come mai non si sono tutti e dico tutti buttati sul filo spinato elettrificato?
o sotto le rotaie dei treni che passavano presso il campo di lavoro?
o gettati a capofitto verso una zona di fuga in modo da essere ammazzati da una raffica di mitra?
come mai non si menzionano suicidi?
c'è da impazzire di domande dietro le parole di questo libro, dietro l'analisi tra sommersi e salvati, nell'osservare l'attaccamento alla vita, al tentativo, anche se disperato, di ripercorrere rituali vitali, commerci clandestini -seppure di bottoni, cucchiai e mezze razioni di pane- vicinanze e alleanze.
in questo brano del libro di Primo Levi, c'è una verità spietata sulla natura dell'uomo, la capacità innata di combattere e di mantenersi in vita opposta a un abbandono senza speranza, una differenza che anche il carnefice osserva e ripaga, con un rispetto che sarà salvifico nel primo caso e con una condanna poi ineludibile nel secondo. l'insegnamento più penetrante del libro rimane comunque, a prescindere dalla propria natura e dal caso che colpisce al di là delle tenacia, è l'importanza di rimanere uomini, saldi e fermi, e di non imputridire, nonostante l'aspetto abietto e bestiale, nella melma schifosa e senza scampo per l'anima della brutalità e del sopruso verso l'altro. si può, mi domando, si può preservare qualcosa di umano in un luogo, senza tempo e senza spazio, di un lager?
I SOMMERSI E I SALVATI (da Se questo è un uomo, di Primo Levi)
o sotto le rotaie dei treni che passavano presso il campo di lavoro?
o gettati a capofitto verso una zona di fuga in modo da essere ammazzati da una raffica di mitra?
come mai non si menzionano suicidi?
c'è da impazzire di domande dietro le parole di questo libro, dietro l'analisi tra sommersi e salvati, nell'osservare l'attaccamento alla vita, al tentativo, anche se disperato, di ripercorrere rituali vitali, commerci clandestini -seppure di bottoni, cucchiai e mezze razioni di pane- vicinanze e alleanze.
in questo brano del libro di Primo Levi, c'è una verità spietata sulla natura dell'uomo, la capacità innata di combattere e di mantenersi in vita opposta a un abbandono senza speranza, una differenza che anche il carnefice osserva e ripaga, con un rispetto che sarà salvifico nel primo caso e con una condanna poi ineludibile nel secondo. l'insegnamento più penetrante del libro rimane comunque, a prescindere dalla propria natura e dal caso che colpisce al di là delle tenacia, è l'importanza di rimanere uomini, saldi e fermi, e di non imputridire, nonostante l'aspetto abietto e bestiale, nella melma schifosa e senza scampo per l'anima della brutalità e del sopruso verso l'altro. si può, mi domando, si può preservare qualcosa di umano in un luogo, senza tempo e senza spazio, di un lager?
I SOMMERSI E I SALVATI (da Se questo è un uomo, di Primo Levi)
Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua
del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo,
hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno
per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà
forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene,
che di questa eccezionale condizione umana rimanga
una qualche memoria.
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente.
Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana
esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e
che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi,
si possano trarre da questo particolare mondo di cui
narriamo. Vorremmo far considerare come il Lager sia
stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi
per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi,
e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante,
controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti
i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore
avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale
e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-
uomo di fronte alla lotta per la vita.
Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione:
che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto
come si comporta quando ogni sovrastruttura civile
sia tolta, e che lo «Häftling» non sia dunque che l’uomo
senza inibizioni. Noi pensiamo piuttosto che, quanto a
questo, null’altro si può concludere, se non che di fronte
al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini
e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio.
Ci pare invece degno di attenzione questo fatto: viene
in luce che esistono fra gli uomini due categorie particolarmente
ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie
di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili
e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno
nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono
gradazioni intermedie più numerose e complesse.
Questa divisione è molto meno evidente nella vita comune;
in questa non accade spesso che un uomo si perda,
perché normalmente l’uomo non è solo, e, nel suo
salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi
vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca senza
limiti in potenza, o discenda con continuità di sconfitta
in sconfitta fino alla rovina. Inoltre ognuno possiede di
solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie,
che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti
alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga
ancora che una sensibile azione di smorzamento
è esercitata dalla legge, e dal senso morale, che è legge
interna; viene infatti considerato tanto più civile un paese,
quanto più savie ed efficienti vi sono quelle leggi che
impediscono al misero di essere troppo misero, e al potente
di essere troppo potente.
Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere
è senza remissione, perché ognuno è disperatamente
ferocemente solo. Se un qualunque Null
Achtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano;
bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno
ha interesse a che un «mussulmano»* di più si trascini
ogni giorno al lavoro; e se qualcuno, con un miracolo di
selvaggia pazienza e astuzia, troverà una nuova combinazione
per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova arte
che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenerne
segreto il modo, e di questo sarà stimato e rispettato,
e ne trarrà un suo esclusivo personale giovamento; diventerà
più forte, e perciò sarà temuto, e chi è temuto è,
ipso facto, un candidato a sopravvivere.
