bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 16 novembre 2017

Libertà- qualche cosa di rettilineo e di crudele che si vede nei volti delle suore anziane che comandano

non avevo idea di cosa mi aspettasse quando ho preso questo audiolibro.
sapevo solo che ad ogni intervista in tema Beppe Severgnini diceva che questo audiolibro era il più bello che avesse ascoltato.
nella prefazione l'autore parla di poesia.
e, anche lì, non capivo.
poesia?
ebbene si, ha ragione, è poesia.
perché i Sillabari di Parise non sono racconti.
sono un'estensione in prosa della poesia.
non c'è una storia, c'è, apparentemente, una trama, ma la questione non si dipana in una narrazione, ma in una trovata poetica per ogni singolo tema trattato.
il filo conduttore non è logico, è poetico.
è una sorpresa.
è un piccolo mistero che si disvela attraverso una parola spesso geniale.
in ogni tema ce n'è una, o più di una, che centra l'obiettivo in modo sorprendente ma di lato, di nascosto, inaspettatamente, in controluce.
questa è poesia, ha ragione Parise.
qui qualcuno, con "qualche cosa di rettilineo e di crudele che si vede nei volti delle suore anziane che comandano", "sorride politicamente" al pensiero di un giovane pittore che "emanava un odore di pane crudo lievitato e pronto per essere messo al forno" e che "come tutti coloro che sono belli, giovani, e appartenenti a una grande e ricca famiglia o a un grande e ricco paese, era povero ma felice. Egli, come tutte le persone felici, sapeva a malapena di essere povero e non sapeva affatto di essere felice" e che in "qualche cosa l’aveva attratta in modo quasi scandaloso".

