domenica 25 luglio 2010
lontano lontano come un cieco m'hanno portato per mano .
se fosse anche solo pochi anni fa oggi sarei scesa da quelle scale, a spirale, in pietra, con la ringhiera in ferro battuto e le pareti d’intorno affrescate. Le avrei scese come ho fatto per molta parte della mia vita. avrei fatto uno scalino dopo l’altro respirando l’aria umida e spessa di quella casa, di quel santuario che era la mia casa al lago, lago maggiore, a S.
le avrei fatte di corsa, come facevo di solito, lasciando scorrere la mano sul corrimano di legno e pregustando il momento di arrivare in sala, la grande sala liberty della casa, la più grande e più bella di tutte, di tutte tre le sale che animavano quel luogo fatto di sogno. sarei arrivata contenta e avrei aspettato il momento magico di arrivare in cucina, una vecchia cucina piena di finestre, con le persiane verdi, vecchie e scrostate, dove già la mattina presto filtrava quella luce, luce d’estate, che nella mia memoria è la luce più vivida e vitale che abbia avuto modo di respirare. si, respirare a polmoni pieni, respirare con gli occhi spalancati, respirare con il sistema limbico in allerta, respirare con il cuore allargato, respirare con le orecchie ricettive al rumore del vento.
fosse stato poi anche molti anni fa, sarei arrivata in cucina e ci avrei trovato mia madre, sempre con la sua vestaglia rosa, semplice ma perfetta, antica ma profumata dell’odore caldo gli armadi di legno, con i capelli pettinati anche alle nove del mattino di un sabato di luglio prima delle vacanze, con la cuccuma del caffè fumante, sola, a sorseggiare, e mi avrebbe sorriso.
non fosse che la vita me l’ha portata via, quella casa, ora avrei splalancato le persiane della porta finestra e avrei visto il giardino, con il suo orto e le sue ortensie e i suoi scalini e il recinto dell’oratorio. avrei trovato un cestino pieno di frutta, fichi e susine e ciliege appena colti dall’albero e di verdura, pomodori melanzane peperoni e odori dell’orto. e una cipolla, per fare il sugo, nel pentolino vecchio, quello della nonna.
questo avrei trovato, spalancando quella persiana verde.
avrei preparato la colazione e l’avrei assaporata nelle tazze vecchie, un po’ sbeccate, di ceramica azzurra. avrei sentito che quella casa, acquistata dal nonno, siciliano di origine, lombardo di adozione, mi apparteneva, nelle viscere, come un figlio, come un pezzo della mia carne, come un angolatura della mia memoria. avrei poi aperto le finestre della sala ma senza lasciarle splalancate, le avrei lasciate come sempre, dischiuse, in modo da lasciare filtrare la luce senza darle il modo di invadere la stanza.
per me la luce d’estate è quella, la luce forte delle cicale e del coro delle tortore e del rumore del calore bianco-fuoco che rimane fuori. per me la luce d’estate è la penombra dell’interno, per me è il contrasto, in tutto, che crea l’atmosfera, la percezione della differenza tra un dentro e un fuori, la sensazione di un confine che non si valica, mai, del tutto. la luce è fuori la penombra è dentro, anche quando è forte fortissima e vuole entrare e si insinua e magari la vedi per terra, come un quadrato, un fazzoletto, ti chini per raccoglielo...e non è un pezzo di carta caduto.
è la luce da fuori che cerca di entrare.
è la luce che esiste, senza esserci, e che chiede materia.
avrei passato la mattina a sistemare e aerare le stanze di quella villa a tre piani, con un soffitto pieno di polvere ma irresistibile di segreti e anfratti e oggetti consumati del primo novecento. avrei rifatto il letto della camera dei miei, la più bella camera che io ricordi, con un letto di legno di quelli alti, e i comodini con le lampade liberty, eleganti e originali, e le pareti coperte di affreschi, le finestre immense, una sulla terrazza sul giardino davanti e l‘altra sul frutteto dietro. mi sarei lavata e preparata nel bagno con la vasca in ceramica con i piedini e i cigni dipinti ovunque ti girassi, pronta a uscire forse per fare la spesa di pizzette e paste a Laveno, forse per correre in giardino e leggere, leggere, leggere. leggere sotto gli alberi più alti che mai, alberi secolari enormi giganteschi carichi di ombra e di fresco. oppure sarei stata frenetica nella preparazione di una mia festa di compleanno, di quelle che iniziavano alle sette di sera con uno spettacolo di teatro organizzato da mio padre e finivano alle due con una giovane band che suonava dal vivo. Avrei cercato la mia gatta nera, l’avrei cercata sopra gli alberi a nascondersi dopo una notte brava, oppure l’avrei trovata su al tennis dopo il torneo, o ancora a rincorrere le palle al campo di bocce.
