dici transfert. dici all'origine dell'amore.
parli e guardo la tua bocca.
all'origine l'amore, dici, è testimone e produce ciò che dell'amore è significanza incontestabile, ovvero lo spostamento, il tra(n)sfe(t)rimento. la traslazione, l'allunaggio di vita dalla madre al figlio, è la prima esperienza d'amore, e anche la prima esperienza di separazione. è già scritto, tutto, dalla nascita.
l'origine dell'amore sta nell'allontanamento che da subito subiamo, la separazione dalla madre, oggetto primo e primario di amore. amore, quindi, dici, è mancanza.
è vero, amore è mancanza, e desiderio è proprio questo, l'inseguimento della mancanza, che, quindi, non si esaurisce mai. solo chi riconosce la propria mancanza incontra l'amore.
all'origine dell'amore c'è la ricerca dell'oggetto perduto, ricerca di quella mancanza esperita già dalla nascita. e l'esperienza si ripete alla nascita di qualsiasi relazione d'amore: come amiamo già manchiamo.
ma, soprattutto, dici, e questo lo sposo come mio, come la mia ricerca d'amore, come il mio perseguimento della mancanza, come la mia firma, che l'amore è discorso.
l'amore è discorso, il luogo della parola, del logos e del suo fluire.
"il desiderio non predispone una risposta e non contiene una soluzione. non si lascia presiedere da alcuna logica. se mai e' cio' che rompe la logica del discorso, la sua grammaitica, la sua sintassi. il desiderio e' cio' che nel discorso fa problema" (U. Galimberti)
come dice Anne Sexton, l’uomo dentro la donna stringe un nodo perché mai più loro due si separino e la donna si fa fiore che inghiotte il suo gambo e il Logos appare e sguinzaglia i loro fiumi.
parli e guardo la tua bocca e, così, mi inghiotti facendomi sentire e ricordare, lì, quanta parte del godimento della vita passa dalla bocca.
martedì 26 ottobre 2010
domenica 24 ottobre 2010
Il grande sogno
o forse la grande contraddizione.
questo ho visto in questo film italiano.
apprezzo molto l'impegno narrativo e a volte anche l'innegabile buona riuscita della filmografia italiana. "l'uomo che verrà" è un capolavoro.
questo film certamente no, ma si sforza di parlare. non ha una voce stentorea, non ti incatena con tono autorevole, sussurra solo un racconto autobiografico.
regia di Michele Placido con Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Luca Argentero, Massimo Popolizio.
e altri. di Placido ho amato Romanzo Criminale, che scandagliava la recente storia sociale italiana ma la cui forza espressiva era molto più convincente di quest'ultima produzione.
68, lotta studentesca. lei è una giovane cattolica universitaria, facoltà di fisica, alle prese con la sua estrazione borghese, lui è un giovane studente lavoratore alle prese con la rivoluzione, l'altro un poliziotto alle prese con la passione per il teatro.
lei è lucidamente intelligente, lui e l'altro certamente meno.
lei è riflessiva e parla con la sua voce, sempre, lui è più propagandistico e indottrinato, l'altro parla il linguaggio scarno della terra e, a volte, con l'intonazione della passione.
la contraddizione, oltre al sogno, regna su tutti, prima di tutto su chi abbraccia l'idea esaltante del cambiamento rivoluzionario ma proviene dalla più benestante borghesia italiana anni 60 - e anche in manifestazione veste abiti di sartoria e scarpe gucci- e si trova manganellato a sangue da celerini di indubbia provenienza proletaria. è un gioco delle parti nella ricerca di una nuova identità sociale.
come lo è quello amoroso. chi più sente e ci da di cuore, alla fine viene eliminato dal gioco del desiderio, una contraddizione che non trova una spiegazione, se non nella paura che ti fa scegliere chi ti somiglia e non chi ti scopre e accende come un falò. gioco delle parti.
nel tempo del soverchiamento dei ruoli sociali, almeno sperati, l'amore si piega alle paure di sempre, l'amore rimane una rivoluzione per pochi.
le contraddizioni non ce le risolviamo, il meglio che possiamo fare è di viverci dentro senza scordarci che ambigui ambivalenti e conflittuali lo siamo tutti.
forse questo è il limite del socialismo reale, diciamo così, il conflitto, di classe e non, non sa risolversi e non si può eliminare. le differenze sono inestinguibili e necessarie al vivere, sociale e non.
tornando faceti, ma anche serissimi, la cosa bella, vero motivo per cui scrivo il post, è il finale.