Libertà
Un giorno di primavera un giovane pittore americano di nome Tom Corey pedalava “veloce come il vento” su una bicicletta da corsa giallo canarino sotto gli alti pini di Villa Borghese a Roma. Il cielo era (naturalmente) azzurro, però più celeste che azzurro con nubi e al centro delle nubi una sfumatura grigia e dentro la sfumatura grigia un piumino rosa come di cipria. Tom (naturalmente, anche lui) portava scarpe da tennis, blue-jeans e una ventosa camicia rossa amaranto di seta lucida con larghi e grassi fiori blu dipinti a mano, comprata per un dollaro in un magazzino di stracci cinesi alla Quarantaduesima Strada di New York. Era biondo, aveva occhi celesti, era magro e non troppo alto e simile a un ballerino. Pedalava come un ragazzo, con foga ed era già tutto rosso in faccia, un po’ sudato, così emanava un odore di pane crudo lievitato e pronto per essere messo al forno. 
Correndo attraversava zone d’ombra un po’ cupe, coperte di vegetazione nerastra e umida da cui occhieggiava il tufo e anche il muschio, e in quelle zone si rinfrescava del sole ventosino ma scottante che gli batteva in piena faccia in altre zone aperte. Rideva o sorrideva, mostrando i bei denti bianchi di cane con qualche guizzo di saliva e di luce e qualche volta socchiudeva gli occhi, frenava l’andatura “a razzo” o addirittura si fermava e, sempre con gli occhi socchiusi, guardava: una statua, una fontana, un prato sotto gli ombrelli dei pini, la luce che filtrava e i differenti toni di verde, dal verde pisello al grigio, del prato sottostante. 
Si fermò a lungo sotto la casa di Raffaello, indeciso, con la punta di un piede per terra, immobile e teso con gli occhi sempre più socchiusi e mordendosi i baffetti: poi riprese la corsa ma soprappensiero, in discesa, costeggiando piazza di Siena. Lo sguardo volò dentro quel catino in ombra, si fermò, appoggiò la bicicletta gialla contro una siepe (la bicicletta affondò dentro l’oscurità verdastra), levò da dietro il sellino una cartella e una scatoletta di legno e con questi oggetti di scolaro sotto il braccio e in mano fece pochi passi fino a sovrastare l’ampia conca del maneggio. Qui si sedette sul muro, appoggiò la cartella, ne levò un foglio di carta gialla da macellaio che distese sulla cartella: la fissò con due mollette di lato e aprì la scatola dei pastelli piccoli e ridotti a tanti pezzi. Inutile dire che anche Tom, come tutti coloro che sono belli, giovani, e appartenenti a una grande e ricca famiglia o a un grande e ricco paese, era povero ma felice. Egli, come tutte le persone felici, sapeva a malapena di essere povero e non sapeva affatto di essere felice. Mangiava sì e no una volta al giorno, dormiva in un buco della suburra circondato da vecchi muri romani grondanti sangue e morte (ma egli, giustamente, scambiava sangue e morte per storia) e spesso, alla sera, ballava dei boogie e dei rock con certe ragazze negre di New York (indossatrici) emanando quell’odore di pane, trattandole come puro materiale ritmico ed esse erano ben felici di farsi trattare così. 
Parlava qualche parola di italiano, ma pochissime e con una stupita grazia miagolante che completava il lessico. Era pittore di paesaggi e di interni e ogni giorno con la sua bicicletta giallo canarino usciva per Roma o entrava nei palazzi con i suoi piccolissimi gessi: stava lì un’ora, anche due se non cambiava troppo la luce, ma se la luce mutava e non era più così felice o così infelice come la sua felicità voleva che fosse se ne andava dopo un quarto d’ora; tornava il giorno dopo quando il sole era alto oppure radente. 
Gli piaceva trovare il colore delle cose che passano, soprattutto in quei momenti di luce infelice al mattino, quando il sole è alle spalle, non ha ancora scaldato i muri, gli alberi e i prati e tutto è ancora avvolto da qualche cosa di diurno che però appartiene più alla notte che al giorno. Quella totale mancanza di luce diretta, o quella lampeggiante o radente durava poco, ecco la ragione per cui andava e veniva. Allora non soltanto la carta gialla da macellaio su cui sfregava i gessi assorbiva quell’umidità e quel freddo ma anche la sua pelle e i suoi muscoli, e tutto ciò veniva reciprocamente trasmesso dalla carta ai muscoli e dai muscoli alla carta. 
Quel giorno di primavera e il luogo scelto erano uno di questi. Tom lavorava svelto e un po’ corrucciato e miope, alzando gli occhi aspettava che una di quelle nubi bianche grigie e rosa passasse sul sole. Siccome le nubi correvano questo accadeva spesso e Tom lavorava più svelto con i suoi gessetti abbassando gli occhi fino al foglio. 
Poco distante da lui stava seduta su un seggiolino pieghevole una donna non vecchia ma quasi vecchia, con le gambe tutte fasciate da grosse calze elastiche grigio rosate che le stringevano, vicino alla donna due giovanotti stavano appoggiati ad una macchina blu senza parlare e fumando. Uno di loro aveva una rivoltella infilata nella cintura. 
La donna osservava Tom che dipingeva, lo sbirciava ogni tanto e sempre più spesso con moltissima curiosità e con quella sorta di indiscrezione innocente che hanno sia i vecchi che i bambini. Nel frattempo pensava a certe vicende politiche italiane di cui era stata non soltanto protagonista (si trattava di un senatore) ma anche testimone. Il corpo della donna era forte e grosso come le gambe fasciate ma non grasso, come quello di una contadina, e come una contadina molto pulita e a posto era vestita e anche pettinata. Anche il volto era di una contadina ma, a differenza di una contadina quale doveva essere stata, il volto era offuscato da qualche cosa, qualche cosa che doveva esserci stato un tempo non lontano, qualche cosa di rettilineo e di crudele che si vede nei volti delle suore anziane che comandano. 
Tuttavia la donna guardava Tom come se egli avesse o mostrasse nel modo di muoversi e di essere e di sfregare i gessetti sulla carta una cosa che lei non conosceva, non aveva visto mai nella sua vita. Si alzò molto lentamente dalla seggiolina pieghevole, aveva un bastoncino nero e sottile con il manico curvo, a cui si appoggiò. I suoi piedi erano grossi, bitorzoluti e incerti dentro scarpe nere che parevano fatte apposta, si avvicinò a Tom e guardò attentamente prima lui da vicino, poi quello che stava facendo. Per un istante Tom fu distratto da un passero che si appoggiò a un angolo della cartella allargando e chiudendo le ali come un ombrellino e la donna approfittò di questo momento per dire: «Non la disturbo?». 
Tom ebbe un piccolo soprassalto, guardò dietro di sé la signora e in quel suo modo un po’ miagolante e ridendo, allargando le braccia, le mani e le dita in un gesto di benvenuto, nervoso e timido, come volesse abbracciarla, e anche arrossendo, disse: 
«Oh, no, prego.» Fece una pausa e disse ancora «prego». 
 «Lei è un artista, un pittore» disse la donna e rivelò una voce bella, un po’ maschile. 
 «Sì» disse Tom e arrossì un’altra volta. 
 «Un pittore straniero?» 
 «Americano» disse Tom. 
 «Ah, americano» aggiunse la donna e piegò lievemente il capo in modo gentile e come rispettoso. Ci fu una pausa durante la quale Tom non sapeva che cosa dire essendo sempre la donna in piedi e non trovava in quel momento le parole in italiano per aggiungere qualche cosa alla conversazione appena iniziata. Ma la donna, forzando la sua voce lenta e autoritaria ad essere il più gentile possibile disse «buongiorno» e si allontanò verso l’automobile blu. Due giovanotti l’aiutarono a salire e l’automobile partì lentamente. 
Passarono i mesi, Tom non rivide più la donna con le gambe fasciate e la dimenticò completamente, non così la donna che di tanto in tanto passando con la macchina e le due guardie del corpo per le sue passeggiate a Villa Borghese lo intravedeva dal finestrino. Dava ordine di rallentare, guardava un momento, poi l’auto ripartiva silenziosa verso il Senato. Nonostante la malattia e l’età la donna era considerata sempre battagliera: non più come una volta ma rappresentava, come spesso succede in Italia, una figura di definitivo prestigio politico. Tom questo non lo sapeva e probabilmente non lo avrebbe saputo mai, tanto lontana era la sua vita, da quella politica italiana. 
Ma la donna ricordava Tom e il suo ricordo era sempre legato a qualche cosa che l’aveva attratta in modo quasi scandaloso, così pensava tra sé, ma purtroppo impossibile da capire tanto che spesso se lo chiedeva senza ottenere nessuna risposta. Le venne in aiuto alcuni anni dopo una intervistatrice, giornalista di un mensile femminile che, tra le altre, le pose la seguente domanda: «Senatrice, come definirebbe la libertà? Rosa Luxemburg…». 
«Lo so, lo so…» interruppe la donna, sorrise “politicamente” e alzò leggermente la mano. Il sorriso scomparve, la sua voce tornò un po’ maschile. 
«La libertà è il sociali…» e qui si interruppe un istante. “La libertà è un pittore americano a Villa Borghese” avrebbe voluto dire. Fini la frase: «…il socialismo, il nostro socialismo».

Da I sillabari, Goffredo Parise

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