fosse stato molti e molti anni fa avrei trovato mio padre, le mie zie e i mie cugini, avrei guardato impaziente quel movimento di gente amata intenta nella preparazione della pollata allo spiedo, tutti ubriachi alla tavolata lunga dieci metri sotto il portico a cantare al calore della brace, oppure alle olimpiadi di S., giochi e gare ginniche, ma forse sarebbe stato più probabile trovarmi, piccola e pacifica, sul prato a giocare con i conigli, o nella stalla vicino al fienile a spiare le mucche, occhi liquidi che non guardano. oppure, ancora, con il naso dentro la voliera bianca.
fosse stato ancora prima avrei visto mia nonna preparare il burro, in quella cucina, quando il lavandino era ancora di pietra, e il suo dolce con i savoiardi e aggiungere l’idrolitina all’acqua, che strano gioco di magia...
oggi la natura è potente, è energica e grida l’estate, è splendida di luce e forte di vento e io non sono a S. ma la mia memoria mi gioca questo strano scherzo di farmi vagare in quelle stanze, come gli spazi immaginifici di magritte, scatole di memoria in cui guardiamo dentro e ritroviamo la nostra radice, il nostro motivo di essere, il senso della continuità.
quello spazio, dal quale, una volta entrata, era difficile farmi uscire, era il mio ventre materno e la mia mente paterna, era il luogo della paura bambina –lunghe interminabili scale buie di notte e in fondo la luce della vita dei grandi- della serenità adulta, della speranza migliore, del sesso avvolto in un lungo respiro con le finestre ancora chiuse, la luce che filtrava a scaglie e illuminava a tratti il mio corpo, con la zanzariera del mio letto che mi avvolgeva e il cassettone di legno con le candele accese la sera prima...ormai spente, testimoni del mio sonno. quello spazio aveva tutto, non finiva mai, si replicava all'infinito, era pieno di tempo, non aveva bisogno del mondo per vivere, almeno così credevo.
è lì che vorrei essere ora, ne avrei diritto, ne avrei motivo, ne avrei giustizia. per l’amore e quella radice che penetra in me come nella terra umida.
Estiva
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell'albe senza rumore -
ci si risveglia come in un acquario -
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d'oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell'ordine che procede
qualche cadenza dell'indugio eterno.
Vincenzo Cardarelli
giovedì 22 luglio 2010
Tieni un capo del filo, con l'altro capo in mano io correrò nel mondo. E se dovessi perdermi tu, mammina mia, tira.
"venuto al mondo", margaret mazzantini, conosce nessuno?
un libro da paura. veramente. altro che caldo, da sciogliersi per eccesso di calore intensita' mannaia del pensiero. quella scrive come pensa. e' pericolosa, credetemi.
l'ho già sentita vibrare sulla pelle con "non ti muovere" e anche questa volta penso che questa donna scrive senza la mediazione della buona educazione. a me il suo pensiero arriva diretto ovunque, in questo caso non ha risparmiato nemmeno l'utero.
un libro da leggere solo se dotati di buon equilibrio psicofisico: io non ce l'ho, nè ora nè mai, ma l'ho letto lo stesso.
e si vede, ne porto i segni qua e la'.
un libro da leggere, preferibilmente se si sono risolti, o almeno valutati, i dubbi sulla maternità, oltre alla propria, ipotetica o reale, anche su quelle che si desiderano oltre ogni ragionevole dubbio, quelle che sventrano l'utero nonostante tutto, nonostante il corpo e la mente dicano NO.
