mi piaciono le immagini, mi piacciono i disegni, le illustrazioni, le foto sgranate, i video distorti, la nebbia dei ricordi.
la voce, che vuole essere la sua, quella di Laurie Anderson, recita in italiano per decisione della stessa autrice, come dichiarato all'inizio del film, ma non va bene, legge male, mi rendo conto che spesso sono tesa nello sforzo di capire cosa dice e questo comporta il fatto che mi dimentico cosa dice, non lo registro in modo automatico, qualcosa mi sfugge. cos'ha detto? non capisco. non ricordo.
la stesura del testo è confusa, illogica, segue una dimensione quasi onirica. in effetti il film inizia con un sogno, che è la natura stessa del film. Laurie partorisce il cane, il suo amatissimo cane ormai scomparso (non c'è bisogno di spiegare direi), tra sangue e sensi di colpa, ovvero quello di aver messo in scena il suo parto avendolo cucito dentro la sua pancia per rappresentarne la nascita.
cominciamo bene, penso io.
l'antropormifizzazione degli animali è un bel problema, ormai dilagato esploso incontenibile.
almeno lei non ne fa mistero, che lo fa parlare, lo fa artista scultore, lo fa suonare.
l'addomesticamento forzato a essere umano è tanto violento sull'animalità quanto la vivisezione, ma vai a spiegarlo al fanatismo imperante.
il film si dipana in guisa di una seduta analitica, traumi e misteri si dispegano tra le mani incerte e credo stupefatte dello spettatore.
angoscia trapela nel tentativo di spiegare la morte, l'autrice adotta l'interpretazione tibetana che vuole che nei 49 giorni dopo la morte (il bardo) lo spirito vaghi tra le cose della sua vita senza corpo, e in una dimensione di pura angoscia presenta lo smarrimento di una mente senza corpo tra le cose reali della vita, avanzate dopo la sua ultima espirazione.
sarà mai possibile?
racconta che l'udito è l'ultimo tra i 5 sensi ad abbandonare la coscienza, monaci tibetiani parlano ai morti appena deceduti, urlano loro qual è la luce verso cui si devono dirigere, non la più vicina, quella lontana.
certo l'idea della morte porta grande spavento, il tentaivo di dargli un senso, una direzione, una consistenza, un avvicendarsi ulteriore quando la vicenda è finita è molto peggio, sul piano emotivo del vivo, che accettarne l'ineludibile mistero.
mi sembra che la Andeson si spenda molto anche nel tentativo di dare un senso alla vita, esco dal film pensando che c'è molto dolore in giro e che l'eccesso di senso è una malattia sempre più diffusa.
dare un significato certo, scritto, documentato a vita e morte è il compito delle dittature, in ognuno di noi alberga evidentemente una profondissima violenza autodiretta, anche questa lo è.
colgo un senso di disperazione violentissima, l'autrice vaga stordita tra i ricordi dell'infanzia, traumatici: prima una sua caduta da un trampolino che la vede paralizzata in un ospedale pediatrico, ricoverata tra bambini ustionati di cui rammenta le urla e i pianti notturni e li registra nell'inconscio come i suoni dei bambini che muoiono, e dopo lo scivolamento dei fratelli gemelli dentro un lago ghiacciato che si rompe sotto il peso del passeggino, il loro drammatico salvataggio da parte sua e la madre che la elogia, freddamente, sulle sue buone capacità di nuotatrice mentre riceve i corpi ghiacciati e urlanti dei gemelli sopravvissuti.
sostiene che il ricordo della prova dell'amore della madre, il preciso episodio, sia una medicina potentissima contro l'apatia.
dice anche, e solo qui condivido cercando di mantenere un po' di distacco da questo grumo confuso e grondante di dolore che ha messo sullo schermo, che la morte ci permette di liberare amore.
quel che credo, semplicemente, è che la morte dia senso alla vita. senza sarebbe un pozzo d'angoscia, un affanno senza scopo. forse Laurie Anderson dovrebbe semplicemente accettarla, la fine segnata dalla morte, affannarsi a prolungare la vita oltre la morte le procura dichiaratamente una sofferenza senza fine.
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