Poiché la bellezza, o mio Fedro, solo la bellezza è insieme
amabile ed evidente: essa è – notalo bene – l’unica forma dell’incorporeo che
i nostri sensi riescono ad accogliere e a sopportare. Altrimenti, che avverrebbe
di noi se la divinità stessa, la ragione cioè e la virtù e la verità, ci apparissero in
modo sensibile? Non periremmo, non bruceremmo d’amore, come già Semele di
fronte a Zeus? La bellezza è dunque, per l’animo senziente, la via che conduce
allo spirito: la via soltanto, null’altro che un mezzo, mio piccolo Fedro… E poi disse la cosa più sottile, lo scaltro corteggiatore: disse cioè che l’amante è più
divino dell’amato, poiché il dio è nel primo, non nel secondo; forse il pensiero
più dolce e più irridente che mai sia stato pensato, traboccante di tutta la malizia,
dell’arcana voluttà del desiderio.
è un libro sulla decadenza, forse per questo Luchino Visconti lo ha agguantato e diretto in un film.
è un libro sulla bellezza, ma con le sue crepe, con gli odori di fogna, con le rughe, con i belletti, i ringiovanimenti e, alla fine di tutto, la morte.
quanti riferimenti al dominio imperante dell'illusione dell'immortalità che ha invaso la mente di uomini e donne, gli uni che arrancano dietro a donne di 20 o 30 anni più giovani, le altre che si annientano dietro a maschere di plastica oscene, si ritrovano nei pensieri crepuscolari di Aschenbach.
è un libro di apparizioni, continue, insistenti, l'immagine e lo sguardo sono un filo conduttore di tutta la narrazione. Tadzio appare e quell'apparizione, ripetuta e sofferta, è l'inizio della curva discendente, l'inizio di un ripensamento su uno stile di vita dedicato al dovere che, improvvisamente, vira verso il piacere dei sensi, in un moto inarrestabile, incontenibile, incontrollabile, al limite della morale, insaziabile e, invitabimente, fatale.
Era la familiare via della laguna, quella che passa davanti a San Marco e percorre
il Canal Grande. Sul sedile semicircolare di prua, Aschenbach se ne stava
col braccio appoggiato al parapetto, facendosi schermo della mano agli occhi.
Oltrepassati i giardini pubblici, si schiuse ancora e sparì la grazia principesca
della Piazzetta; poi cominciò la grande sfilata dei palazzi, e allo svolto dell’arteria
d’acqua apparve la mirabile campata marmorea di Rialto. Egli guardava col cuore
infranto; e respirava a lunghe boccate, piene di doloroso dolcezza, l’atmosfera
della città, quel lieve sentire putrido di mare e di palude: quello stesso da cui
aveva voluto fuggire tanto in fretta… Come, come mai gli era stato possibile non
sapere, non pensare fino a qual punto tutto ciò facesse parte del suo cuore? Quello
che al mattino era stato un mezzo rimpianto, un’ombra di dubbio circa l’opportunità
del suo passo, ora si tramutava in affanno, in reale sofferenza, in un’angoscia
dell’anima così forte da riempirgli più volte gli occhi di lagrime: un’angoscia
che – si ripeteva – egli non avrebbe mai preveduta. Ché, evidentemente, in fondo
a quell’amarezza si annidava il pensiero, a tratti addirittura lancinante, che non
gli sarebbe stato più concesso di rivedere Venezia, che quello era un addio per
sempre. Per la seconda volta era apparso certo come la città gli riuscisse esiziale,
per la seconda volta s’era visto costretto ad abbandonarla a precipizio; necessariamente
d’ora in poi sarebbe stata per lui una dimora impossibile ed esclusa, un
soggiorno superiore alle sue forze; e sconsigliato da parte sua il ritentarlo. Sì,
questo egli sentiva: se partiva ora, il pudore e l’orgoglio gli avrebbero per sempre
interdetto il ritorno all’amata città, al cui contatto per ben due volte il suo fisico
aveva ceduto; e quel cimento fra le aspirazioni dello spirito e le possibilità della
carne assumeva di colpo, agli occhi del senescente, tale importanza e gravità, la
sconfitta fisica gli appariva così obbrobriosa, così ad ogni costo deprecando, che
non riusciva a perdonarsi l’inconsulto fatalismo con cui, il giorno prima, si era
risolto a subirla e ad ammetterla senza dare strenua battaglia.
