Alessandro D'Avenia, che è anche un insegnante presumo di lettere probabilmente a Roma, ha scritto un libro Bianca come il latte, rossa come il sangue. L'ho letto, tre anni fa, spinta dalla curiosità di tanto successo presso gli adolescenti, anche presso il mio. L'ho letto in due giorni, un libricino, certamente di facile fruizione per i ragazzi, certamente pieno del loro mondo, certamente anche ricco di un'aura di fiaba, vagamente retorica.
deludente. ma, mi sono detta, è chiaro che io non capisco niente di niente di queste cose. il fatto è che gli adolescenti questo libro lo leggono altri no. agli adolescenti questo libro piace, gli altri libri no. quindi sono rimasta con un punto di domanda irrisolto e la certezza che io sono giurassica, appartengo a un altro mondo, mi devo rassegnare alla mia ignoranza. alla mia emarginazione. devo solo stare a guardare e non giudicare.
poi succede che su La lettura inizia, promossa da Paolo Giordano, un bel dibattito sulla scuola, le sue opportunità, le sue voragini.
e leggo Alessandro D'Avenia, che interviene.
il suo articolo è tra i migliori, fa emergere il problema fondante, cioè che la scuola superiore, per come è strutturata, mortifica l'individuo, unico e irripetibile, che esiste in ogni studente, enfatizza la didattica di massa che falcia il desiderio, massimizza tutto, generalizza l'insegnamento consegnandogli il solo mandato della prestazione, trasforma gli studenti in una folla indistinta fastidiosa che disturba o che turba, e la parola dell'insegnamento in "poltiglia educativa".
mi è piaciuto e, lo metto qui, tutto.
Le parole abusate sono segnaletica della nostalgia, fosforescenze di ciò che perdiamo. Scuola: tutti ne parlano, mentre rantola.
Se dovessi distillare il succo di 14 anni
di insegnamento, di incontri in ogni tipo di scuola e di migliaia di
lettere di studenti, docenti e genitori, dovuti ai libri che ho scritto,
direi con Elias Canetti: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei
miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha
spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la
prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Così ne La lingua salvata definiva l’essenza della scuola: la viva voce e l’immagine
dell’insegnante. Solo una discontinuità antropologica (e quindi
economica) potrà cambiare la scuola, non belletti organizzativi
spacciati per riforme. Una rivoluzione copernicana che ponga nell’ordine
giusto conoscenza e amore: ogni crescita in estensione e profondità
della nostra conoscenza del mondo presuppone un’estensione della nostra
sfera di inter-esse, cioè d’amore. Perché non chiudiamo le scuole e non carichiamo le lezioni su YouTube risparmiando tempo e fatica?
Perché siamo convinti che insegnare sia una relazione attuale: spazio e tempo condivisi nell’irripetibile dinamismo della vita e delle vite.
Se un ragazzo esteriormente somiglia più al padre o alla madre,
interiormente (sguardo sul mondo, fiducia nella vita) corrisponde alla
qualità della relazione tra i genitori. Così l’insegnamento, parte
dell’educazione, si dà nella triplice relazione professore-studente,
professore-genitori, professore-colleghi. Classe e studente somigliano
alla qualità di queste tre relazioni. Posso soffermarmi solo sulla
prima.
La qualità della relazione docente-studente
determina l’apertura conoscitiva, a meno di non illudersi che
istruzione ed educazione siano separabili. Si conosce soltanto ciò a cui
la nostra intelligenza ri-conosce un valore (il cuore intelligente di Finkielkraut) segnalato da tutto l’essere dell’in-segnante. Non ci può essere educazione (né insegnamento) in differita, perché la relazione coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo, spirituale). Il moscone del cogito
cartesiano continua a sbattere contro il vetro che non vede: cervelli
riempiti di nozioni, addestramento pavloviano a ripetere, miglioramento
solo con la sanzione dell’errore. L’insegnamento invece avviene solo in
atto, perché solo la vita integrale educa. Si insegna con tutto:
sguardo, tono di voce, movenze del corpo, disposizione dei banchi,
brillare degli occhi, segni su un compito, cellulare spento... e parole.