è Sarajevo che fa da sfondo a un amore che sembra illusoriamente senza fine, morte e guerra che fanno da culla alla nascita. un parallelismo che la dice lunga su una maternità che fa morti intorno a sè. da un ventre malato moribondo sanguinante e putrefatto nasce la vita.
un libro senza sconti, una storia che sgretola certezze, una scrittrice con un talento, per me, senza scampo.
"Raggiungiamo l'ospedale del Kosevo. Nell'obitorio c'è quell'odore inconfondibile, acre e dolciastro. Passiamo accanto al corpo di una ragazza con i jeans e senza braccia, poi un uomo carbonizzato, la pelle nera, ritirata sulle ossa del cranio, i denti scoperti. Ci hanno dato una mascherina impregnata di disinfettante per proteggerci da quell'odore.
Poi mi accorgo del bambino, è la salma successiva, dopo una barella vuota. Sembra un bambino blu. Si, ha quel pallore leggermente celeste dei santi in chiesa. È composto, non ha sangue sul viso, e ha quel genere di capelli che restano sempre in ordine, ruvidi, tagliati corti, come un cappello di pelo ... sono così vivi che mi sembra di sentirne l'odore, quello della testa un po' sudata sotto, di bambino che ha giocato. È una lucertola blu, questo bambino. Un piccolo santo. Dev'essere morto da poco, da pochissimo. Mi avvicino per guardarlo meglio, non c'è nessuno con lui...Fuori da qualunque realtà. Il retrobottega della guerra, corpi ammucchiati come giocattoli rotti. Il bambino ha un golf a strisce. Gli guardo una mano, leggermente schiusa, abbandonata come nel sonno. L'innocenza reclinata umilmente alla morte. Gli guardo le unghie, dove mi sembra si sia fermata l'anima. Dovrei andarmene perché sento che non mi salverò più da questa visione, che questo bambino entrerà in me e uscirà solo quando anch'io morirò. Sarà l'ultima cosa che vedrò, e la prima che vorrò raggiungere, dopo, quando cercherò le unghie di questo bambino nel volo azzurro delle anime. Non mi chiedo dov'è sua madre, perché non è qui a piangere, forse è morta anche lei. Perché adesso sono io la madre del bambino, gli tocco la mano. So che non dovrei farlo. È che mi sembra di poterlo fare. Nessuno è qui a piangere sulla salma del bambino, a reclamarla. È appena morto, sembra ancora vivo. Sembra che possa fare un guizzo, piantarmi gli occhi addosso e andarsene in fretta come un topo, spaventato di trovarsi qui.
Ora avrei la cura per i potenti del mondo, per gli uomini in giacca e cravatta intorno al tavolo della finta pace. Bisognerebbe posare il bambino blu su quel tavolo. Dovrebbero restare chiusi in quella stanza, senza potersi muovere. Restare. Vedere la morte che fa il suo lavoro metodico, che se lo mangia da dentro. Distribuire panini, sigarette, acqua minerale e lasciarli lì, mentre il bambino si svuota, si decompone fino alle ossa. Per giorni. Per tutti i giorni che ci vogliono. Questo esattamente farei.
E adesso so di essere diventata madre davanti a questo bambino morto. Le ossa del bacino si sono aperte, un parto è passato in questo obitorio.
La ribellione mi fa battere i denti.
Vedo il bambino nel suo fluido azzurro. Gli tengo la mano.
Percorro tutto il corpo, un gomito, i lividi sui polpacci tra la peluria sottile.
Cosa c'è dopo un bambino morto?
Nulla, credo, solo la replica sorda di noi stessi.
Il bambino è qui, con i suoi capelli da bambino, una calotta di pelo che esala ancora l'odore della vita. Gli occhi murati dei santi, dei martiri che indietreggiano. La pelle delle palpebre è liquida, gli occhi sotto traspaiono come acini d'uva ... non sono del tutto chiusi, resta uno spiraglio tra le ciglia. Una strada. Come un camminamento scuro tra la neve fresca.
Prendo la mano del bambino, m'incammino con lui. Perché sei nato? gli chiedo.
