Ragazzi di vita è un grande libro, di una drammaticità tagliente.
affiora nel sottofondo la bellezza, della natura, dei cieli e delle nuvole, di Roma capitale, del Tevere e degli angoli magici della città, eppure, quel che emerge, e ti crocifigge, sono macerie e disgregazione.
siamo nell'immediato dopo guerra, almeno all'inizio del libro, e le bande di ragazzi di borgata animano le pagine del libro con le loro vite vuote di tutto, senza case, senza tetto, senza lavoro, senza soldi, senza affetti, senza radici e senza valori, piene di piccoli furti, di espedienti meschini, di passatempi inventati, di noncuranza, di indifferenza o, a volte, di episodi drammatici, di violenza, di morte, di annientamento nel nulla.
la narrazione non chiede nulla al lettore, solo l'ascolto, del cuore, della testa. non c'è enfasi, non ci sono trucchi teatrali drammaturgici, nè strategie sentimentali, c'è solo da assistere.
assistere si, non vedo ribellione, non vedo speranza, vedo solo sopravvivenza quotidiana a dosi di cinismo e sopraffazione, di precocità delinquenziale, di disillusione senza traccia di rivendicazione sociale o di impegno politico. per i ragazzi di vita la vita scorre così, già solcata nel suo destino, dove si muore per un accidente, un incidente, un tragico scherzo.
assistere si, non vedo ribellione, non vedo speranza, vedo solo sopravvivenza quotidiana a dosi di cinismo e sopraffazione, di precocità delinquenziale, di disillusione senza traccia di rivendicazione sociale o di impegno politico. per i ragazzi di vita la vita scorre così, già solcata nel suo destino, dove si muore per un accidente, un incidente, un tragico scherzo.
a tratti ho veramente patito, certi capitoli finiscono nel dubbio, nel dubbio della tragicità senza che ci sia mai, in nessun caso, l'insistere sui risvolti tragici della vita. eppure sai che è finita male, lo sai, e Pasolini ti fa immaginare, ti fa proseguire nella tua pagina interiore, ti fa costruire il dolore della perdita, la disperazione della povertà, anche morale. è questo che ho amato di questo libro, Pasolini ha costruito pagine straordinarie, dove sembra che l'indifferenza, quei li mortacci sua, il tempo annoiato, la piotta rimediata rubando a un cieco che chiede l'elemosina, le madri sfatte e furiose, la quotidianità di un'intera famiglia che si svolge entro le mura di una classe cadente in una ex scuola siano gli unici ingredienti delle storie, ma, invece, ti accompagna in un viaggio che poi sarai costretto a costruire da solo, nella più tetra solitudine, nella disperazione dell'isolamento. tu e il libro, tu e lui, tu e il Riccetto. tu.
leggevo in un'intervista a Fabrizio Gifuni, che legge il romanzo in un audiolibro, che consiglio, anzi che ordino a chiunque ami la letteratura e la lettura, e che ha interpretato in un reading a Milano, al teatro Franco Parenti il 7 giugno appena passato, quanto Pasolini fosse invaghito dei ricci, di quanto li desiderasse, di quanto ne fosse attratto. questo è un aspetto che mi incuriosisce, ovvero come, in fondo, all'intellettualità, al lavoro di una vita, all'impegno artistico, al cinema, alla poesia e alla letteratura, si contrapponga un aspetto di reale, di riccioli in testa, di corporeità, di fisicità, di seduttività omosessuale che fa di quell'artista, una persona con le sue fragilità, con il suo corpo.
«I ricci erano un’ossessione che Pasolini dichiarò in una poesia giovanile (“Danza di Narciso”), poi riscritta con la stessa struttura metrica, ma con spirito mutato, più in nero. In una di queste, in friulano, scrive: “Posso solo dire che dal male dei ricci non si può guarire”.
«I ricci erano un’ossessione che Pasolini dichiarò in una poesia giovanile (“Danza di Narciso”), poi riscritta con la stessa struttura metrica, ma con spirito mutato, più in nero. In una di queste, in friulano, scrive: “Posso solo dire che dal male dei ricci non si può guarire”.