Finale 1.
dalla fecondazione di tanta passione tra lei lui e l'altro, per la politica, per l'amore, per la lotta, per la rivoluzione, nascerà, nella primavera del '69, una creatura che si chiamerà...ROSSA.
c'è un errore anagrafico, ma poco importa: quella nascita è la mia.
Finale 2.
il film si chiude con una bella canzone, di Placido e Piovani, cantata da Giorgia.
canzone che vuole sapere di datato e nostalgico, e forse proprio lo è.
parla di un sogno, di rosse ferite, del tempo in cui il desiderio di nuovo e di meglio e di bene aveva, al contrario di oggi, la forza di gridare.
questo ho visto in questo film italiano.
apprezzo molto l'impegno narrativo e a volte anche l'innegabile buona riuscita della filmografia italiana. "l'uomo che verrà" è un capolavoro.
questo film certamente no, ma si sforza di parlare. non ha una voce stentorea, non ti incatena con tono autorevole, sussurra solo un racconto autobiografico.
regia di Michele Placido con Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Luca Argentero, Massimo Popolizio.
e altri. di Placido ho amato Romanzo Criminale, che scandagliava la recente storia sociale italiana ma la cui forza espressiva era molto più convincente di quest'ultima produzione.
68, lotta studentesca. lei è una giovane cattolica universitaria, facoltà di fisica, alle prese con la sua estrazione borghese, lui è un giovane studente lavoratore alle prese con la rivoluzione, l'altro un poliziotto alle prese con la passione per il teatro.
lei è lucidamente intelligente, lui e l'altro certamente meno.
lei è riflessiva e parla con la sua voce, sempre, lui è più propagandistico e indottrinato, l'altro parla il linguaggio scarno della terra e, a volte, con l'intonazione della passione.
la contraddizione, oltre al sogno, regna su tutti, prima di tutto su chi abbraccia l'idea esaltante del cambiamento rivoluzionario ma proviene dalla più benestante borghesia italiana anni 60 - e anche in manifestazione veste abiti di sartoria e scarpe gucci- e si trova manganellato a sangue da celerini di indubbia provenienza proletaria. è un gioco delle parti nella ricerca di una nuova identità sociale.
come lo è quello amoroso. chi più sente e ci da di cuore, alla fine viene eliminato dal gioco del desiderio, una contraddizione che non trova una spiegazione, se non nella paura che ti fa scegliere chi ti somiglia e non chi ti scopre e accende come un falò. gioco delle parti.
nel tempo del soverchiamento dei ruoli sociali, almeno sperati, l'amore si piega alle paure di sempre, l'amore rimane una rivoluzione per pochi.
le contraddizioni non ce le risolviamo, il meglio che possiamo fare è di viverci dentro senza scordarci che ambigui ambivalenti e conflittuali lo siamo tutti.
forse questo è il limite del socialismo reale, diciamo così, il conflitto, di classe e non, non sa risolversi e non si può eliminare. le differenze sono inestinguibili e necessarie al vivere, sociale e non.
tornando faceti, ma anche serissimi, la cosa bella, vero motivo per cui scrivo il post, è il finale.
Finale 1.
dalla fecondazione di tanta passione tra lei lui e l'altro, per la politica, per l'amore, per la lotta, per la rivoluzione, nascerà, nella primavera del '69, una creatura che si chiamerà...ROSSA.
c'è un errore anagrafico, ma poco importa: quella nascita è la mia.
Finale 2.
il film si chiude con una bella canzone, di Placido e Piovani, cantata da Giorgia.
canzone che vuole sapere di datato e nostalgico, e forse proprio lo è.
parla di un sogno, di rosse ferite, del tempo in cui il desiderio di nuovo e di meglio e di bene aveva, al contrario di oggi, la forza di gridare.
giovedì 21 ottobre 2010
Sole d'ottobre
ascolto Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, letto da Paolini e mi imbatto in una poesia su "pietre colorate". temi d'autunno.
La rosa bianca
Coglierò per te
l'ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l'hanno visitata
sino a ieri
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
E' un ritratto di te a trent'anni,
un po' smemorata, come tu sarai allora.