Velida si avvicina. «Possiamo andare, adesso.»
Poi anche lei si accorge del bambino, si mette una mano sulla bocca. «Di chi è?» sussurra.
«Non lo so.»
Si guarda intorno come cercasse qualcosa, qualcuno ... il motivo di tutto questo. Anche lei non ha avuto figli, siamo due donne inutili, due biciclette senza catena.
«È il figlio della guerra ... » dico, e non so quello che sto dicendo, quello che sto pensando, non so cosa sono diventata.
Siamo sole in un campo di morti. C'è un bambino blu che non potrò più dimenticare. Non dovevo essere qui oggi, non dovevo essere io a consolarlo, a tenergli la mano. È stato un caso.
Ci avviamo verso l'uscita. La mascherina intrisa di disinfettante mi protegge dall' odore. Non devo più voltarmi. Attraversiamo il buio, lo scheletro della città.
Cammino nel fango delle lacrime, affogo nell'asola di quegli occhi che non s'erano chiusi del tutto e adesso saranno già sepolti, incollati di terra come una lumaca schiacciata. Non piangerò mai più così, nemmeno quando resterò sola. Quel giorno sarò forte come una vedova bosniaca, come Velida.
Davanti al bambino lei ha detto: «I mariti possono morire, i figli no».
Per qualche giorno non sento più nulla. Resto chiusa nel fuoco blu di quella visione. Intorno a me solo materia fredda. Il pensiero del bambino sotto la terra non mi lascia in pace. S'indurisce come un fossile nella pietra, un guscio. È l'ultimo gradino di questa scala che si arrampica nel vuoto. Non posso più toccare questa terra dove pascolano lumache e morti. Insieme al bambino blu mi sembra che siano morti tutti i bambini del mondo. Fa freddo, il ghiaccio si aggrappa alle cose, le cattura. I bambini giocano a scivolare, non li guardo nemmeno, mi sembrano fantasmi, creature incolonnate verso la morte."
“spegni tutto, cazzo aspetti, Dio? Togli il sole, buttaci addosso dal cielo un pianeta nero come il cuore dei bracconieri in cravatta. Oscura tutto una volta per sempre. Cancella anche il bene, perché il male vive nelle sue tasche. In questo istante. In questo. Perche' in questo istante un bambino sta per essere raggiunto. Salva l'ultimo. Spegni tutto, Dio. E non avere pietà, non abbiamo diritto a nessun testimone.”
"Ogni volta che sono andata a trovare una mia amica che a tra cuscini bianchi e fiocchi, ogni volta che ho visto quel nitore, ogni volta che ho sentito quell'odore indescrivibile di carne nata, di bambino nuovo ... ma anche solo quello dei detergenti, dei dischetti per disinfettare i capezzoli prima dell'allattamento, ogni volta che ho sorriso, ho detto che meraviglia, che incanto, ogni volta mi sono sentita un pezzo più sola, un pezzo più brutta. E sono uscita da quelle tane d'ovatta, dopo aver depositato il mio regalino d'augurio, rabbuiata. E ho camminato per un po', randagia, senza essere più io.
Io non ho partorito. Non si guarisce mai da ciò che ci manca, ci si adatta, ci si racconta altre verità. Si convive con se stessi, con la nostalgia della vita, come i vecchi.
lo non ho partecipato all'evento primigenio, alla rigenerazione di me stessa. Il mio corpo è stato estromesso all'origine da questo banchetto che le donne comuni ripetono a raffica, sazie, indifferenti verso quelle come me.
I parti cambiano le ossa, le spostano. Mia nonna diceva che ogni nascita è un chiodo nel corpo di una donna, un ferro di cavallo. E che prima di morire le madri rivedono i parti che hanno fatto, il corpo che si spalanca e cede al mondo carbone bianco. Vedono i chiodi, la traccia del loro percorso. Morendo cosa ricorderò? Quale sarà il mio ferro di cavallo?"
