leggevo domenica sul Corriere della Sera un articolo, nella sezione Cultura, che parlava...del Gattopardo.
articolo del Mereghetti, qui siamo a Milano e si dice così, che presentava l'edizione di un saggio di Anile e Giannice -non so chi siano costoro- sulla presunta posizione di "destra" del Gattopardo e la sua progressiva svolta a "sinistra" grazie alla messa in scena di Visconti nel suo famosissimo film.
ora, a me non è chiaro di cosa si stia parlando, leggo che Montale lodò il libro pubblicato postumo e che invece Sciascia, da siciliano e comunista, si incaricò di accusare il libro di «raffazzonato qualunquismo» e di «astrazione geografico-climatica» e il suo protagonista di «congenita e sublime indifferenza» verso il popolo.
La considerazione di don Fabrizio Salina sul «sonno siciliano», quel sottolineare la speranza che «tutto cambi perché nulla cambi», viene vista come il segno di una visione antistorica, contraria a ogni idea di progresso. Cito dal Mereghetti, il 21 aprile 2013.
mi fermo qui perchè l'articolo è illeggibile e privo di interesse, almeno per la lettura che, di questo romanzo, ne ho fatto io.
il Gattopardo è il libro della e sulla perdita, quotidiana, personale, intima, simbolica, storica, cosmica, universale. la perdita che ricorda ogni santo giorno che dobbiamo morire. Don Fabrizio è una figura colossale e fragilissima, mastodontica e insabbiata, integerrima ma ineluttabilmente malinconica. un aristocratico decadente immerso nella quotidiana tortura della nostalgia e dell'incolmabile mancanza. come il tufo che si sgretola al sole e al vento.
il suo discorso, al deputato piemontese che viene a proporgli una candidatura in senato, sul sonno siciliano è l'apoteosi della bravura narrativa, della sottilissima intelligenza, della lettura sagace, sull'ineluttabilità della morte. sull'inedia, dell'accidia, sul rallentamento mortifero, sul sole assassino, sul destino senza speranza, sull'isularità d'animo.
destra? sinistra? mioddio, stiamo parlando di vita e di morte, di pienezza e di vuoto, non di tediosissima politica.
non contaminiamo il sacro con discorsi imbecilli.
- Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno
sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i piú bei regali; e, sia detto fra
noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio.
Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente:
la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre,
desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra
pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è
quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il
prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso
ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci
attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò
l'incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se
fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un
passato che ci attrae soltanto perché è morto.
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura
l'ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati,
aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero
autentiche vecchie tradizioni.
Disse: - Ma non le sembra di esagerare un po', Principe?
Io stesso ho conosciuto a Torino dei siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che
mi son sembrati tutt'altro che dei dormiglioni.
Il Principe si seccò: - Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri
semidesti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io
certamente, ma lei forse potrà vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso
torpore: lo fanno tutti. D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani
avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste
sono le forze che insieme e forse piú che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri
hanno formato l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza
lasciva e l'arsura dannata, che non è mai meschino, terra terra, distensivo, come
dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a
poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di
Taormina; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti
Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta
giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto
l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma
da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno
di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe
essere suffficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o che bisogna trasportare da tanto
lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le pioggie, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano
bestie e uomini proprio lí dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete.
Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di
ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili
perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti
questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e
sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche
e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno
formato il carattere nostro, che cosí rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che
da una terrificante insularità d'animo.
2 commenti:
Il sonno della Sicilia del Gattopardo, è lo stesso di tutto il Meridione, ancora oggi... ed è un dramma. Maledizione di un Dio conservatore, incantesimo di sopravvissute fattucchiere, o banale resistenza al cambiamento, ma quel dialogo pare scritto oggi. Attribuire etichette destra/sinistra, a storia e autore è tipico dei giorni nostri, e a quel "Chi non è con noi è contro di noi", eredità del "primo" ventennio. C'è da farsene una ragione. La visione antistorica poi del...tutto cambi perchè nulla cambi, fa il paio con la definizione di Borbonico, ad indicare arretratezza, non importa l'ambito... bah.
"lasciare che tutto cambi perchè nulla cambi" ha una precisa connotazione nel romanzo, oppone la scaltrezza strategica del giovane tancredi alla lenta inossidabile decadente aristocrazia di Don Fabrizio. un mondo avanza, forse, l'altro scompare, forse.
Posta un commento