Attilio Bertolucci, Fuochi in Novembre
allora penso che l'autunno è una muta psichica, un soprabito che mettiamo sul cuore.
straordinariamente senza corrispondenza al dato reale, c'è chi lo indossa, l'autunno, già al 10 settembre a 25 gradi e chi non lo abita nemmeno al 21 di ottobre, con i brividi che tapezzano il corpo.
mi colpisce la rosa bianca celata dalla nebbia, l'mmagine futura che è gia un ricordo.
penso che la bellezza, come l'autunno che copre di foglie la terra già fredda lungo le vie invisibili del vento, sta dietro le apparenze, ma solo per chi veramente lo sa capire. e sono davvero pochi.
la bellezza resiste al freddo e si protegge, vestendosi si copre ma solo di mistero. ed è quello che fa tremare.
la bellezza è dietro la nebbia, sotto un velo musulmano, nascosta da un vestito di gusto sapiente e da una ruga di vita, dentro un corpo che ha vissuto, celato dalla nebbia e pronto, per chi si avventura oltre, a regalare il suo profumo.
La rosa bianca
Coglierò per te
l'ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l'hanno visitata
sino a ieri
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
E' un ritratto di te a trent'anni,
un po' smemorata, come tu sarai allora.
Attilio Bertolucci, Fuochi in Novembre
allora penso che l'autunno è una muta psichica, un soprabito che mettiamo sul cuore.
straordinariamente senza corrispondenza al dato reale, c'è chi lo indossa, l'autunno, già al 10 settembre a 25 gradi e chi non lo abita nemmeno al 21 di ottobre, con i brividi che tapezzano il corpo.
mi colpisce la rosa bianca celata dalla nebbia, l'mmagine futura che è gia un ricordo.
penso che la bellezza, come l'autunno che copre di foglie la terra già fredda lungo le vie invisibili del vento, sta dietro le apparenze, ma solo per chi veramente lo sa capire. e sono davvero pochi.
la bellezza resiste al freddo e si protegge, vestendosi si copre ma solo di mistero. ed è quello che fa tremare.
la bellezza è dietro la nebbia, sotto un velo musulmano, nascosta da un vestito di gusto sapiente e da una ruga di vita, dentro un corpo che ha vissuto, celato dalla nebbia e pronto, per chi si avventura oltre, a regalare il suo profumo.
domenica 17 ottobre 2010
Fotografia tu sei l'ombra Del sole Tutta la sua bellezza (Apollinaire)
quest'anno corso di fotografia.
mi piace.
"fotografare...È mettere sulla stessa linea di mira la testa, l'occhio e il cuore" (h. cartier -bresson).
la fotografia è una scelta di campo, non è la realtà ma la sua rappresentazione. nell'occhio di chi guarda.
non è la realtà ma scelta di luce, di apertura, di profondità di campo, di nitidezza e sfuocatura, di prospettiva, di esposizione, di tempo, di soggetto e di distanza dal soggetto, di spazialita', di distanze apparenti, di piani compressi o dilatati.
che poi, se la si vuole ben vedere, è, in una specie di metonimia, quello che accade nella vita.
FOTO DI MARE
Umberto Piersanti
Lo ferma nello scatto contro il mare,
su questa spiaggia
ignota, i giochi sono
rosso-accesi di plastica,
gommosi, il tempo
questo presente alieno
che solo la memoria
soccorre e incrina,
io ero come te castano
e assorto,
ma non vedo il secchiello,
gettato oltre la foto,
nella rena sperso,
s'è fatto grigio eterno
come l'onda e il viso
come quelle palline a spicchi grandi
con Magni e Coppi,
il tunnel smisurato
che la spuma circonda
e assedia invano
anche per te
il tempo
farà cosi' distanti
i giochi accesi,
sbiancheranno i colori
nella carta,
dopo,
in una persa spiaggia,
fotografano la vita
tua, remota.
Stanley Kubrick
Robert Doisneau
Florence Henri
Jeanloup Sieff
Man Ray
Harbutt Charles
oh! quanta bellezza! vino – libri – fotografie – musica – lume di candela – occhi in cui guardare – e poi il buio – e i baci.
(parole di Tina Modotti scritte nel 1922 a Edward Weston, foto di tina modotti scattata nel 1921 da Edward Weston)
mi piace.
"fotografare...È mettere sulla stessa linea di mira la testa, l'occhio e il cuore" (h. cartier -bresson).
la fotografia è una scelta di campo, non è la realtà ma la sua rappresentazione. nell'occhio di chi guarda.
non è la realtà ma scelta di luce, di apertura, di profondità di campo, di nitidezza e sfuocatura, di prospettiva, di esposizione, di tempo, di soggetto e di distanza dal soggetto, di spazialita', di distanze apparenti, di piani compressi o dilatati.
che poi, se la si vuole ben vedere, è, in una specie di metonimia, quello che accade nella vita.
