Sua madre era stata abbattuta dal cacciatore. Nelle sue narici di cucciolo si conficcò l’odore
dell’uomo e della polvere da sparo. Orfano insieme alla sorella, senza un branco vicino, imparò da
solo. Crebbe di una taglia in più rispetto ai maschi della sua specie. Sua sorella fu presa dall’aquila
un giorno d’inverno e di nuvole. Lei si accorse che stava sospesa su di loro, isolati su un pascolo a
sud, dove resisteva un po’ di erba ingiallita. La sorella si accorgeva dell’aquila pure senza la sua
ombra in terra, a cielo chiuso.
Per uno di loro due non c’era scampo. Sua sorella si lanciò di corsa a favore dell’aquila, e fu presa.
Rimasto solo, crebbe senza freno e compagnia. Quando fu pronto andò all’incontro con il primo
branco, sfidò il maschio dominante e vinse. Divenne re in un giorno e in duello.
I camosci non vanno a fondo nello scontro, stabiliscono il vincitore ai primi colpi. Non cozzano
come gli stambecchi e le capre. Abbassano la testa al suolo e cercano di infilare le corna, appena
curve, nel sottopancia dell’altro. Se la resa non è immediata, agganciano il ventre e lo squarciano
tirando indietro il collo. Di rado arrivano a questo finale.
Con lui fu diverso, era cresciuto senza regole e le impose. Il giorno del duello c’era sopra di loro il
magnifico cielo di novembre e in terra zolle di neve fresca, ancora minoranza. Le femmine vanno in
estro prima dell’inverno e mettono al mondo i figli in piena primavera. A novembre si sfidano i
camosci.
Entrò nel campo del branco all’improvviso, sbucando dall’alto giù da un salto di roccia. Le
femmine fuggirono coi piccoli dell’anno, restò il maschio che scalciò sull’erba con gli zoccoli
anteriori.
In alto si ammucchiarono ali nere di cornacchie e gracchi. Sospese sulle correnti ascensionali
guardarono il duello aperto a libro sotto di loro. Il giovane maschio solitario avanzò, batté zoccolo a
terra e soffiò secco. Lo scontro fu violento e breve. Le corna dello sfidante si aprirono una breccia
nella difesa e il corno sinistro agganciò il ventre dell’avversario. Lo squarciò con un chiasso di
strappo e in alto strepitò il frastuono di ali. Gli uccelli proclamavano il vinto a loro destinato. Il
camoscio sventrato fuggì perdendo viscere, inseguito. Le ali si tolsero dal cielo e scesero in terra a
divorarle. La fuga del vinto si spezzò di netto, s’impuntò e cadde sopra il fianco.
Sul corno insanguinato del vincitore si posarono le farfalle bianche. Una di loro ci restò per sempre,
per generazioni di farfalle, petalo a sbattere nel vento sopra il re dei camosci nelle stagioni da aprile
a novembre. […]
così inizia Il peso della farfalla di Erri De Luca.
l'ho preso in mano senza sapere cosa aspettarmi e l'inizio mi ha lasciata perplessa.
un libro sui camosci?
cose ne sa l'uomo del camoscio e della sua battaglia per la vita?
sa quel che osserva, e poi romanza, scrive attribuendo quel che il pensiero dell'uomo mette nel non pensiero di un animale.
è un'operazione difficile, secondo me, troppo facile deragliare e fare confusione tra puro istinto, che non ci appartiene, e metapensiero e progetto, che è il nostro codice distintivo.
temo sempre di trovarmi di fronte alla venerazione della purezza del mondo animale e della condanna infernale e furibonda di questo animale umano così reietto e inferiore alla forza della natura.
io non ho grandi rapporti con la natura, la ammetto senza troppa vergogna, non la frequento.
sono cittadina. sono urbana. sono destinata al cemento. sono intellettuale e culturale. sono analitica e ammiro infinitamente la capacità di simbolizzazione dell'uomo.
la natura la guardo da lontano, la percepisco in vacanza, coltivo le mie piante casalinghe, ma che relazione potrebbe mai essere questa?
sono mutilata, me ne rendo conto, sono in perdita rispetto a questa potenza che, dicono, ci comanda, ma la relativizzo, ne faccio a meno, forse la nego e la metto da parte come una persona che non conosco e che non mi interessa frequentare.
quindi un libro come questo, che si insinua invece nelle pieghe selvagge della montagna, che parla dei camosci e delle leggi del branco, che esalta la figura di questo animale re della natura, di questo dominatore solitario e temuto, di questo esploratore unico e irripetibile per forza fisica e capacità leaderistica, mi lascia, almeno inizialmente, perplessa.
succede poi però che il libro si allarga alla figura umana, al vecchio cacciatore che con il vecchio camoscio condivide praticamente tutto, forza temperamento e solitudine. ed ecco che allora quel che immaginavo puntualmente si verifica, ovvero che il camoscio assume atteggiamenti e pensieri umani, si umanizza nella sua vecchiaia -di cui mi domando se ne percepisca veramente l'arrivo e la fatale conclusione- e nel suo lento e inesorabile ritiro dal mondo, nella sua lotta contro la figura umana, violenta e assassina, rea di averne ucciso la madre -così dice Erri De Luca nel libro.
