In quel preciso istante dell’inverno ’67-68 probabilmente non sta pensando a
nulla, si gode il suo piccolo nucleo famigliare – presto disturbato dallo squillo
del telefono, da qualcuno alla porta – in una finestra temporale libera dalle varie
incombenze che hanno l’esatto scopo di farlo andare avanti, la lista della spesa,
controllare il bucato, cosa fai da mangiare stasera, quell’incessante prevedere il
futuro immediato che complica il versante esterno dei suoi obblighi, il suo
lavoro di insegnante. I momenti in famiglia sono quelli in cui sente, non quelli in
cui pensa.
Interpreta come pensieri veri e propri quelli che le vengono quando è da sola o
porta a spasso il bambino. E non intende le considerazioni su come parlano o si
vestono gli altri, su quanto sono alti i marciapiedi quando si sta spingendo un
passeggino, sulla censura ai Paraventi di Jean Genet o sulla guerra del Vietnam,
ma le questioni che riguardano se stessa, l’essere e l’avere, l’esistenza. È
l’approfondimento di sensazioni fugaci, impossibili da comunicare agli altri,
tutto ciò che, se avesse il tempo di scrivere – e non trova nemmeno quello per
leggere – sarebbe il materiale di un suo libro. Sul diario, che apre di rado quasi
costituisse una minaccia contro la famiglia, come se adesso non avesse più
diritto alla sua interiorità, ha scritto: «Non ho più nessuna idea. Non cerco più di
spiegare la mia vita» e «sono una piccoloborghese fatta e finita». Ha
l’impressione di aver deviato dai suoi scopi precedenti, di essersi immessa in una
progressione prettamente materiale. «Ho paura di sistemarmi in questa vita
calma e comoda, di ritrovarmi ad aver vissuto senza essermene resa conto.»
Nell’esatto momento in cui fa questa considerazione sa di non essere pronta a
rinunciare a tutto ciò che nel suo diario non compare mai, quella vita insieme,
quella intimità condivisa in uno stesso luogo, l’appartamento in cui non vede
l’ora di tornare subito dopo le lezioni, dormire in due, al mattino il ronzio del
rasoio elettrico, la sera raccontare I tre porcellini, quella ripetitività che crede di
detestare e a cui è affezionata, che le manca non appena si allontana per soltanto
tre giorni quando va a fare le prove d’esame per il Capes – tutto ciò di cui le
basta immaginare la perdita accidentale per sentirsi stringere il cuore in una
morsa.
Non si sogna più sulla spiaggia dell’estate a venire o come scrittrice che ha
appena pubblicato il suo primo libro. Il futuro si annuncia in termini materiali
molto precisi, ottenere un posto migliore, promozioni, acquisti, il bambino che
entra all’asilo, non si tratta più di sogni, ma di previsioni. Le capita spesso di
tornare con la mente a quando era sola, si rivede per le strade delle città in cui ha
vissuto, nelle camere che ha abitato – a Rouen in una casa con altre giovani, a
Finchley come ragazza alla pari, in vacanza a Roma in una pensione di via
Servio Tullio. Le pare che quegli io continuino a esistere. Il passato e il futuro si
sono insomma invertiti i ruoli. Ora è ciò che ha alle spalle a essere diventato
oggetto del desiderio, non ciò che ha davanti: ritrovarsi in quella stanza a Roma
nell’estate del ’63. Scrive sul diario: «Con estremo narcisismo, voglio vedere il
mio passato nero su bianco e grazie a questo diventare ciò che ora non sono» e
anche «è una sorta di immagine precisa della donna a tormentarmi. Devo forse
orientarmi in quella direzione». In un quadro di Dorothea Tanning, visto tre anni
prima in un museo di Parigi, era ritratta una donna dal seno nudo e, dietro di lei,
un’infilata di porte socchiuse. Il titolo era Compleanno. Le viene da pensare che
quel quadro rappresenti la sua vita, che ci si trovi dentro come un tempo lo era
stata in Via col vento, in Jane Eyre, più tardi ne La nausea. Ogni volta che legge
un libro, Gita al faro, Les Années-lumière, si pone la stessa domanda, si chiede
se lei potrebbe raccontare così la sua vita.
Talvolta le tornano in mente immagini dei suoi genitori nella cittadina
normanna, la madre che si toglie il grembiule per recarsi all’adorazione
eucaristica serale, il padre che risale dall’orto, la vanga in spalla, un mondo lento
che continua a esistere, più irreale di un film, lontanissimo da quello di cui fa
parte ora, moderno, colto, che avanza, verso cosa è difficile a dirsi.
Tra ciò che accade nel mondo e ciò che accade a lei non c’è alcun punto di
intersezione. Due serie parallele, una astratta di informazioni ricevute e subito
dimenticate, l’altra di piani fissi.
In ogni momento, assieme a ciò che viene considerato naturale fare e dire,
assieme a ciò che i libri, i manifesti pubblicitari in metropolitana e persino le
barzellette prescrivono di pensare, ci sono tutte quelle cose su cui la società tace
senza rendersene conto, destinando a un disagio solitario chi quelle stesse cose le
sente senza saperle nominare. Un silenzio che un giorno si rompe, d’un tratto o
poco a poco, e delle parole cominciano a sgorgare sulle cose, finalmente
riconosciute, mentre al di sopra si vanno formando altri silenzi.
Gli Anni
Annie Ernaux
non so se mia madre abbia vissuto così il suo tempo, forse non con questa consapevolezza e certamente non disdegnando, anzi, la sua condizione piccolo borghese.
di certo non guardo ai miei genitori come a un mondo rispetto al quale mi sono emancipata, da un punto di vista sociale e culturale.
anzi.
quel che penso, moloto spesso, è che, rispetto ai miei genitori, vivo molto peggio, ho perso moltissimi "privilegi", ho ridotto la mia capacità economica rispetto a loro, mi sono impoverita e certamente preoccupata finanziariamente. ho perso luoghi, ho perso sogni, ho perso possibilità di viaggiare.
si, sono certa che rispetto ai miei genitori io ho perso molto.
qual che ho alle spalle è più di ciò che ho davanti.
qual che ho alle spalle è più di ciò che ho davanti.
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