bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 23 gennaio 2014

gli sdraiati

l'ho letto, in un paio d'ore.
definire, questo, un bel libro è la solita distorsione dei tempi nostri.
non è un libro, sono alcune pagine scritte.
si ride anche, e ci si annoia pure.
certe digressioni sulla Grande Guerra Finale tra giovani e vecchi ha reso ancora più veloce la sua lettura, le ho saltate, per tedio.
avevo letto, su un banner,  una specie di commento, direi un'esclamazione, di Massimo Recalcati che lo ha definito: irresistibile!!, me ne stupisco e anche rammarico.
pur con qualche distanza su alcune considerazioni fin troppo partigiane, l'articolo di Antonio Polito su La Lettura, che riporto, mi trova molto d'accordo.
ridacchio sulle considerazioni, comiche, sul disordine imperante, sulla sporcizia dilagante, sull'abbandono di ogni rigore, e, leggendo, mi dico: ma lui, il padre, dov'è? e l'altro, il figlio, chi è?
il primo si defila sulle regole, lo ammette, ma non sa esimersi dal richiedere il riconoscimento del suo senso estetico, che sia una vetta di montagna o una vendemmia, l'altro appare in prevalente posizione orizzontale, ma non solo, e sembra un cagnolino che sporca molto e pensa poco. difficile stabilire chi sia più mancante e ove origini la mancanza, dell'uno e dell'altro.
alla fine il libro mi ha infastidito, mi ha lasciato un senso incompiuto, e non posso certo dire di non essere a corrente della morte del padre edipico e del figlio complessato, delle evoluzioni odierne, ormai certezza, di un senso di colpa che non fa più presa, di una legge che non orienta il desiderio, di un vuoto genitoriale cui consegue uno spiattellamento digitale filiale. so di che parla il Serra, ma mi domando se ne parla. 
quel che mi resta è il rapporto, diciamo il contatto, tra due sconosciuti, due frequentatori di uno stesso spazio lercio e maleodorante, di una incomunicabilità senza scampo, l'una nativa digitale l'altra notoria formale, e senza alcun particolare merito letterario nello stile dei fumetti.


I nostri figli sdraiati, i padri capovolti
Michele Serra nell'ultimo libro fa il relativista sui valori etici e l'imperialista estetico.
Così aliena il ruolo di genitore e si disinteressa dei gusti culturali dei giovanissimi.

E se l’«universo sconosciuto» di cui ha scritto Barbara Stefanelli sul «Corriere della Sera» fossimo noi? Noi padri, intendo, e non i nostri figli adolescenti che tanto incomprensibili ci appaiono? E se, come in un racconto di fantascienza, gli umani si rivelassero i veri alieni? Devo confessare che il dubbio mi è venuto leggendo Gli sdraiati, l’ultimo libro di Michele Serra (edito da Feltrinelli). Molto bello, e molto popolare a giudicare dalle classifiche dei più venduti. E proprio per questo meritevole di una buona polemica, perché lì dentro c’è un bel po’ di senso comune della nostra generazione, di noi figli ribelli del baby boom, diventati genitori obbedienti di figli perlopiù unici, e solitamente viziati.

Il fatto è che leggendo Serra, la lunga lettera di un padre a un figlio incomunicante, ho parteggiato per il figlio. E questo è grave, per un genitore. Insomma, l’ossessione del protagonista per la cura delle portulache sulla terrazza della seconda casa al mare, per il rito annuale della vendemmia del Nebbiolo nella seconda casa di un’amica nelle Langhe, e per la scalata di un fantastico quanto simbolico Colle della Nasca (presso il quale par di potere ipotizzare una terza casa), tutte magnifiche attività borghesemente colte, o coltamente borghesi, che il padre vorrebbe imporre al figlio come prova di maturità, e di amore del bello, e di pregnanza dell’esperienza umana, paiono noiose e stravaganti a me, figurarsi al figlio. Il quale, non a torto, se ne resta sdraiato e iperconnesso sul divano della prima casa, emulando i coetanei che su Twitter si sono battezzati indivanados per distinguere la loro pigra rivolta da quella più attiva degli indignados (e che temo che Serra si sia perso perché, come da lui dichiarato, ha rifiutato la frequentazione di Twitter, giudicato troppo banale con i suoi 140 caratteri).

