è un bel pezzo di Donatella di Cesare, su La lettura di domenica 16 luglio, che pubblico qui.
l'odio è esperienza comune, di tutti i giorni, per i motivi più futili.
mi sento insultare con violenza da una donna inferocita al volante perchè ritengo di poter parcheggiare avendo messo, regolarmente, retromarcia e freccia. mi suona violentemente e ripetutamente con il clacson, non modifico la mia scelta. mi accosta, abbassa il finestrino del suv, sostenuta da chioma bionda ossigenata e occhiale da diva del cinema, mi dice: TROIA.
le donne, care amabili donne, aggressive e volgari, dannatamente assimilate al peggio degli uomini, queste oggi sono le donne.
difendo sulla chat (da cui mi sono poi prontamente levata al primo levare dei toni) e sulla mailing list della classe una mia posizione contraria a quella di tutti gli altri (i genitori, non i figli) che vogliono protestare per un 7 in condotta (più che motivato) e vengo insultata, viene messo in discussione il mio senso morale (stagionale, pare, perchè mi sembra una sciochezza invocare riapertura di scrutini e consigli straordinari di classe a giugno, o peggio luglio, e carente, pare, perchè ritengo che i ragazzi vadano responsabilizzati e non protetti dalle frustrazioni) e la mia conoscenza, insufficiente sulle più moderne concezioni della riabilitazione (vengo invitata a informarmi sulle comunità di recupero: sarebbe divertente e paradossale se non fosse serio e grave).
la mail della vice preside ripete, a breve, esattamente le mie parole, chiude il discorso, buone vacanze a tutti, nessuna apertura straordinaria dei cancelli.
qualcuno chiede scusa?
chi mi insulta?
le donne, care amabili donne, madri devote ed eterne, care donne, come vi sbagliate, su tutto.
hate speech, diffusissimo e scuotente, anche tra le persone che si ritengono per bene, guai, chissà cosa dicono degli Altri.
odio, continuo, diffuso, permanente.
l'eroe dei nostri giorni, chi difende la banalità del bene.
Odio
Rancore senza remore cavalcato dalla politica
di Donatella Di Cesare
Come possono essere così certi? Nessun segno di perplessità, di titubanza o esitazione. Altrimenti non potrebbero umiliare, schernire, offendere. Chi odia non ha dubbi. Perché se ne avesse, anche solo sul proprio odio, dovrebbe fermarsi un istante. Allora prenderebbe quella distanza, da cui tutto appare più sfumato, acquisterebbe quel distacco che consente di vedere, come in una mappa ingrandita, i contorni individuali, le caratteristiche peculiari, le molteplici differenze.
L’odio avversa i colori, aggira le nuance ; attecchisce nell’universo ridotto alla monotonia del bianco e del nero.
Insieme ad altri sentimenti l’odio ha accompagnato l’umanità e la sua storia. Ira sedimentata, avversione intensa nutrita da un’invidia convulsa e rafforzata da una cupa spietatezza, contraltare nevrotico e parossistico dell’amore, sopravvento della volontà di potenza, impulso distruttivo, desiderio impellente di nuocere, che tradisce sfiducia in se stessi e diffidenza verso gli altri, l’odio ha lasciato più di un interrogativo aperto. In genere, però, ha prevalso l’idea che questo sentimento fosse una patologia del carattere, una perversione quasi naturale, una distorsione del singolo.
Dunque l’odio è sempre esistito, esisterà sempre. «Nulla di nuovo», si potrebbe dire. Ma le cose stanno diversamente. Perché è venuto meno quel ritegno che prima arginava l’insofferenza nascosta e subliminale, che tratteneva il rifiuto. Come se, dopo l’età del libero amore, si fosse entrati nell’età del libero odio. Ogni remora è caduta. Si può odiare apertamente. E lo si può fare ovunque, in privato e in pubblico: nelle pareti domestiche, nella riunione condominiale, nel parcheggio, sull’autobus, alla fermata del semaforo, nel supermercato, al lavoro, tra colleghi, tra semplici conoscenti o tra sconosciuti, in internet, su Facebook, durante le conferenze, nei dibattiti, sui giornali, nei talk show, nelle sedute parlamentari. L’odio viene indirizzato in alto, contro i politici, quelli che sono tutti corrotti; in basso, contro i cenciosi stranieri, quelli che rubano casa e lavoro. Il più delle volte viene riversato su quegli altri che, nella loro alterità, sembravano aver trovato una qualche accettazione — tutti quelli che appaiono differenti per aspetto, per credo, per forma di vita.