Via via che il vaporetto s’avvicinava alla meta, dolore e smarrimento sempre
più sconvolgono il suo animo turbato.
...
e così si verificò lo strano caso: venti minuti dopo essere arrivato
alla stazione, il pellegrino si trovò sul Canal Grande, in via di ritorno verso
il Lido.
Bizzarra avventura, inverosimile e umiliante, grottesca e fantastica insieme:
aver preso definitivo e desolato congedo da un luogo, e poi, per un capriccio, per
un risucchio del destino, tornare a vederlo entro il giro di un’ora! Spumeggiando a
prua, bordeggiando agile e arguto tr gondole e vaporetti, il piccolo scafo puntava
veloce alla sua meta con un unico passggero a bordo, che sotto una maschera di
indispettita rassegnazione si sentiva trepidante e baldanzoso al pari di un monello
scappato di casa. Ancora, di quando in quando, gli si muoveva dentro un riso al
pensiero di quel disguido: più propizio di così, egli si diceva, nessun beniamino
della sorte poteva uagurarselo! Avrebbe dovuto dare spiegazioni, affrontare visi
sbalorditi; be’, dopo di che – si disse – ogni cosa tornerà a posto, sarà evitata una
disgrazia, rimediato un grave errore; e tutto ciò che aveva creduto di lasciarsi
addietro gli si sarebbe di nuovo dischiuso; tutto sarebbe stato, finché gli piacesse,
ancora suo… Del resto, lo illudeva la veloce corsa, o davvero, per colmo di gioia,
finalmente il vento soffiava dal mare?
Le onde battevano sulle pareti di cemento dello stretto canale che attraversa
l’isola fino all’Hôtel Excelsior. Una corriera automobile era lì ad attendere il
reduce e lo portò, lungo il mare increspato, in linea retta all’Hôtel des Bains. Giù
per la scalinata gli venne incontro il piccolo direttore baffuto dalla finanziera a
coda di rondine.
Con sommesse, suadenti parole deplorò l’accaduto, che definì spiacevolissimo
per lui personalmente e per la direzione; si disse tuttavia convinto che Aschenbach
aveva fatto bene a decidere di tornare lì per aspettare il baule. Purtroppo la
sua camera era stata già occupata, ma ve n’era subito un’altra, ugualmente buona.
«Pas de chance, monsieur» gli disse sorridendo il ragazzino svizzero dell’ascensore,
mentre la cabina saliva. Ed ecco il fuggiasco di bel nuovo acquartierato in
una camera pressoché identica, per posizione e arredo, alla precedente.
Dispose nella stanza il contenuto della sua valigetta e popi, affranto, stordito
da quella mattinata turbinosa e singolare, sedette in una poltrona presso la finestra
aperta. Il mare, adesso, era di una tinta verde pallida, l’aria pareva più fine e più
28
pura, più colorite le cabine e le imbarcazioni sulla spiaggia, benché il cielo rimanesse
grigio. le mani congiunte in grembo, Aschenbach guardava fuori, contento
di essere di nuovo lì, corrucciato e scotendo il capo al pensiero dei suoi tentennamenti,
di come conosceva male i suoi desideri. Così se ne stette seduto una buona
ora, in pace, seguendo vuote fantasticherie. Verso mezzogiorno scorse Tadzio:
aveva il suo vestito a righe col fiocco rosso. Di ritorno dal bagno, attraversava la
barriera della spiaggia e, seguendo la passerella, rientrò nell’albergo. Aschenbach
di lassù lo riconobbe subito, ancor prima che l’occhio ne percepisse esattamente
l’immagine, e si provò a qualcosa come: “Oh Tadzio, ecco, rivedo anche te!”. Ma
nello stesso istante sentì quel fiacco saluto crollare e ammutire di fronte alla realtà
del suo cuore; sentì che gli fremeva il sangue, che l’anima sua gioiva e dolorava,
e comprese che solo per Tadzio aveva tanto sofferto, partendo.