FOTO DI MARE
Umberto Piersanti
Lo ferma nello scatto contro il mare,
su questa spiaggia
ignota, i giochi sono
rosso-accesi di plastica,
gommosi, il tempo
questo presente alieno
che solo la memoria
soccorre e incrina,
io ero come te castano
e assorto,
ma non vedo il secchiello,
gettato oltre la foto,
nella rena sperso,
s'è fatto grigio eterno
come l'onda e il viso
come quelle palline a spicchi grandi
con Magni e Coppi,
il tunnel smisurato
che la spuma circonda
e assedia invano
anche per te
il tempo
farà cosi' distanti
i giochi accesi,
sbiancheranno i colori
nella carta,
dopo,
in una persa spiaggia,
fotografano la vita
tua, remota.
Stanley Kubrick
Robert Doisneau
Florence Henri
Jeanloup Sieff
Man Ray
Harbutt Charles
oh! quanta bellezza! vino – libri – fotografie – musica – lume di candela – occhi in cui guardare – e poi il buio – e i baci.
(parole di Tina Modotti scritte nel 1922 a Edward Weston, foto di tina modotti scattata nel 1921 da Edward Weston)
lunedì 11 ottobre 2010
il perdono è questione d'amore, e non solo immaginato
leggo il blog di Amore Immaginato e, a onta del senso di inadeguatezza che spesso vi si legge, ne apprezzo il passo lieve che ne rende inconfondibile lo stile e invidiabile la forma.
il post "perdono" però non lo condivido, così come molti dei commenti, ma non tutti, che lo accompagnano.
rispondo qui ad Amore, perche' sono stupita di averla trovata cosi' e perche' lei mi piace, per aggiungere riflessioni mie sull'argomento e magari allargare la discussione.
questo è il post:
Cosa farei ad un fratello che prendesse mia figlia, la uccidesse e non pago approfittasse sessualmente di un corpo ormai freddo?
Lo prenderei e lo taglierei a fette.
Ma non lo ucciderei.
Comincerei dalle dita, via, ad una ad una, prima quelle dei piedi, poi passerei alle mani.
Poi via un pezzo di braccio, un pezzo di gamba, un pezzo di qualcosa al giorno.
Il cazzo, per ultimo.
Poi lo restituirei, monco, giusto la testa di minchia gli lascerei e il busto, non per potermi illudere che una merda del genere possa pensare al male che ha fatto, ma perchè possa guardarsi, evirato e distrutto.
A quelli che venissero a chiedermi di perdonare, sputerei direttamente in un occhio e agli altri che mi accusassero di essere come lui direi che non capiscono niente e che è tanto facile fare i moralisti, perbenisti e sa il cazzo cosa, con il dolore degli altri.
Non bisogna fidarsi di nessuno, mai.
La gente non è mai come sembra, ha quella cattiveria malata dentro sè, che la conduce a nuocere.
E non chiamateli bestie, gli animali non pensano, agiscono d'istinto, per difendersi e non per fare del male gratuito.
I mostri, sono tutt'altra specie.
intanto non lo credo possibile, alla prima falange tagliata arriverebbe il voltastomaco. l'orrore. arriverebbe il senso viscerale di appartenenza alla carne, la supremazia della vita nonostante tutto.
non ce la si fa a fare a pezzi un uomo, solo le gravi deviazioni mentali lo consentono.
può sembrare improbabile ciò che dico dato il corso di molti attuali e storici eventi, ma è chiaro che l'istinto dell'uomo è orientato più all'amore alla convivenza alla vicinanza che all'omicidio e alla distruzione. è chiaro perchè siamo miliardi a popolare il mondo e nemmeno le guerre e gli assassini ce la fanno a decimarci fino all'estinzione. è chiaro perchè viviamo le nostre storie di amore e fratellanza, perchè mettiamo al mondo i figli e crediamo nella comunanza degli intenti.
non nego, anzi ci convivo io per prima, l'aggressività e la pulsione di morte, abitano in noi accanto alle pulsioni vitali, ma agirli richiede un deragliamento dall'asse portante della matrice vitale che è ancora un evento isolato.
seppure spinti dall'odio e dal dolore, infliggere un'agonia ad un altro è un'esperienza più improbabile che possibile.