«Quando è troppo è troppo!». «La tolleranza ha un limite!». «Che cosa pretenderebbero ancora le donne, dopo tutto quello che hanno già avuto? Parità di stipendi? Uguale riconoscimento?». Così, se vengono licenziate, è perché non hanno tenuto il ritmo, erano assenti. Se subiscono discriminazioni, in ufficio o in fabbrica, forse in gran parte esagerano. Volevano divorzio, libertà, pari diritti — ed ecco qui le violenze. «Fossero rimaste al loro posto, non ci sarebbero i femminicidi».
Il resoconto della «tolleranza zero» potrebbe proseguire. Quanto agli ebrei, «con questa storia interminabile della Shoah, hanno proprio stufato. Sai quanti altri genocidi ci sono!? E chissà poi che ci sarà di vero. No, noi non siamo negazionisti». Attenti poi all’«islamizzazione» — parola inquietante, sempre più rilanciata nel web, calco di «ebraizzazione», termine chiave del lessico nazista. «No, noi non siamo islamofobi. Ma quei musulmani che vivono qui, tra noi, anche se da anni, da decenni, farebbero meglio ad andarsene. Nessuna cittadinanza per i loro figli, anche se conoscono la lingua italiana, la storia e la cultura. Non vogliamo essere sottomessi. Il terrorismo non è forse islamico? Sì, certo, le equazioni sono pericolose, ma in questo caso è proprio così». Inutile discutere.
Mentre si sono sviluppati e affinati in modo esponenziale i mezzi tecnici di comunicazione, sempre più ridotta è paradossalmente la capacità di dialogo e di confronto. Le parti si sono rovesciate: si trova a disagio chi è abituato al rispetto, condizione di ogni rapporto, va fiero, invece, chi quel rispetto lo nega, chi scaglia insulti grossolani, insinua sospetti, rilancia pregiudizi. Senza freni né scrupoli — magari con un risolino sarcastico, con un ghigno di soddisfazione. Le lettere minatorie, un tempo anonime, hanno oggi per lo più nome e cognome. Fantasie di violenza, intenzioni aggressive, commenti improntati al disprezzo, si affastellano nella rete spesso senza neppure la copertura di uno pseudonimo. «Se sei contro i campi rom, perché dopo quelli di sterminio nessuno dovrebbe più essere né bandito né internato, sei un’imprudente mistificatrice». «Se sei per i profughi, portati i negri a casa tua». Come se ogni confronto potesse ridursi agli slogan del pro e del contro. Chi avrebbe immaginato, anche solo qualche anno fa, che sarebbe stato di nuovo possibile parlare così? Non è infatti una conquista di civiltà esternare ogni meschinità, vomitare ogni grettezza interiore, che occorrerebbe semmai tenere per sé, di cui ci si dovrebbe vergognare. Ma il problema va anche al di là dello hate speech, del discorso che fomenta odio. L’esibizione sistematica del risentimento è diventata arma politica. Viene utilizzata e sfoggiata in modo programmatico. Siamo entrati nell’età della mobilitazione politico-ideologica dell’odio. Quasi senza accorgercene, senza aver potuto captarne tutti gli infausti segnali, senza essere neppure lontanamente riusciti a intravederne gli effetti. Forse perché il fenomeno è più complesso di quel che appare.
Ha avuto inizio con l’ascesa improvvisa dei movimenti populisti che hanno guadagnato voti ovunque facendo leva sull’animosità e sul livore. Ci sono però motivi per sperare che andranno sgretolandosi per superbia e presunzione, per mancanza di preparazione e di professionalità politica, per quei programmi antimodernistici con cui lasciano fantasticare gli ingenui che sia possibile negare la globalizzazione nella sua complessità. Chi è stato allettato dal potenziale della loro dissidenza dovrà ricredersi vedendoli agire.
Più inquietante è la mobilitazione dell’odio innalzato a emozione politica. Il populismo si rivela solo una delle facce. Quella estrema, agghiacciante, è il terrore. Non si deve sottovalutare: l’odio che imperversa nel web, che attraversa e scuote il mondo reale, che turba l’esistenza di molti, non è un vago sentimento che si scarica di tanto in tanto. Ha ben poco di naturale e di spontaneo. E non viene dal nulla — non è semplicemente qui, d’un tratto, così come non lo è la violenza. Piuttosto è un odio che ha una forte impronta ideologica, che è coltivato, nutrito, alimentato, che ha bisogno di maestri, segue modelli ed esempi, richiede schemi e tracce. Come ci sono gli imprenditori della paura nella nuova fobocrazia che va instaurandosi, così ci sono gli ispiratori dell’odio. Tutto è già rozzamente preformato: il gesto discriminatorio, i concetti della mortificazione, le immagini dell’oltraggio, le parole dello scherno. Nell’odio collettivo viene incanalato quello del singolo.
