Leggendo Natalia Ginzburg nutro dei dubbi.
Non sto leggendo un'opera importante, ma Piccole virtù, una raccolta di racconti, piccoli saggi, per lo più autobiografici.
ha una scrittura schietta e un animo onesto. sembra anzi godere nel mostrarsi per come è, a volte nel minimizzarsi, nel farsi piccola e umile.certamente non si camuffa e la sua parola assume un valore autentico, genuino, apprezzabile. non è una grande scrittura, la sua, ma piana, semplice, diretta, a volte ripetitiva, senza sfumature.
il problema è che avverto, a volte, di non essere d'accordo con lei. alcune sue affermazioni non sono condivisibili, alcune visioni mi risultano ristrette, non corroborate dalla conoscenza per cui alla fine mi sembra che, in effetti, la sola visione familiare, cui era molto legata, quella proveniente dall'esperienza diretta, dall'analisi dei sentimenti, possa avere il fondamento della verosimiglianza. alcune affermazioni sulla guerra o sulla psicoanalisi, sulla correlazione tra colpa e panico, mi sembrano azzardate o non corrette. uno scrittore deve sapere cosa scrive, deve attenersi ai fatti se è di realtà che parla. l'invenzione vale nel romanzo, non nella saggistica.
tra i racconti ce n'è uno sul mestiere della scrittura.
ripenso alla lezione di Virginia Woolf e mi piace constatare le differenze, e anche le somiglianze, nell'affrontare il discorso sulla letteratura al femminile.
la visione della Woolf è certamente più ariosa, il suo è un discorso universale, globale, un metadiscorso. è un ragionare su qualcosa.la Ginzburg si attiene alla sua sola esperienza, parla del suo scrivere e della sua personale, individuale evoluzione, dei suoi limiti e delle sue potenzialità.
è chiaro che la prima ha doti di pensiero e di coinvolgimento intellettivo ed emotivo che la seconda non possiede. nel discorso della Ginzburg tutto diventa più piccolo, più provinciale, più circoscritto. il discorso di Virginia è un invito, è un'incitazione, un'esaltazione della potenzialità di scrittura al femminile, è un abbraccio ecumenico.
in entrambe però si leggono passaggi sull'importanza di non imitare il mondo maschile, di fare della scrittura femminile una propria e unica scrittura. anche la Ginzburg afferma la necessità di un'indipendenza economica e di pensiero, di un mestiere che non paga poi molto ma che appaga moltissimo.
l'aspetto più interessante della riflessione della Ginzburg è la fatica dello scrittore, l'impegno e l'energia che richiede. scrivere non può essere un passatempo, scrivere è uno sforzo intellettivo e spirituale che richiede concentrazione, conoscenza, riflessione e molta capacità di dedizione. per scrivere bisogna abbandonare la propria personale visione, bisogna essere scevri da rancore e rabbia, i personaggi non vanno alimentati e inquinati dalle personale questioni di vita, altrimenti la scrittura ne sarà irrimediabilmente compromessa, risulterà orientata e disturbata, non credibile. e così disse anche Virginia nella sua stanza tutta per sè, che, non me ne voglia la Ginzburg, rimane inarrivabile e immensa.
la visione della Woolf è certamente più ariosa, il suo è un discorso universale, globale, un metadiscorso. è un ragionare su qualcosa.la Ginzburg si attiene alla sua sola esperienza, parla del suo scrivere e della sua personale, individuale evoluzione, dei suoi limiti e delle sue potenzialità.
è chiaro che la prima ha doti di pensiero e di coinvolgimento intellettivo ed emotivo che la seconda non possiede. nel discorso della Ginzburg tutto diventa più piccolo, più provinciale, più circoscritto. il discorso di Virginia è un invito, è un'incitazione, un'esaltazione della potenzialità di scrittura al femminile, è un abbraccio ecumenico.
in entrambe però si leggono passaggi sull'importanza di non imitare il mondo maschile, di fare della scrittura femminile una propria e unica scrittura. anche la Ginzburg afferma la necessità di un'indipendenza economica e di pensiero, di un mestiere che non paga poi molto ma che appaga moltissimo.
l'aspetto più interessante della riflessione della Ginzburg è la fatica dello scrittore, l'impegno e l'energia che richiede. scrivere non può essere un passatempo, scrivere è uno sforzo intellettivo e spirituale che richiede concentrazione, conoscenza, riflessione e molta capacità di dedizione. per scrivere bisogna abbandonare la propria personale visione, bisogna essere scevri da rancore e rabbia, i personaggi non vanno alimentati e inquinati dalle personale questioni di vita, altrimenti la scrittura ne sarà irrimediabilmente compromessa, risulterà orientata e disturbata, non credibile. e così disse anche Virginia nella sua stanza tutta per sè, che, non me ne voglia la Ginzburg, rimane inarrivabile e immensa.
Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani
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La prima cosa seria che ho scritto è stato un racconto. Un racconto breve, di cinque o sei pagine: m’è venuto fuori come per miracolo, in una sera, e quando poi sono andata a dormire ero stanca, stordita e stupefatta. Avevo l’impressione che fosse una cosa seria, la prima che avessi mai fatto: le poesie e i romanzi con le ragazze e le carrozze mi parevano a un tratto molto lontani, in un’epoca scomparsa per sempre, creature ingenue e ridicole di un’altra età. In questo nuovo racconto c’erano dei personaggi. Isabella e l’uomo con la barba rossastra non erano personaggi: io non sapevo niente di loro all’infuori delle frasi e delle parole di cui m’ero servita nei loro riguardi, ed erano affidati al caso e all’estro della mia volontà. Le parole e le frasi di cui m’ero servita per loro le avevo pescate su a caso: era come se avessi avuto un sacco e avessi tirato su a caso ora una barba e ora una cuoca negra o un’altra cosa che si poteva usare. Questa volta invece non era stato un gioco. Questa volta avevo inventato delle persone con dei nomi che non mi sarebbe stato possibile cambiare: niente di loro avrei potuto cambiare e sapevo una quantità di particolari sul loro conto, sapevo com’era stata la loro vita fino al giorno del mio racconto anche se nel racconto non ne avevo parlato perché non era stato necessario.
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E ne ho scritti davvero un certo numero, a intervalli di uno o due mesi, qualcuno abbastanza bello e qualcuno no. Ho scoperto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cattivo segno se non ci si stanca. Uno non può sperare di scrivere qualcosa di serio così alla leggera, come con una mano sola, svolazzando via fresco fresco. Non si può cavarsela così con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro, ci affoga dentro proprio fino agli occhi; e se ha dei sentimenti molto forti che lo inquietano in cuore, se è molto felice o molto infelice per una qualunque ragione diciamo terrestre, che non c’entra per niente con la cosa che sta scrivendo, allora, se quanto scrive è valido e degno di vita, ogni altro sentimento s’addormenta in lui. Lui non può sperare di serbarsi intatta e fresca la sua cara felicità, o la sua cara infelicità, tutto s’allontana e svanisce ed è solo con la sua pagina, nessuna felicità e nessuna infelicità può sussistere in lui che non sia strettamente legata a questa sua pagina, non possiede altro e non appartiene ad altri e se non gli succede così, allora è segno che la sua pagina non vale nulla.
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In quei brevi racconti che scrivevo allora, c’erano dei personaggi che in fondo io disprezzavo. Siccome avevo scoperto che è bello che un personaggio sia miserevole e comico, a forza di comicità e commiserazione ne facevo degli esseri così spregevoli e privi di gloria che io stessa non potevo amarli. Quei miei personaggi avevano sempre dei tic o delle manie o una deformità fisica o un vizio un po’ grottesco, avevano un braccio rotto e appeso al collo in una benda nera o avevano degli orzaioli o erano balbuzienti o si grattavano il sedere parlando o zoppicavano un poco. Mi era sempre necessario caratterizzarli in qualche modo. Era per me un mezzo di sfuggire al timore che risultassero incerti, di cogliere la loro umanità della quale inconsciamente dubitavo. Perché allora non capivo – ma al tempo dello specchio sul carretto cominciavo confusamente a capirlo – che non si trattava più di personaggi ma di burattini, abbastanza ben dipinti e simili agli uomini veri ma burattini. Nell’inventarli subito li caratterizzavo, li segnavo d’un particolare grottesco, e c’era in questo qualcosa di un po’ malvagio, c’era in me allora come un risentimento maligno nei confronti della realtà. Non era un risentimento fondato su qualcosa di vivo, perché ero allora una ragazza felice, ma nasceva come reazione all’ingenuità, si trattava di quel particolare risentimento che è la difesa della persona ingenua, sempre portata a credere d’essere presa in giro, del contadino che si trova da poco in città e vede ladri ovunque. Sul principio ne andavo fiera, perché mi pareva un grande trionfo dell’ironia sull’ingenuità e su quegli abbandoni patetici dell’adolescenza che si vedevano tanto nelle mie poesie. L’ironia e la malvagità mi parevano armi molto importanti nelle mie mani; mi pareva che mi servissero a scrivere come un uomo, perché allora desideravo terribilmente di scrivere come un uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo. Facevo quasi sempre personaggi uomini, perché fossero il più possibile lontani e distaccati da me.