e dico tutto questo al di là del fatto che sono convinta che non ci sia niente di più grandioso e glorificante la natura umana del commisurare una pena non violenta a chi violento è stato. e questo, lo ripeto, mi aspetto da uno stato che sappia agire sopra l'istinto di vendetta, che legiferi oltre l'istinto omicida del singolo individuo.
uno stato che uccide è uno stato che ha perso in partenza. è uno stato che insegna per primo ai propri cittadini che uccidere è legale e legittimo.
allora non scriviamo che l'odio per una morte violenta di un figlio ci legittima a farci giustizia da soli, non scriviamolo, perchè oltre a non riuscirci con la violenza con cui lo immaginiamo, perchè oltre a legittimare l'uso della violenza, qualunque sia la sua provenienza, perchè oltre a inneggiare alla barbarie della pena di morte, oltre a tutto questo penso che la vittoria più grande sulla morte violenta, sull'insensatezza della morte di un figlio, sulla follia di assistervi, sia la capacità di pensarci giusti nonostante il dolore o proprio grazie ad esso.
comprendo il valore dell'immedesimazione, del vestire i panni di chi subisce un furto vitale, uno strappo inimmaginabile, una voragine di sofferenza. ma dobbiamo sforzarci di guardare oltre, almeno finchè siamo spettatori e non primi attori. abbiamo il privilegio di non essere lì a raccogliere la carne offesa e senza vita di nostra figlia, forse proprio per questo è imporante farsi forza e cercare di rimanere sulla sponda di chi mantiene salda la propria integrità morale, per aiutare chi ora è, inesorabilmente, sull'altra sponda. scrivere di morte lenta e giustizia da sè vuole, in questo caso, solo comunicare con grande potenza il nostro amore genitoriale, il legame inscindibile con i nostri figli, ma quel nostro amore non è stato messo in discussione. quel nostro amore rimane saldo e lo sentiamo dentro di noi, perchè metterlo alla prova, o immaginarne la fine tragica, con un atto violento? chi soffre ora quel gesto estremo non lo ha agito, eppure la propria figlia la amava, perchè vederci noi nell'atto della violenza cannibalesca, perchè non condividere quel dolore con la stessa dignità?
e le mie domande non sono ancora finite.
perchè siamo capaci di scrivere contro la lapidazione di una Sakineh e non sappiamo misurare le reazioni nei confini di casa nostra con il medesimo senso di giustizia? è molto chic schierarsi contro l'immoralità di una pratica barbara in casa d'altri ma non sappiamo fermarci nella descrizione di una vendetta che a una lapidazione somiglia.
ma le contraddizioni dell'uomo in tema di giustizia ed equità oscillano di continuo tra il senso etico pubblico e il diritto privato. la signora Bruni in Sarkozi si fa vanto della sua presa di posizione ma condivide con il marito l'espulsione dei rom dalla propria santa terra di francia. aspetti diversi ma comunque sempre espulsivi e distruttivi del diverso da sè. Obama chiede la liberazione del premio nobel per la pace, il dissidente cinese Liu Xiaobo, ma non vede le atrocità del proprio paese dove vige la pena di morte in moltissimi stati, anche sui minorati mentali, e le crudeltà fisiche e mentali di una Guatanamo che non accenna a smantellare.
sappiamo sempre indignarci per le malignità degli altri, sempre, e issarci a paladini della pace ma non siamo capaci di tenere a bada il nostro desidero di vendetta? come possiamo chiedere un mondo migliore se non sappiamo essere migliori nel nostro privato?
"il privato è politica, l'educazione dei figli è politica, le relazioni umane sono politica perchè mostrano se l'individuo è libero o oppresso, se può agire in modo consapevole o no, se può agire liberamente o no" (ulrike meinhoff).
infine comprendo lo sconcerto sulle indagini allargate ai tratti psicologici della famiglia, suonano insultanti di fronte all'enormità del dolore, ma non posso tacere su una realtà che forse alla gente che valuta per l'istante emotivo indotto dalle immagini, e altrettanto rapidamente dimentica, che giudica sulla superficie dello schermo come utente radiotelevisivo, probabilmente sfugge. ciò che consumiamo come omicidio efferato e oltre ogni logica, che rompe non solo i codici del vivere civile ma anche quelli sacrali della famiglia, quell'atto è solo il gesto finale di una lunga storia che in quell'ambito civile e familiare è nato, cresciuto e proliferato con grande corresponsabilità di tutti i partecipanti. non si può pensare che le avance sessuali perpetuate dallo zio abbiano avuto la consistenza di un solo gesto prima dell'agito omicidia. dietro quel gesto ce ne sono stati molti, forse decine, di cui probabilmente la vittima si è lamentata con paura e sconcerto proprio nell'ambito di quella famiglia che ora ne subisce le atroci conseguenze. avrà parlato con il fratello i cugini la madre, magari non con un padre lontano e poco presente, avrà parlato e forse non sarà stata ascoltata.