Il libero odio ha ben poco a che fare con la libertà. Essere liberi di odiare è una triste condanna. Ed è indizio di frustrazione esistenziale, fanatismo identitario, impotenza politica. Prevale la polarizzazione. Da una parte «noi», dall’altra loro, cioè i «non-noi», oscuri e mostruosi, ripugnanti e detestabili, colpevoli del nostro malessere — non importa come, non importa perché. Ma colpevoli. L’odio non ha bisogno di motivi concreti; basta la proiezione.
Se non si ha più il posto di lavoro, non è per la ditta che ha chiuso dall’oggi al domani, ma per il siriano appena arrivato. «Ognuno dovrebbe stare a casa propria. No, non siamo razzisti». Se lei lo ha lasciato, solo perché «qualche volta volava uno schiaffo», lui può intimidirla, minacciarla — e non finirà lì. Se per strada passa una coppia gay, dà fastidio già la presenza e si può lanciare senza timore un insulto. Se una compagna di scuola non risponde ai canoni televisivi della bellezza, ha i capelli neri, qualche chilo di troppo, nessun successo con i maschi, può essere beffeggiata, irrisa, colpita con schiaffi e pugni — c’è perfino qualcuno che filma con il cellulare e posta sul web. Gli esempi sarebbero innumerevoli. Le vittime sono ovviamente sempre i più deboli.
Proprio perché il privato sconfina ormai nel pubblico, anche i singoli attacchi interpersonali vanno visti e giudicati, nella loro rilevanza politica, all’interno della mobilitazione dell’odio. La rete ha un ruolo decisivo: non è neutrale, perché potenzia il fenomeno. Il che non significa demonizzare internet. Ma la sfera pubblica, prima gestita dai media tradizionali, è divenuta ora la scena planetaria dell’odio esibito. Il singolo episodio, un tempo circoscritto nello spazio e nel tempo, viene trasmesso rapidamente su larga scala e resta lì, nel mondo virtuale, persistente e ripetibile. La vittima è esposta al ludibrio di tutti, senza difese, mentre il più forte guadagna spavaldamente consensi con i like che si moltiplicano. Cyberbullismo e cyberstalking sono le nuove espressioni dell’odio online che provocano un’inedita, profonda sofferenza.
La maldicenza asseconda l’odio. Non mancano i casi di chi — giornalisti, avversari politici, magistrati — è diffamato più per invidia e gelosia che per le idee espresse. Tutto viene anzi storpiato, i contenuti deformati e rigirati. Perché quel che conta è schernire, rovinare la reputazione, colpire la dignità. Ci sono siti appositi che si dedicano solo a questo. Ecco perché con la rete il ruolo dell’intellettuale diventa sempre più difficile. Può finire ostaggio del rancore e dell’astio di pochi, che lo accusano di quello che non ha mai detto, fomentando malanimo, inimicizia, senza che ci sia un’istanza a cui rivolgersi, che possa riparare il danno.
Chi viene mortificato, umiliato, cade nella malinconia, finisce nel baratro dell’isolamento, cede spesso alla tentazione di tacere. E tutti gli altri? Gli spettatori? La complicità è molto diffusa. Lo spettacolo del pubblico ludibrio non è d’altronde nuovo; ha una lunga tradizione. Ma adesso l’arena è quasi sempre virtuale. Che fare di fronte all’odio fomentato in un’intera pagina di Facebook? Sembra che l’unica alternativa all’impulso perverso di partecipare sia il cauto volgere le spalle, l’indifferente passare oltre. Invece bisogna non lasciare sola la vittima e tentare di far implodere le strutture rigide dell’ostilità.
Perché l’odio investe tutti. Dovrebbero saperlo sia quell’informazione che dell’odio fa una merce ai fini dell’audience, sia coloro che, pur avendo responsabilità pubbliche e istituzionali, perseguono strategie più o meno ambivalenti, spargendo astio e rancore attraverso i canali politici. L’odio è un boomerang. E nel frattempo, attraverso la mobilitazione politico-ideologica dell’odio, si va imponendo un pensiero sempre più chiuso a ogni obiezione, sempre più immune al dubbio.
4 commenti:
bell'articolo davvero! viviamo tempi pieni di possibilità..eppure così bui ed ottusi..
un saluto Rouge
buongiorno
Un bel pezzo su cui tutti i fruitore di fb dovrebbero meditare
Donatella di Cesare scrive sempre temi interessanti, lei è interessante. La Lettura del Corriere è il più bell'inserto mai scritto.
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