Risorgono dalle pagine di un romanzo che trasformò letteratura e comune senso del pudore quei borgatari romani post bellici che al cinema saranno accattoni o appesi sulla croce, Franco, Ninetto e altri. Il Riccetto, e anche il Caciotta, il Lenzetta, il Begalone, almeno una dozzina di voci diverse in un attore strepitosamente multiplo: «L’ossessione pasoliniana prende corpo negli Anni 50 in questo che è il suo miglior affresco. Le pulsioni che attraversano la mia lettura oscillano continuamente tra un romanzo intatto nella sua bellezza e purezza senza rughe, ma che è impossibile non leggere con gli occhi del presente. C’è un momento in cui Pasolini racconta come Riccetto, in due anni, fosse già diventato un figlio di mignotta capace di ammazzare un frocio per duemila lire. Difficile non leggere in questi fulminei frammenti quello che accadde dopo, giusto quarant’anni fa. Pasolini dissemina la sua opera di riflessioni sulla morte, riesce perfino a prefigurare la stessa immagine del suo assassinio.»(Maurizio Porro, Corriere della Sera, 5/6/2015)
il linguaggio è straordinario, sia in bocca ai ragazzi di vita, sia nella penna descrittiva di Pasolini.
è un romanzo strepitoso, un romanzo di vita.
– Nun torni a Genè? – ripeté Mariuccio, deluso da
com’erano andate le cose.
– Rimano de qqua ancora un pochetto, – disse di lag-
giú Genesio, – se sta tanto bbene de qqua!
– Daje, traversa! – insistette Mariuccio con le corde
del collo che gli si gonfiavano per lo sforzo che faceva a
gridare. Pure Borgo Antico si mise a chiamarlo, e Fido
abbaiava saltando di qua e di là, ma col muso sempre ri-
volto all’altra sponda, come se chiamasse pure lui.
Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto,
come non usava fare mai, e poi gridò: – Conto fino a
trenta e me butto. – Stette fermo, in silenzio, a contare,
poi guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano
sotto l’onda nera ancora tutta ben pettinata; infine si
buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla
svelta fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la curva svoltando verso il
ponte della Tiburtina. Ma lí la corrente era forte, e spingeva indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata
Genesio era riuscito a passare facile il correntino, ma
adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava
lui, alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire
avanti: la corrente, tenendolo sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giú verso il ponte.
– Daje, a Genè, – gli gridavano i fratellini da sotto il
trampolino, che non capivano perché Genesio non venisse in avanti, – daje che se n’annamo!
Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che
filava tutta piena di schiume, di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume. Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva,
veniva trascinato sempre in giú verso il ponte. Borgo
Antico e Mariuccio col cane scapitollarono giú dalla
gobba del trampolino, e cominciarono a correre svelti, a
quattro zampe quando non potevano con due, cadendo
e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando
dietro a Genesio che veniva portato sempre piú velocemente verso il ponte. Cosí il Riccetto, mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa
come un’ombra, a strofinare le lastre, se li vide passare
tutti e tre sotto i piedi, i due piccoli che ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al
fiume, che non cessava di muovere le braccine svelto
svelto nuotando a cane, senza venire avanti di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come stava giú verso l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lí si
fermò a guardare quello che stava succedendo sotto i
suo occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero: ma poi capí e si buttò di corsa giú per la scesa, scivolando, ma nel tempo stesso vedeva che non c’era piú
niente da fare: gettarsi a fiume lí sotto il ponte voleva
proprio dire esser stanchi della vita, nessuno avrebbe
potuto farcela. Si fermò pallido come un morto. Genesio ormai non resisteva piú, povero ragazzino, e sbatteva
in disordine le braccia, ma sempre senza chiedere aiuto.
Ogni tanto affondava sotto il pelo della corrente e poi
risortiva un poco piú in basso; finalmente quand’era già
quasi vicino al ponte, dove la corrente si rompeva e
schiumeggiava sugli scogli, andò sotto per l’ultima volta,
senza un grido, e si vide solo ancora per un poco affiorare la sua testina nera.
Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in
fretta i calzoni, che teneva sotto il braccio, senza piú
guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora un po’ lí fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da
sotto il ponte Borgo Antico e Mariuccio che urlavano e
piangevano, Mariuccio sempre stringendosi contro il
petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire aiutandosi con le mani su per la scarpata.
– Tajamo, è mejo, – disse tra sé il Riccetto che quasi
piangeva anche lui, incamminandosi in fretta lungo il
sentiero, verso la Tiburtina; andava anzi quasi di corsa,
per arrivare sul ponte prima dei due ragazzini. «Io je
vojo bbene ar Riccetto, sa!» pensava. S’arrampicò scivolando, e aggrappandosi ai monconi dei cespugli su per
lo scoscendimento coperto di polvere e di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi indietro, imboccò il ponte. Poté tagliare inosservato, perché, sia nella campagna
che si stendeva intorno abbandonata, verso i mucchi di
casette bianche di Pietralata e Monte Sacro, sia per la
Tiburtina, in quel momento, non c’era nessuno; non
passava neppure una macchina o uno dei vecchi autobus della zona; in quel gran silenzio si sentiva solo qualche carro armato, sperduto dietro i campi sportivi di
Ponte Mammolo, che arava col suo rombo l’orizzonte.
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