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La nostra personale felicità o infelicità, la nostra condizione terrestre, ha una grande importanza nei confronti di quello che scriviamo. Ho detto prima che uno nel momento che scrive è miracolosamente spinto a ignorare le circostanze presenti della sua propria vita. Certo è così. Ma l’essere felici o infelici ci porta a scrivere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria. La sofferenza rende la fantasia debole e pigra; essa si muove, ma svogliatamente e con languore, con i deboli moti dei malati, con la stanchezza e la cautela delle membra dolenti e febbricitanti; ci è difficile distogliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall’inquietudine che ci pervade. Nelle cose che scriviamo affiorano allora di continuo ricordi del nostro passato, la nostra propria voce risuona di continuo e non riusciamo ad imporle silenzio. Fra noi e i personaggi che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto particolare, tenero e come materno, un rapporto caldo e umido di lagrime, di un’intimità carnale e soffocante. Abbiamo radici profonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del mondo, del mondo fattosi pieno di echi e di sussulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appassionata pietà. Il nostro rischio è allora di naufragare in un buio lago d’acqua morta e stagnante, e trascinarvi con noi le creature del nostro pensiero, lasciarle perire con noi nel gorgo tiepido e buio, tra topi morti e fiori putrefatti. C’è un pericolo nel dolore così come c’è un pericolo nella felicità, riguardo alle cose che scriviamo. Perché la bellezza poetica è un insieme di crudeltà, di superbia, d’ironia, di tenerezza carnale, di fantasia e di memoria, di chiarezza e d’oscurità e se non riusciamo a ottenere tutto questo insieme, il nostro risultato è povero, precario e scarsamente vitale.
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Così è il mio mestiere. Denaro, vedete, non ne frutta molto, e anzi sempre bisogna fare contemporaneamente anche un altro mestiere per vivere. Pure a volte ne frutta un poco: e avere del denaro per virtù sua è una cosa molto dolce, come ricevere denaro e doni dalle mani dell’essere amato. Così è il mio mestiere. Non so molto, dico, sul valore dei risultati che m’ha dato e che potrà darmi: o meglio, dei risultati già ottenuti conosco il valore relativo, non certo assoluto. Quando scrivo qualcosa, di solito penso che è molto importante e che io sono un grandissimo scrittore. Credo succeda a tutti. Ma c’è un angolo della mia anima dove so molto bene e sempre quello che sono, cioè un piccolo, piccolo scrittore. Giuro che lo so. Ma non me ne importa molto. Soltanto, non voglio pensare dei nomi: ho visto che se mi chiedo: “un piccolo scrittore come chi?” mi rattrista pensare dei nomi di altri piccoli scrittori. Preferisco credere che nessuno è mai stato come me, per quanto piccolo, per quanto pulce o zanzara di scrittore io sia. Quello che invece è importante, è avere la convinzione che sia proprio un mestiere, una professione, una cosa che si farà per tutta la vita. Ma, come mestiere, non è uno scherzo. Ci sono innumerevoli pericoli oltre a quelli che ho detto. Siamo continuamente minacciati da gravi pericoli proprio nell’atto di stendere la nostra pagina. C’è il pericolo di mettersi a un tratto a civettare e a cantare. Io ho sempre una voglia matta di mettermi a cantare, devo stare molto attenta a non farlo. E c’è il pericolo di truffare con parole che non esistono davvero in noi, che abbiamo pescato su a caso fuori di noi e che mettiamo insieme con destrezza perché siamo diventati piuttosto furbi. C’è il pericolo di fare i furbi e truffare. È un mestiere abbastanza difficile, lo vedete, ma il più bello che ci sia al mondo. I giorni e i casi della nostra vita, i giorni e i casi della vita degli altri a cui assistiamo, letture e immagini e pensieri e discorsi, lo saziano e cresce in noi. È un mestiere che si nutre anche di cose orribili, mangia il meglio e il peggio della nostra vita, i nostri sentimenti cattivi come i sentimenti buoni fluiscono nel suo sangue. Si nutre e cresce in noi.
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Il racconto è tratto da “Natalia Ginzburg, Le piccole virtù”, Einaudi, 2010.
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