Che un giorno, uscendo dalla terribile visione,
io canti gloria con gioia ad angeli accoglienti.
Che nessuno dei netti, martellanti battiti del cuore
cada su corde deboli, incerte o sul punto di spezzarsi.
Che il mio viso inondato
mi renda più splendente; che la banalità del pianto
fiorisca. Come mi sarete care, allora,
notti angosciose. Vi avessi sopportato più in ginocchio,
sorelle
sconsolate, mi fossi abbandonato di più
nei vostri capelli disciolti. Noi, scialacquatori di sofferenze.
Impegnati come siamo a indovinarne, nella triste durata,
la possibile fine. Eppure
sono il nostro fogliame invernale, il nostro sempreverde
più buio,
uno dei tempi del nostro anno segreto –, non solo
tempo –, ma luogo, sede, rifugio, terreno, dimora.
...
Ma dovessero risvegliare per noi, i morti senza fine,
un’immagine,
vedi, indicherebbero forse gli amenti
dei nocciòli spogli, che pendono, o forse
anche la pioggia che cade a primavera sulla terra nera –.
E noi, che pensiamo alla felicità
come a qualcosa che sale, sentiremmo
l’emozione, che quasi ci sgomenta,
di quando una cosa felice cade.
La decima Elegia
Rainer Maria Rilke
ascoltavo Baricco, ieri sera.
iperboliche ossessioni mettono insieme cose diverse, parole e note.
ma qualcosa mi coglie, in questa poesia,
mi inchioda la parola, come sempre.
la caduta, il cedere, come forma di struggente felicità.
è un movimento che imita la morte, però.
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