Il tempo delle donne.
Milano, Triennale.
mi devo ricordare che si tratta di un evento giornalistico, non culturale o psicoanalitico, altrimenti rischio di uscirne delusa.
nella gran parte delle situazioni non mi trovo d'accordo, la posizione dominante, che si ripete come un mantra in ogni occasione di incontro, recita la superiorità femminile, la natura femminile offesa dalla prepotenza e stupidità maschile, la ripetizione incessante dell'acquisizione di una libertà assoluta che ci fa belle, nuove, spregiudicate, sessualmente rinnovate, ma, lo aggiungo io, ancora infelici e molto spesso sole.
mi sono invece sembrate molto centrate le dottoresse che ho sentito parlare di ginecologia, oncologia, neurologia, nell'ordine Graziottin (tosta accipicchia), Dal Verde, Cavalla, relativamente a patologie di genere e ai rischi spaventosi cui si sottopongono le donne con l'acquisizione di alcuni comportamenti storicamente maschili (ed era un gran vantaggio fossero solo loro) ora anche stupidamente femminili (ed è un'enorme fregatura adesso per noi).
sono rimasta colpità dalla pochezza degli interventi di Irene Cao, Elisa Sabatinelli, neo scrittrici porno soft, e di Monica Stambrini, regista del gruppo Le ragazze del porno. un problema tutto femminile ma che le donne ignorano o fingono di ignorare è che spesso, troppo spesso, mancano di capacità di tematizzare le proprie scelte. notoriamente alle donne le parole non mancano quando si tratta di relazionarsi, in particolare con gli uomini che rispondono per lo più con prolungatissimi silenzi, ma sembrano improvvisamente privarsene quando si tratta di argomentare, al di fuori dell'amore e delle richieste in questo campo. da una donna che sceglie il porno nella sua attività registica mi aspetto una capacità di motivare e argomentare le proprie scelte con le palle e le contropalle, invece mi trovo davanti a un vuoto cosmico di parole per dirlo, o forse proprio di parole per strutturarlo.
se vogliamo emanciparci e "fare gli uomini" in tutte le cose, porno compreso, mi aspetto che, come gli uomini, siamo capaci di motivarlo e di farne un discorso personalizzato, ragionato, argomentato.
piuttosto il nulla, si disquisiva, senza "sapere bene" (testuali parole della Stambrini) sulle differenza tra erotismo e pornografia. aiuto.
la De Filippi rimane per me un mistero del cosmo (su Emma, presente con lei sul palco, non mi soffermerei più di tanto) perché mi sembra una donna intelligente, quanto meno intelligente da un punto di vista comportamentale, poi però non mi capacito come non riesca a farsi domande sul mondo che porta in televisione. appare convinta che la realtà televisiva coincida con il reale, non posso credere che basi la sua conoscenza del mondo e delle persone che la abitano sui comportamenti perversamente mutanti mediati dal mezzo televisivo. eppure.
Claudio Risé, psicoanalista junghiano, mi è parso capace e integerrimo, soprattutto molto posato rispetto alle domande, piuttosto aggressive in tema di maschi perduti e idioti, di Diamante D'Alessio. poi è entrato Ramazzotti e sono uscita io.
nel salone d'onore parla una giornalista e scrittrice musulmana, Mona Eltahawy, doppia cittadinanza egiziana e statunitense, e presenta, verbosamente, la sua rivoluzione culturale. io direi tutta sua, tutta interna e personale, non riesco a identificarla, totalmente disaggregata com'è dalla realtà di una musulmana media, con una possibile evoluzione della posizione femminile delle donne del Medio Oriente e del Nord Africa. senza velo, in gonna, scollata, sessualmente libera. la domanda che mi frulla nella testa per tutto il tempo dell'intervista è se una donna musulmana credente e osservante desideri realmente emanciparsi al livello di una donna occidentale. perché questa è l'unica cosa che ci possa interessare, l'eventualità di una possibile scissione tra religione e comportamento sociale, ammesso e non concesso che a una donna musulmana possa interessare. perché è inutile cercare prima di rivestire le donne che si tolgono il velo (così raccontava la giornalista) e poi di svestire quelle che indossano il burkini, l'emancipazione o l'adesione a un credo è una questione individuale, guai se ci mettono il becco le leggi di uno stato.
ciò a cui voglio arrivare è la presentazione più interessante del convegno, ovvero la storia fotografica di Jen Davis, fotografa americana che per ben 11 anni si è fotografata, obesa.
è straordinaria la potenza delle foto, belle, che presenta.
la luce la coglie sempre in una intensità espressiva, corporale, autentica.
il discorso che accompagna le immagini è stato meno interessante, quel che è evidente è che quel corpo, così deformato e malato, è, in quegli scatti, al centro assoluto del cosmo fotografico.
un intervento bariatrico l'ha portata a perdere molti kg, fino a una rotondità più che accettabile, ma è il percorso associato alla sua rappresentazione fotografica che fa di questa donna un evento vivente.
da Eleven Years, di Jen Davis.
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