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domenica 18 luglio 2010
Gabbiano Jonathan Livingston, ovvero il principio invisibile della vita
gabbiano che vola più alto, vede più lontano.
ho appena finito di rileggere. o meglio di audio-rileggere (e non e' la stessa cosa) il Gabbiano Jonathan Livingston.
e penso che non e', o non e' solo, un libro sulla liberta':
"noi siamo liberi di andare dove vogliamo e di essere quello che siamo...una perfetta idea di libertà e volo, senza limite alcuno"
o un libro sulla mindfulness:
"per volare veloce come il pensiero, verso ogni luogo esistente, devi prima convincerti che ci sei già arrivato"
e' un libro sulla trascendenza, sul superamento della dimensione dello spazio e di quella del tempo:
"il paradiso non è un luogo e non è un tempo, il paradiso è essere perfetti. Raggiungerai il paradiso, allora, quando avrai raggiunto la velocità perfetta. Il che non significa mille miglia all'ora, né un milione di miglia, e neanche vuol dire volare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta, figlio mio, è esserci, esser là, nella tua perfetta velocità"
Shanti
http://fc00.deviantart.net/fs41/f/2009/027/5/f/5f35ae06b79192986522051a2782ad07.jpg
ho appena finito di rileggere. o meglio di audio-rileggere (e non e' la stessa cosa) il Gabbiano Jonathan Livingston.
e penso che non e', o non e' solo, un libro sulla liberta':
"noi siamo liberi di andare dove vogliamo e di essere quello che siamo...una perfetta idea di libertà e volo, senza limite alcuno"
o un libro sulla mindfulness:
"per volare veloce come il pensiero, verso ogni luogo esistente, devi prima convincerti che ci sei già arrivato"
e' un libro sulla trascendenza, sul superamento della dimensione dello spazio e di quella del tempo:
"il paradiso non è un luogo e non è un tempo, il paradiso è essere perfetti. Raggiungerai il paradiso, allora, quando avrai raggiunto la velocità perfetta. Il che non significa mille miglia all'ora, né un milione di miglia, e neanche vuol dire volare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta, figlio mio, è esserci, esser là, nella tua perfetta velocità"
Shanti
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venerdì 16 luglio 2010
giovedì 15 luglio 2010
Bolero: erotismo firmato Bejart
i miei festeggiamenti sono inziati sabato. Milanesiana, rassegna culturale che verte, quest'anno, sul tema del paradosso. tema interessante, non sempre rispettato nel suo vero significato, ma sabato ho ascoltato Jane Campion e Salma Rushdie confermare il senso portante della contraddizione nella genesi letteraria, ho ascoltato Ute Lemper (aaahhhhhh Ute, mia divina co-concerina) cantare Weill, e infine mi sono vista, fino alle due di notte wow, alcuni corti della Campion...bianco e nero...espressione potente dell'immagine.
il genio espressivo mi consola della miseria umana, la mia in primis.
un buon inizio ma il crescendo, si sa, e' un moto dell'anima e non solo di quella.
e la mia festa è stata un 'evoluzione verso il cielo, a partire dai baci alle carezze sono arrivata in cima, fino alle nuvole, fino al blu.
infatti, ieri sera Villa Olmo, lago di Como, trittico di Bejart.
infatti ieri sera, il Bolero di Ravel nella versione di Bejart.
atmosfera incantata, lago, estate, cielo, stelle, bellezza neoclassica...e anche caldo e pubblico molesto.
ma.
nulla ha potuto, nemmeno la mia vicina che fa atto di presenzialismo ma chiaramente non guarda quel che vede, si sventola insopportabilmente un ventaglio che rumoreggia ritmico alla mia destra e distoglie la mia attenzione con quel movimento continuo e inutile, nemmeno la fila delle vedove inconsolabili che ridono senza motivo se non quello del chiacchiericcio inopportuno, nulla ha potuto evitare l'ipnosi del Bolero di Ravel.
nessuno mi può dire che merdailballettomivienedavomitare senza aver prima visto questo capolavoro del genio e dell'intelligenza emotiva e motoria.
la potenza di questo pezzo di musica e danza è, ogni volta, devastante.
l'ho visto quattro volte e ogni volta mi dico che non sara' l'ultima.
ballava il Tokio Ballet, a buona ragione uno dei rappresentanti piu' significativi dell'eredita' artistica di Bejart, una scuola di perfezione stilistica e interpretativa.