noi vediamo solo la punta dell'iceberg, solo l'atto finale di una tragedia che non riguarda solo Sara e suo zio, ma probabilmente tutto un ambito familiare che forse non ha provveduto, che ha guardato altrove. ma non lì.
questo, lo devo dire, mi fa molto più impressione di un gesto folle e criminale.
quel gesto nasce da una mano ma la sua storia non ha un solo un percorso individuale. ma familiare.
questa è veramente una tragedia. questo è sconcertante. questo è devastante.
accettiamo il buono che c'è in noi e lo propagandiamo come la nostra parte migliore, ma guardare anche il marcio, l'insensato, il deviato che abbiamo dentro, anche dentro casa, è un'operazione su noi stessi nè facile nè scontata. solo che a volte quella parte, seppure familiare, seppure insabbiata, si svincola da ogni regola morale e come un'onda ci travolge lasciando solo dolore.
il post "perdono" però non lo condivido, così come molti dei commenti, ma non tutti, che lo accompagnano.
rispondo qui ad Amore, perche' sono stupita di averla trovata cosi' e perche' lei mi piace, per aggiungere riflessioni mie sull'argomento e magari allargare la discussione.
questo è il post:
Cosa farei ad un fratello che prendesse mia figlia, la uccidesse e non pago approfittasse sessualmente di un corpo ormai freddo?
Lo prenderei e lo taglierei a fette.
Ma non lo ucciderei.
Comincerei dalle dita, via, ad una ad una, prima quelle dei piedi, poi passerei alle mani.
Poi via un pezzo di braccio, un pezzo di gamba, un pezzo di qualcosa al giorno.
Il cazzo, per ultimo.
Poi lo restituirei, monco, giusto la testa di minchia gli lascerei e il busto, non per potermi illudere che una merda del genere possa pensare al male che ha fatto, ma perchè possa guardarsi, evirato e distrutto.
A quelli che venissero a chiedermi di perdonare, sputerei direttamente in un occhio e agli altri che mi accusassero di essere come lui direi che non capiscono niente e che è tanto facile fare i moralisti, perbenisti e sa il cazzo cosa, con il dolore degli altri.
Non bisogna fidarsi di nessuno, mai.
La gente non è mai come sembra, ha quella cattiveria malata dentro sè, che la conduce a nuocere.
E non chiamateli bestie, gli animali non pensano, agiscono d'istinto, per difendersi e non per fare del male gratuito.
I mostri, sono tutt'altra specie.
intanto non lo credo possibile, alla prima falange tagliata arriverebbe il voltastomaco. l'orrore. arriverebbe il senso viscerale di appartenenza alla carne, la supremazia della vita nonostante tutto.
non ce la si fa a fare a pezzi un uomo, solo le gravi deviazioni mentali lo consentono.
può sembrare improbabile ciò che dico dato il corso di molti attuali e storici eventi, ma è chiaro che l'istinto dell'uomo è orientato più all'amore alla convivenza alla vicinanza che all'omicidio e alla distruzione. è chiaro perchè siamo miliardi a popolare il mondo e nemmeno le guerre e gli assassini ce la fanno a decimarci fino all'estinzione. è chiaro perchè viviamo le nostre storie di amore e fratellanza, perchè mettiamo al mondo i figli e crediamo nella comunanza degli intenti.
non nego, anzi ci convivo io per prima, l'aggressività e la pulsione di morte, abitano in noi accanto alle pulsioni vitali, ma agirli richiede un deragliamento dall'asse portante della matrice vitale che è ancora un evento isolato.
seppure spinti dall'odio e dal dolore, infliggere un'agonia ad un altro è un'esperienza più improbabile che possibile.
e dico tutto questo al di là del fatto che sono convinta che non ci sia niente di più grandioso e glorificante la natura umana del commisurare una pena non violenta a chi violento è stato. e questo, lo ripeto, mi aspetto da uno stato che sappia agire sopra l'istinto di vendetta, che legiferi oltre l'istinto omicida del singolo individuo.
