. Che fosse sofferente? La pelle del viso, in verità, risaltava
col biancore eburneo sotto l’oro scuro del nimbo di ricci. O forse era null’altro
che un figlio viziato e coccolato, l’oggetto di un amore partigiano e capriccioso?
Aschenbach propendeva a crederlo. A quasi ogni natura di artista è innata una
tendenza procace e proditoria ad ammettere ingiustizie creatrici di bellezza, a
mostrarsi comprensivo e benigno di fronte a un’aristocratica predilezione.
La morte a Venezia.
Thomas Mann.
che vertigine questo libro.
un rapimento.
la mia ammirazione è assoluta.
che uso sbalorditivo della parola.
e ne leggo una traduzione, chissà nella sua forma originale.
la morte compare dall'inizio, nella forma di un'apparizione funerea, misteriosa e inquietante in un cimitero, nelle prime pagine del libro.
e molte saranno le apparizioni nel corso della narrazione, come allucinazioni o fantasmi, macchie inconsce che prendono consistenza.
l'apparizione di Tadzio suona come una premonizione di morte, una folgorazione di aristrocratica bellezza, crudele e definitiva, una condanna, che rasenta l'umiliazione e il ridicolo, all'infimo, all'abisso.
Or dunque, vedi che noi poeti non possiamo essere né saggi né dignitosi? Che fatalmente cadiamo nell’errore, fatalmente rimaniamo dissoluti venturieri del sentimento? Menzogna, millanteria è la nostra padronanza dello stile, buffonaggine la nostra fama e gli onori di cui godiamo; grottescamente ridicola la fiducia riposta in noi dal volgo, temeraria e indifendibile impresa l’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte. Come potrebbe infatti fungere da educatore colui che irrimediabilmente e per sua propria natura è spinto verso l’abisso? Vorremmo sì distogliercene, vorremmo acquistare dignità; ma ovunque dirigiamo i nostri passi, esso ci attira. Così avviene che rinneghiamo la forza dissolvitrice della conoscenza: poiché, mio Fedro, la conoscenza non possiede dignità né rigore; è consapevole, comprensiva, clemente, priva di riserbo e di forma; ha simpatia per l’abisso, è l’abisso medesimo. Noi dunque la ripudiamo energicamente, e da questo momento ogni nostro studio avrà di mira la bellezza, ossia la semplicità, la grandezza e il nuovo rigore, la seconda spontaneità, la forma. Ma forma e spontaneità, mio Fedro, conducono al desiderio delirante, facilmente portano il nobile animo a orribile colpe sentimentali, che a lui stesso, nel suo armonioso rigore, appariranno infami; portano, insomma, anch’esse all’abisso. Vi portano, intendimi bene, noi poeti: perché a noi non è dato elevarci, è dato soltanto imbestiarci. E ora, Fedro, io me ne andrò e tu rimarrai qui; e aspetta di non vedermi più, per andartene.
Or dunque, vedi che noi poeti non possiamo essere né saggi né dignitosi? Che fatalmente cadiamo nell’errore, fatalmente rimaniamo dissoluti venturieri del sentimento? Menzogna, millanteria è la nostra padronanza dello stile, buffonaggine la nostra fama e gli onori di cui godiamo; grottescamente ridicola la fiducia riposta in noi dal volgo, temeraria e indifendibile impresa l’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte. Come potrebbe infatti fungere da educatore colui che irrimediabilmente e per sua propria natura è spinto verso l’abisso? Vorremmo sì distogliercene, vorremmo acquistare dignità; ma ovunque dirigiamo i nostri passi, esso ci attira. Così avviene che rinneghiamo la forza dissolvitrice della conoscenza: poiché, mio Fedro, la conoscenza non possiede dignità né rigore; è consapevole, comprensiva, clemente, priva di riserbo e di forma; ha simpatia per l’abisso, è l’abisso medesimo. Noi dunque la ripudiamo energicamente, e da questo momento ogni nostro studio avrà di mira la bellezza, ossia la semplicità, la grandezza e il nuovo rigore, la seconda spontaneità, la forma. Ma forma e spontaneità, mio Fedro, conducono al desiderio delirante, facilmente portano il nobile animo a orribile colpe sentimentali, che a lui stesso, nel suo armonioso rigore, appariranno infami; portano, insomma, anch’esse all’abisso. Vi portano, intendimi bene, noi poeti: perché a noi non è dato elevarci, è dato soltanto imbestiarci. E ora, Fedro, io me ne andrò e tu rimarrai qui; e aspetta di non vedermi più, per andartene.
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