ma nel Bolero non c'e' solo lo stile.
nel Bolero c'e' movimento corporeo che inneggia alla mascolinita', alla sessualita', all'eccitazione e all'estasi corporea, oltre che, come sempre nella danza, alla sfida alla legge di gravità.
il ballo è, spesso, un'espressione libidica che sottende al sesso, anzi è sesso quanto una scopata.
nel Bolero c'è una tavola rotonda, rossa, nel mezzo della scena, sopraelevata e vi danza un personaggio. ieri sera era una donna, anche se il balletto e' stato anche interpretato al maschile.
nel Bolero ci sono una ventina di sedie intorno occupate, dapprima silenziosamente, poi vorticosamente, direi inesorabilmente, da uomini. lei balla con calzamaglia nera e body color carne, loro con calzamaglia nera e petto nudo. niente piu' di questo.
niente ovvero tutto quel che serve.
a dispetto dei corpi iperesposti che non hanno nulla da dire, qui c'è minimalismo che esprime tutto con un linguaggio diretto che prende le viscere il cervello i genitali e conduce alla felicita'.
poi la musica, poi il ballo, poi l'orgasmo.
perchè questo è un balletto orgasmico, è un balletto dedicato alla virilità, alla forza genitale, fallica e vaginale, in quanto forza creativa, vitale, rigenerante.
la figura femminile sulla tavola comincia piano e finisce forte, si intravede al buio e finisce nella luce più accecante, inizia con stile e proseguendo si scompone, inizia perfetta e finisce sudata nel corpo e all'attaccatura dei capelli, lunghi, che scendono sulle spalle e lungo la schiena.
è chiara evidente l'eccitazione di lei che balla, il corpo si muove sempre più accelerato e comunicativo, sembra prendere tutto quello che le sta intorno, non solo i maschi intorno a lei, tutta la platea, tutta la mascolinità possibile. tutta per sè, tutta in sè. è vorace.
le figure maschili sono un ritratto perfetto della genesi evoluzione e conclusione di un atto di seduzione maschile. prima seduti, semplicemente seduti, poi insieme, tutti, un gesto, un semplice cambiamento di posizione. una posizione inconfondibile. la vedi e la riconosci. quello è un uomo. poi un'altra, una mano che dalla testa scende fino all'inguine, poi qualcuno si alza, sono solo due, alla fine saranno tutti, e si muove con andamento ritmico del bacino, intorno a lei, per lei. lentamente, inesorabilmente, seguendo l'invito di lei sulla tavola, tutti parteciperanno al banchetto della seduzione al ritmo incalzante diabolico della musica. una musica che non da scampo, credetemi.
la parte finale è un'orgia di sensi, i movimenti maschili di certo non sono misteriosi, ci danno dentro con forza e potenza, lei sopra è regina regista e al contempo schiava dell'eccitazione, di se stessa e della forza che la circonda. una forza alla quale è impossibile sottrarsi. cadere sfiniti, appagati, moribondi e non riprendersi mai più, questa sembra la fine, ma il rimando di quella musica e di quell'onda travolgente è ancora nell'aria.
il bolero di Bejart è un fantasma che naviga dentro.
“Il Bolero di Ravel è una musica sempre nuova, una musica di origine orientale, che si avvolge instancabilmente su se stessa, divorando lo spazio sonoro e inghiottendo alla fine la melodia". Maurice Béjart
http://www.youtube.com/watch?v=ApwenICr4g0
sabato 10 luglio 2010
un uomo
quel che fa di un uomo, un uomo.
ha 60 anni ha la faccia arrossata dal sole, lavora in un cantiere.