uno stato che uccide è uno stato che ha perso in partenza. è uno stato che insegna per primo ai propri cittadini che uccidere è legale e legittimo.
allora non scriviamo che l'odio per una morte violenta di un figlio ci legittima a farci giustizia da soli, non scriviamolo, perchè oltre a non riuscirci con la violenza con cui lo immaginiamo, perchè oltre a legittimare l'uso della violenza, qualunque sia la sua provenienza, perchè oltre a inneggiare alla barbarie della pena di morte, oltre a tutto questo penso che la vittoria più grande sulla morte violenta, sull'insensatezza della morte di un figlio, sulla follia di assistervi, sia la capacità di pensarci giusti nonostante il dolore o proprio grazie ad esso.
comprendo il valore dell'immedesimazione, del vestire i panni di chi subisce un furto vitale, uno strappo inimmaginabile, una voragine di sofferenza. ma dobbiamo sforzarci di guardare oltre, almeno finchè siamo spettatori e non primi attori. abbiamo il privilegio di non essere lì a raccogliere la carne offesa e senza vita di nostra figlia, forse proprio per questo è imporante farsi forza e cercare di rimanere sulla sponda di chi mantiene salda la propria integrità morale, per aiutare chi ora è, inesorabilmente, sull'altra sponda. scrivere di morte lenta e giustizia da sè vuole, in questo caso, solo comunicare con grande potenza il nostro amore genitoriale, il legame inscindibile con i nostri figli, ma quel nostro amore non è stato messo in discussione. quel nostro amore rimane saldo e lo sentiamo dentro di noi, perchè metterlo alla prova, o immaginarne la fine tragica, con un atto violento? chi soffre ora quel gesto estremo non lo ha agito, eppure la propria figlia la amava, perchè vederci noi nell'atto della violenza cannibalesca, perchè non condividere quel dolore con la stessa dignità?
e le mie domande non sono ancora finite.
perchè siamo capaci di scrivere contro la lapidazione di una Sakineh e non sappiamo misurare le reazioni nei confini di casa nostra con il medesimo senso di giustizia? è molto chic schierarsi contro l'immoralità di una pratica barbara in casa d'altri ma non sappiamo fermarci nella descrizione di una vendetta che a una lapidazione somiglia.
ma le contraddizioni dell'uomo in tema di giustizia ed equità oscillano di continuo tra il senso etico pubblico e il diritto privato. la signora Bruni in Sarkozi si fa vanto della sua presa di posizione ma condivide con il marito l'espulsione dei rom dalla propria santa terra di francia. aspetti diversi ma comunque sempre espulsivi e distruttivi del diverso da sè. Obama chiede la liberazione del premio nobel per la pace, il dissidente cinese Liu Xiaobo, ma non vede le atrocità del proprio paese dove vige la pena di morte in moltissimi stati, anche sui minorati mentali, e le crudeltà fisiche e mentali di una Guatanamo che non accenna a smantellare.
sappiamo sempre indignarci per le malignità degli altri, sempre, e issarci a paladini della pace ma non siamo capaci di tenere a bada il nostro desidero di vendetta? come possiamo chiedere un mondo migliore se non sappiamo essere migliori nel nostro privato?
"il privato è politica, l'educazione dei figli è politica, le relazioni umane sono politica perchè mostrano se l'individuo è libero o oppresso, se può agire in modo consapevole o no, se può agire liberamente o no" (ulrike meinhoff).
infine comprendo lo sconcerto sulle indagini allargate ai tratti psicologici della famiglia, suonano insultanti di fronte all'enormità del dolore, ma non posso tacere su una realtà che forse alla gente che valuta per l'istante emotivo indotto dalle immagini, e altrettanto rapidamente dimentica, che giudica sulla superficie dello schermo come utente radiotelevisivo, probabilmente sfugge. ciò che consumiamo come omicidio efferato e oltre ogni logica, che rompe non solo i codici del vivere civile ma anche quelli sacrali della famiglia, quell'atto è solo il gesto finale di una lunga storia che in quell'ambito civile e familiare è nato, cresciuto e proliferato con grande corresponsabilità di tutti i partecipanti. non si può pensare che le avance sessuali perpetuate dallo zio abbiano avuto la consistenza di un solo gesto prima dell'agito omicidia. dietro quel gesto ce ne sono stati molti, forse decine, di cui probabilmente la vittima si è lamentata con paura e sconcerto proprio nell'ambito di quella famiglia che ora ne subisce le atroci conseguenze. avrà parlato con il fratello i cugini la madre, magari non con un padre lontano e poco presente, avrà parlato e forse non sarà stata ascoltata.