L’uomo aveva assistito a duelli di camosci di altri branchi. Ammirava la loro lealtà, mai due contro uno(…) Gli uomini hanno inventato i minuziosi codici ma appena c’è occasione si azzannano senza legge.
e l'uomo, avido di natura, di scalate in libertà, di caccia e di orme sulla neve, muto e solitario, incapace di relazione con il suo simile, in particolare con le donne, si avvicina sempre più al puro istinto, alla percezione immediata della cose, senza progetto, senza immaginazione, legato al tempo presente, al suo accadere, esattamente come un animale fa.
La sua vita a spasso di stagioni era andata col mondo. Se l'era guadagnata molte volte, ma non era roba sua. Era da restituire, sgualcita dopo averla usata, da buttare. Gli serviva credere che c'era un capomastro e che il mondo era il suo manufatto? Non serviva per parlargli, per crederlo in ascolto, però era un pensiero che teneva compagnia. Un padrone di tutto se c'era, non avrebbe permesso il guasto della sua roba, non l'avrebbe lasciata alla malora in mano alla specie degli uomini. Un padrone se c'era s'era ubriacato e aveva perso la via di casa. Meglio se non c’era l’uomo prosperava in sua assenza. Aveva imparato il bene e il male servendosi da solo. Era impossibile un padrone di tutto, però quell’impossibile teneva compagnia. Gli piaceva dire di fronte al cielo che calava in terra per la sera, un grazie al capomastro.
L’uomo aveva assistito a duelli di camosci di altri branchi. Ammirava la loro lealtà, mai due contro uno(…) Gli uomini hanno inventato i minuziosi codici ma appena c’è occasione si azzannano senza legge.
e l'uomo, avido di natura, di scalate in libertà, di caccia e di orme sulla neve, muto e solitario, incapace di relazione con il suo simile, in particolare con le donne, si avvicina sempre più al puro istinto, alla percezione immediata della cose, senza progetto, senza immaginazione, legato al tempo presente, al suo accadere, esattamente come un animale fa.
La sua vita a spasso di stagioni era andata col mondo. Se l'era guadagnata molte volte, ma non era roba sua. Era da restituire, sgualcita dopo averla usata, da buttare. Gli serviva credere che c'era un capomastro e che il mondo era il suo manufatto? Non serviva per parlargli, per crederlo in ascolto, però era un pensiero che teneva compagnia. Un padrone di tutto se c'era, non avrebbe permesso il guasto della sua roba, non l'avrebbe lasciata alla malora in mano alla specie degli uomini. Un padrone se c'era s'era ubriacato e aveva perso la via di casa. Meglio se non c’era l’uomo prosperava in sua assenza. Aveva imparato il bene e il male servendosi da solo. Era impossibile un padrone di tutto, però quell’impossibile teneva compagnia. Gli piaceva dire di fronte al cielo che calava in terra per la sera, un grazie al capomastro.
il libro è un breve racconto, a tratti poetico.
A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro. Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei, lontano dal suo corpo abbattuto. D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.
A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro. Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei, lontano dal suo corpo abbattuto. D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.
le vite dei due personaggi volgono alla fine e si concludono in un duello finale che ne suggella definitivamente il legame, la storia, la relazione, il rapporto di due vite passate a rispettarsi, a rincorrersi, a desiderare il possesso e la supremazia sull'altro. ma sarà la morte, il lieve peso di una farfalla, il confine sottile tra una dimensione e l'altra, la leggera carezza dell'imponderabile, a legarli per sempre.
Andò a posarsi lì una farfalla bianca. La scacciò con una mossa lieve, per toglierla senza toccarla. Il suo volo spezzettato, ad angoli, era l’opposto della palla di piombo caricata nel buio della canna lucente, con la sua linea dritta al bersaglio grosso. Una farfalla sopra un fucile lo prende in giro. La sua mira è derisa dal volo spezzettato che dovunque cade, porta con sé il centro raggiunto. Dove si posa la farfalla, è il centro. L’uomo la scostò con una mossa lenta e un soffio di vita.
Andò a posarsi lì una farfalla bianca. La scacciò con una mossa lieve, per toglierla senza toccarla. Il suo volo spezzettato, ad angoli, era l’opposto della palla di piombo caricata nel buio della canna lucente, con la sua linea dritta al bersaglio grosso. Una farfalla sopra un fucile lo prende in giro. La sua mira è derisa dal volo spezzettato che dovunque cade, porta con sé il centro raggiunto. Dove si posa la farfalla, è il centro. L’uomo la scostò con una mossa lenta e un soffio di vita.
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