è semplice nei modi e nelle parole.
parla a testa china, non alza lo sguardo, sorride stentatamente. quasi si vergognasse della gioia.
ha un passato di solitudine e sofferenza, niente di eclatante, nessuna tragedia, nessun lutto prematuro o inaspettato, solo la vita che brucia, fa male e non prende il suo cammino. una vita che non respira, soffre di asma, non si ossigena.
l'ansia lo addenta, lo rallenta, lo fa sentire perduto, solo in mezzo alla gente.
ricorda, bambino, il silenzio. seduto a tavola con i genitori in silenzio. silenzio. forse che il silenzio somiglia alla morte?
ricorda un cimitero, ancora ragazzo, un funerale, uno zio calato nella tomba e per la prima volta la sensazione, quella sensazione, una sensazione che non morde, no, di più, che sbrana. la sensazione di cedere e di morire lì, in quell'istante.
confessa di non aver amato, mai nella sua vita.
confessa di non conoscere il sesso, mai nella sua vita.
una vita di paura. di cedimento, vuota, senza amore, senza contatto carnale.
ma, quest'uomo, è tutto tranne che vuoto.
sorrido se penso al commercio corporeo dei nostri tempi, sorrido se penso che quest'uomo nemmeno la vede, l'aria che tira intorno, nemmeno la sfiora, la densità carnale che ci circonda, nemmeno la conosce, la sessualità urlata che trasforma l'unico in banale.
quest'uomo vive fuori dal tempo. fuori dal suo tempo, fuori da questo tempo.
il tempo, interno ed esterno, lo detta il suo ricordo, la sua memoria, quel silenzio e il suo parlare.
guarda le cose come fosse per la prima volta, tutto. ogni cosa ha una sua verità, ogni gesto ha un valore, ogni parola ha una storia, ogni persona ha una densità.
quando sta per dire qualcosa, e quali cose, lo annuncia, timido, impacciato, timoroso di dire banalità. o oscenità. o assurdità.
ma, al contrario, a ogni frase, scelta, pensata, enunciata, c'è il senso delle cose.
raramente ho parlato con qualcuno che non avesse veli tra sè e il mondo. di solito faccio la ronda intorno al filo spinato della mente e magari, se sono fortunata, trovo una breccia per entrare senza procurare sanguinamenti.
raramente ho percepito densa l'autenticità del sentire.
non c'è, in quest'uomo, mediazione della coscienza, non c'è falsità dell'educazione, non c'è arroganza della presunzione, non c'è barriera dell'io prepotente, non c'è imposizione della cultura. ciò che vede tocca, ciò che sente emerge.
forse ora qualcosa cambia, la parola cura. si signori, la parola sa curare.
racconta felice di aver fatto un complimento a una signorina. una cassiera con una briciola in un occhio che la faceva lacrimare. le ha detto che ha dei bellissimi occhi. teme l'osceno come solo l'ingenuità sa dettare e mi convince che non c'è malizia.
mi dice: in quel momento ho solo scelto la vita. basta morire, morire sempre, per ogni cosa.
ed è così, la scelta del bello, della speranza, dello sguardo è la rivincita della vita sulla morte. perchè a volte va in cantiere, prima dice di no, ha paura, poi magari telefona e dice solo che è in ritardo, ha paura, poi invece va e in orario e non ha più paura. di cosa? di stare male, di cedere e di dover andare via. in ambulanza.
vita dolore, vita paura, vita galera, ma con un po' di speranza negli occhi belli di una donna.
sogna una vita nuova, parla di una comune, una vita in condivisione, con qualcuno, con altri, ma non una famiglia, non fa per lui. la donna è il santuario della santità, nel corpo di una donna, mi dice, c'è sacralità. forse sarebbe meglio pensare la donna come più vicina, toccabile, sfiorabile e non viverla come un santuario di simboli inviolabili. non perchè la sacralità non sia un valore ma perchè rischia di arrestare il desiderio, di lasciare soli, di non coltivare l'appartenenza.
cerca soluzioni attraverso le domande, pensa a come vivere la sua vita, si immagina e proietta in una condizione sociale in cui il contatto con l'altro, un altro generico asessuato, sia la salvezza da una vita ingabbiata nella paura.
quest'uomo, a 60 anni, parla di futuro.
quest'uomo, oggi, nel 2010, parla di sacralità.
chi, oggi, di voi, ha il coraggio di usare queste parole?
http://browse.deviantart.com/?qh=§ion=&q=old+man#/d11uv5m
giovedì 8 luglio 2010
Ascolta il passo breve delle cose
"stelle poche" ti ha turbato.
ma forse non hai letto bene, non fino in fondo.