noi vediamo solo la punta dell'iceberg, solo l'atto finale di una tragedia che non riguarda solo Sara e suo zio, ma probabilmente tutto un ambito familiare che forse non ha provveduto, che ha guardato altrove. ma non lì.
questo, lo devo dire, mi fa molto più impressione di un gesto folle e criminale.
quel gesto nasce da una mano ma la sua storia non ha un solo un percorso individuale. ma familiare.
questa è veramente una tragedia. questo è sconcertante. questo è devastante.
accettiamo il buono che c'è in noi e lo propagandiamo come la nostra parte migliore, ma guardare anche il marcio, l'insensato, il deviato che abbiamo dentro, anche dentro casa, è un'operazione su noi stessi nè facile nè scontata. solo che a volte quella parte, seppure familiare, seppure insabbiata, si svincola da ogni regola morale e come un'onda ci travolge lasciando solo dolore.
mercoledì 6 ottobre 2010
l'insostanziale azzurro - solo Sylvia Plath
Dante Gabriel Rossetti - Regina Cordium or The Queen of Hearts
Sylvia Plath mi affascina oltremodo, mi cattura in una foresta di gelo e mi incatena in un'alba di fiordalisi.
parole, parole come cattedrali, come escursoni nel deserto.
dentro, la follia si legge e si respira, ma soprattutto parla un linguaggio che si svincola davvero dal sentire comune, trova melodie e dissonanze tutte sue, e si incunea, per quello che so di me e delle devianze parafreniche, li', nell'angolo buio che fa paura se non terrore, nell'anfratto dove il sentire esplode e preme sulle circonvoluzioni cerebrali gridando per essere ascoltato.
cercavo una poesia autunnale e ho ritrovato questa, tra cento altre che mi dicono un mondo di cose come nessun'altra me le dice, e mi sono persa nel pallore di fiamma, che ricorda la passione e la morte, nello stesso medesimo istante.
Papaveri in Ottobre
di Sylvia Plath
Edward Stott - Echo
Nemmeno le nubi assolate possono fare stamane
Gonne così. Né la donna in ambulanza,
Il cui rosso cuore sboccia prodigioso dal mantello -
Dono, dono d'amore
Del tutto non sollecitato
Da un cielo
Che in un pallore di fiamma accende i suoi
Ossidi di carbonio, da occhi
Sbigottiti e sbarrati sotto cappelli a bombetta.
O Dio, chi sono mai
Io da far spalancare in un grido queste tarde bocche
In una foresta di gelo, in un'alba di fiordalisi.
lunedì 4 ottobre 2010
sepolto nella bruma il mare odora
ci penso alla gente di liguria.
ci penso e sono al caldo.
ci penso e sono al sicuro.
oggi vivo nel lusso, sono una regina.
penso a chi si perde dietro problemi inconsistenti, a chi piagnucola e a chi fa della depressione un vessillo o un vanto, una funzione vitale senza la verità del confronto.
una funzione vitale è una casa, una scala, una soffitta, una credenza, un frigorifero. un armadio con i vestiti e le coperte per quando viene freddo.
una funzione vitale è un letto e il negozio dove compro il pane tutte le mattine.
è autunno e piove, ma non dovrebbe diventare una disgrazia, la fine di una speranza di vita.
conosco questa poesia, voce elegante che sa pulsare forte, la dedico a chi sa, da oggi, cosa sia la disperazione.
Sera di liguria
Vincenzo Cardarelli
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s'accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
ci penso e sono al caldo.
ci penso e sono al sicuro.
oggi vivo nel lusso, sono una regina.
penso a chi si perde dietro problemi inconsistenti, a chi piagnucola e a chi fa della depressione un vessillo o un vanto, una funzione vitale senza la verità del confronto.
una funzione vitale è una casa, una scala, una soffitta, una credenza, un frigorifero. un armadio con i vestiti e le coperte per quando viene freddo.
una funzione vitale è un letto e il negozio dove compro il pane tutte le mattine.
è autunno e piove, ma non dovrebbe diventare una disgrazia, la fine di una speranza di vita.
conosco questa poesia, voce elegante che sa pulsare forte, la dedico a chi sa, da oggi, cosa sia la disperazione.
Sera di liguria
Vincenzo Cardarelli
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s'accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
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