Una relazione funziona quando genera i beni specifici per cui la si
instaura, se quella scolastica non genera attenzione, motivazione,
curiosità, non è solo per carenza di stipendio, mura scorticate, vuota
burocrazia, giovani e famiglie d’oggi, ma per carenza di relazione. Che cosa è necessario perché essa sia, e sia generativa?
La molecola d’acqua è relazione tra due
atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno, uno dà all’altro ciò di cui l’altro
ha bisogno. Anche a scuola è così: la classe è acqua!
Nella relazione scolastica tre sono gli elementi indispensabili: amore per ciòche si insegna (conoscenza e passione: studium), amore per il chi a cui si insegna (empatia:
non sentimentalismo, ma riconoscimento dello studente come soggetto di
un «inedito stare al mondo» e non oggetto da cui ottenere prestazioni), amore per il come si insegna (creatività didattica che rinnova ogni lezione in base ad allievi e contesto: metodo).
Senza questi tre elementi la relazione non si dà e genera
contro-effetti: noia, avversione, disinteresse. Per questo credo in una
personalissima trinità di professori.
Uno. I docenti in atto. Curando faticosamente i tre elementi, trasformano il loro dícere (dire) in docère (mostrare): pongono le condizioni dell’imparare, non lo pretendono, e i ragazzi sono pro-vocati
a lavorare sodo (a noia non si oppone divertimento, ma interesse) e a
diventare teste fredde e cuori caldi (al contrario di come sono oggi).
Generano il desiderio mimetico di raggiungere autonomamente la Luna che
il dito mostra, svincolano il sapere dalla pur necessaria prestazione e
lo orientano a diventare vita: la cultura come strumento per
leggere la realtà con totale apertura, senza subire luoghi comuni e
ideologie. Generano simbolicamente, fanno venire alla luce i ragazzi,
per ciascuno dei quali hanno una pagina del registro con i punti di
forza, non smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno
studente in crisi, fanno una lezione fuori dal programma, dedicano
tempo fuori dalla lezione... Tengono il filo come Arianna (amano e sono presenti a distanza)
mentre lo studente si addentra nel labirinto e lo decodifica grazie
alla cultura che si confronta con le svolte della vita e le sue forme a
volte spaventose come il Minotauro. Aiutano i ragazzi a trasformare il
loro destino in destinazione: ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna (Dante a Brunetto Latini). La loro classe è convivio, hanno l’autorità di chi assapora la vita e la porge.
Due. Gli «in-docenti». Per vari
motivi (stanchezza, difficoltà relazionali, equilibrio personale,
stipendio...), pur avendo competenza nella materia, non riescono a
trasmetterla. Mancano due terzi della relazione (empatia e metodo),
somigliano a un postino che consegna lettere senza busta e/o
destinatario. Non propongo disastrose simbiosi o voti politici, ma
asimmetria relazionale (non è distacco: emblematico il recente film Detachment),
in cui la materia è terreno comune di ricerca, non trincea: «La fiducia
non si guadagna se ci si sforza di guadagnarla, ma se si partecipa alla
vita degli allievi, in modo immediato e naturale e se si prende su di
sé la responsabilità che da ciò deriva» (Buber). L’indocente non insegna,
perché non impara dai ragazzi, la sua classe si appiattisce sulla
prestazione (programma ed esame diventano l’orizzonte di autorità).
Tre.Gli
«in-decenti». Non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe,
presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa.
Ogni discorso sulla scuola è secondario
senza i docenti in atto. Non basta l’anzianità come criterio esclusivo
di merito nelle graduatorie, ma i tre elementi segnalati e trasversali
(docenti, indocenti, indecenti hanno tutte le età). La scuola si liberi degli indecenti; aiuti gliindocenti a (ri)diventare se stessi; punti sui docenti,
che ne sono le mura di carne e sangue: ce n’è almeno uno nella nostra
vita e gli dovremmo, se non il doppio dello stipendio, almeno un grazie.
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