Ma Serra e io siamo coetanei (anche se lui ricorda il suo Sessantotto di quattordicenne mentre io, allora dodicenne, no) siamo cresciuti vicini, abbiamo lavorato nello stesso giornale («l’Unità») e sospetto che abbiamo votato a lungo lo stesso partito. E allora, mi domando, che cosa è successo perché io sia finito dalla parte del figlio invece che del padre-narratore? Io penso si tratti di questo: quel padre dichiara di essere un «relativista etico», riluttante dunque a trasmettere valori, a cercare verità, a parlare del bene e del male; ma, forse per compensare, si comporta come un assolutista estetico, comicamente ostinato nel tentativo di trasmettere un’idea di buon gusto, uno stile di vita, una concezione del bello. Da parte mia sono invece giunto alla conclusione che sia meglio fare l’opposto, e che il fallimento genitoriale della nostra generazione (e se è per questo anche della sinistra dal cui alveo veniamo) nasca proprio dall’aver tentato di sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Penso che noi padri dovremmo ricominciare a essere «etici», lasciando in compenso in pace i nostri figli sull’estetica.

Mi stupisce per esempio che nel padre di Serra, così inorridito dalla generazione wireless, dagli iPad, gli iPod e gli iPhone, non ci sia mai curiosità su che cosa il figlio ascolta, legge, condivide; che il rifiuto del mezzo (online) conviva con una sostanziale indifferenza al messaggio. Questo ragazzo «sdraiato» studia? Legge, seppure su un ebook? Che musica ascolta, satanica o angelica? Crede in Dio o in qualche forma di trascendenza? Ama? Non si viene a sapere niente di tutto questo dal libro, probabilmente perché il padre narratore non lo sa, e forse non lo sa perché non gli interessa. Ciò che sommamente lo smuove è piuttosto come il figlio accartocci l’amato kilim, o dove e in che condizioni sparga i suoi calzini. Niente che non possa risolvere una brava colf, che sicuramente non mancherà con tutte quelle case in giro per mari e monti.

Ma anche tutta la confusione, e perfino l’odore che l’adolescente promana (del resto è perfino etimologico che un adolescente abbia odore), par di capire che sarebbero tollerati se solo il ragazzo una volta all’anno vendemmiasse il Nebbiolo, o una volta nella vita ascendesse il Colle della Nasca, cedendo così al gioco di potere del genitore. Perché, e questo è per me il punto chiave del libro, tutte queste cose non sono concepite dal padre come gusti personali, e pertanto discutibili: «Come farti capire — scrive disperato — che non è la mia vita, ma è la vita degli uomini quella della quale io sono un così impacciato testimone?».

Dunque l’esperienza del padre interpreta niente di meno che «la vita degli uomini». Il ragazzo che la rifiuta quindi nega la condizione umana. Come potrebbero non sentirsi degli estranei i nostri figli, di fronte a tanta siderale distanza, a questa dicotomia umano/non umano? Invece di cercare succedanei estetici all’autorità etica cui abbiamo rinunciato, dovremmo piuttosto parlare con loro della verità. Non per convincerli della nostra, o ancor meno per piegarli alla nostra (il Sessantotto è stato davvero utile da questo punto di vista, anche se in Italia è durato troppo, dieci anni, ed è finito nel sangue di Aldo Moro).

L’educazione non si impartisce, è la libertà di una persona che incontra la libertà di un’altra. Ma se noi non abbiamo niente da dire sulla verità, di che cosa pretendiamo di parlare con i nostri figli? Come potranno cercare la loro verità, magari diversa, forse opposta, se noi ne abbiamo paura? Perché ci dovrebbero ascoltare mentre ci crogioliamo nei nostri riti di borghesi arrivati e progressisti, che non hanno più niente di cui stupirsi e più nessuna novità cui aprirsi e ai quali la verità non interessa più, perché il nostro pensiero si è fatto debole, debolissimo, quasi inesistente? Forse abbiamo paura della libertà dei nostri figli; temiamo che la usino male, ma non abbiamo niente da proporre in cambio. Forse, da «adulti politicizzati», qualche volta li odiamo persino; perché, come ha scritto Gustavo Pietropolli Charmet, rimproveriamo loro «di non avere nessuna intenzione di intristirsi per le stolide e appassite ragioni» per le quali abbiamo inutilmente sofferto noi. Forse gli alieni siamo noi.

Antonio Polito
La Lettura

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