Saramago parla di mistero, mistero che non trova le parole per esprimersi.
mistero che non ha bisogno di parole per esprimersi.
mistero che condivide il buio dello spazio profondo.
mistero che non trova le parole così come lo spazio profondo non ha stelle che lo illuminino.
il mistero dell'amore è nel profondo buio di noi e non ha stelle che possano raccontarlo.
"nessuno sguardo raggiungerà il mio pensiero più profondo". (Claude Monet)
queste ti sembreranno meno cupe.
Ascolta il passo breve delle cose
Ascolta il passo breve delle cose
- assai più breve delle tue finestre -
quel respiro che esce dal tuo sguardo
chiama un nome immediato: la tua donna.
E’ fatta di ombre e ciclamini,
ti chiede il tuo mistero
e tu non lo sai dare.
Con le mani
sfiori profili di una lunga serie di segni
che si chiamano rime.
Sotto, credi,
c’è presenza vera di foglie;
un incredibile cammino che diventa una meta di coraggio.
Alda Merini
ma forse non hai letto bene, non fino in fondo.
Saramago parla di mistero, mistero che non trova le parole per esprimersi.
mistero che non ha bisogno di parole per esprimersi.
mistero che condivide il buio dello spazio profondo.
mistero che non trova le parole così come lo spazio profondo non ha stelle che lo illuminino.
il mistero dell'amore è nel profondo buio di noi e non ha stelle che possano raccontarlo.
"nessuno sguardo raggiungerà il mio pensiero più profondo". (Claude Monet)
queste ti sembreranno meno cupe.
William Blair Bruce
Rosa purpurea
Ti avevo cantato una canzone.
Tu tacevi. La tua destra tendeva
con dita stanche una grande,
rossa, matura rosa purpurea.
E sopra di noi con estraneo fulgore
si alzò la mite notte d'estate,
aperta nel suo meraviglioso splendore,
la prima notte che noi godemmo.
Salì e piegò il braccio oscuro
intorno a noi ed era così calma e calda.
E dal tuo grembo silenziosa scrollasti
i petali di una rosa purpurea.
Hermann Hesse
Victor GilsoulRosa purpurea
Ti avevo cantato una canzone.
Tu tacevi. La tua destra tendeva
con dita stanche una grande,
rossa, matura rosa purpurea.
E sopra di noi con estraneo fulgore
si alzò la mite notte d'estate,
aperta nel suo meraviglioso splendore,
la prima notte che noi godemmo.
Salì e piegò il braccio oscuro
intorno a noi ed era così calma e calda.
E dal tuo grembo silenziosa scrollasti
i petali di una rosa purpurea.
Hermann Hesse
Ascolta il passo breve delle cose
Ascolta il passo breve delle cose
- assai più breve delle tue finestre -
quel respiro che esce dal tuo sguardo
chiama un nome immediato: la tua donna.
E’ fatta di ombre e ciclamini,
ti chiede il tuo mistero
e tu non lo sai dare.
Con le mani
sfiori profili di una lunga serie di segni
che si chiamano rime.
Sotto, credi,
c’è presenza vera di foglie;
un incredibile cammino che diventa una meta di coraggio.
Alda Merini
domenica 4 luglio 2010
Se chiami più forte reclami il corpo ritorna con forza si stacca, mi scioglie la scorza in bocca c’è il miele rimani.
http://fc09.deviantart.net/fs32/f/2008/194/e/9/e98af24332ce8a9de0529a3b5a9a2fde.png
Lo specchio
Lo specchio che hai fissato sul petto
è il segnale di un patto profondo
tu mi guardi mentre io ti guardo dentro
e se ti guardo dentro mi vedo.
Anonio Porta
Stelle poche
Chiamarti rosa, aurora, acqua fluente,
cos'è se non parole raccattate
tra i rifiuti d'altre lingue, d'altre bocche?
I misteri non sono quello che sembrano,
o non riescono a dirli le parole:
nello spazio profondo, stelle poche.
José Saramago
pensieri come fiumi.
scelgo la poesia.
linguaggio vertigine che tutto tocca senza inquinare niente.
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