*[in un altro libro di Primo Levi è descritta una
categoria umana molto simile ai Muselmänner: «Nella nostra camerata,
come pure in tutte le altre del reclusorio, c’erano sempre dei
poveri, dei cenciosi, che avevano perduto e bevuto tutto, o poveri
semplicemente così, per natura. Io dico “per natura” e insisto in
modo particolare su questa espressione. Effettivamente, dappertutto
nel popolo nostro, in qualsiasi congiuntura, in qualsiasi condizione,
sempre ci sono e ci saranno certe strane persone, pacifiche
e non di rado tutt’altro che indolenti, predestinate dalla sorte a rimanere
eternamente povere. Costoro sono sempre dei tapini, sono
sempre malmessi, hanno sempre un certo aspetto di gente abbattuta
e oppressa da non so che cosa e si trovano in perpetuo alla
mercé di qualcuno». ]
Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una
legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non
ha, a quello sarà tolto». Nel Lager, dove l’uomo è solo e
la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale,
la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta
da tutti. Con gli adatti, con gli individui forti e
astuti, i capi stessi mantengono volentieri contatti, talora
quasi camerateschi, perché sperano di poterne trarre
forse più tardi qualche utilità. Ma ai mussulmani, agli
uomini in dissolvimento, non vale la pena di rivolgere la
parola, poiché già si sa che si lamenterebbero, e racconterebbero
quello che mangiavano a casa loro. Tanto meno
vale la pena di farsene degli amici, perché non hanno
in campo conoscenze illustri, non mangiano niente extra razione,
non lavorano in Kommandos vantaggiosi e
non conoscono nessun modo segreto di organizzare. E
infine, si sa che sono qui di passaggio, e fra qualche settimana
non ne rimarrà che un pugno di cenere in qualche
campo non lontano, e su un registro un numero di
matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza
requie dalla folla innumerevole dei loro consimili, essi
soffrono e si trascinano in una opaca intima solitudine, e
in solitudine muoiono o scompaiono, senza lasciar traccia
nella memoria di nessuno.
Il risultato di questo spietato processo di selezione naturale
si sarebbe potuto leggere nelle statistiche del movimento
dei Lager.
Ad Auschwitz, nell’anno 1944, dei
vecchi prigionieri ebrei (degli altri non diremo qui, ché
altre erano le loro condizioni), «kleine Nummer», piccoli
numeri inferiori al centocinquantamila, poche centinaia
sopravvivevano; nessuno di questi era un comune
Häftling, vegetante nei comuni Kommandos e pago della
normale razione. Restavano solo i medici, i sarti, i ciabattini,
i musicisti, i cuochi, i giovani attraenti omosessuali,
gli amici o compaesani di qualche autorità del
campo; inoltre individui particolarmente spietati, vigorosi
e inumani, insediatisi (in seguito a investitura da
parte del comando delle SS, che in tale scelta dimostravano
di possedere una satanica conoscenza umana) nelle
cariche di Kapo, di Blockältester, o altre; e infine coloro
che, pur senza rivestire particolari funzioni, per la loro
astuzia ed energia fossero sempre riusciti a organizzare
con successo, ottenendo così, oltre al vantaggio materiale
e alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte
dei potenti del campo. Chi non sa diventare un Organisator,
Kombinator, Prominent (truce eloquenza dei termini!)
finisce in breve mussulmano.
Una terza via esiste
nella vita, dove è anzi la norma; non esiste in campo di
concentramento.
Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti
gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione,
attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza
ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in
questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani
che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire,
non hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo,
naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. Entrati
in campo, per loro essenziale incapacità, o per
sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati
sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti
sul tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere
qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti,
che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li
potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per
deperimento. La loro vita è breve ma il loro numero è
sterminato; sono oro, i Muselmänner, i sommersi, il
nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente
rinnovata e sempre identica, del non-uomini che marciano
e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina,
già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a
chiamarli vivi; si esita a chiamar morte la loro morte, davanti
a cui essi non temono perché sono troppo stanchi
per comprenderla.
Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza
volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto
il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine,
che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e
dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si
possa leggere traccia di pensiero.
Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia è
la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece
molte, aspre ed impensate.
La via maestra, come abbiamo accennato, è la Prominenz.
«Prominenten» si chiamano i funzionari del campo,
a partire dal direttore-Häftling (Lagerältester) ai Kapos,
ai cuochi, agli infermieri, alle guardie notturne, fino
agli scopini delle baracche e agli Scheissminister e Bademeister
(sovraintendenti alle latrine e alle docce). Più
specialmente interessano qui i prominenti ebrei, poiché,
mentre gli altri venivano investiti degli incarichi automaticamente,
al loro ingresso in campo, in virtù della loro
supremazia naturale, gli ebrei dovevano intrigare e lottare
duramente per ottenerli.
I prominenti ebrei costituiscono un triste e notevole
fenomeno umano. In loro convergono le sofferenze presenti,
passate e ataviche, e la tradizione e l’educazione di
ostilità verso lo straniero, per farne mostri di asocialità e
di insensibilità.
Essi sono il tipico prodotto della struttura del Lager
tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù
una posizione privilegiata, un certo agio e una buona
probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il
tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni,
e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto
alla legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto
più odioso e odiato, quanto maggior potere gli sarà
stato concesso. Quando gli venga affidato il comando di
un manipolo di sventurati, con diritto di vita o di morte
su di essi, sarà crudele e tirannico, perché capirà che se
non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo,
subentrerebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua
capacità di odio, rimasta inappagata nella direzione degli
oppressori, si riverserà, irragionevolmente, sugli oppressi:
ed egli si troverà soddisfatto quando avrà scaricato
sui suoi sottoposti l’offesa ricevuta dall’alto.
Ci rendiamo conto che tutto questo è lontano dal quadro
che ci si usa fare, degli oppressi che si uniscono, se
non nel resistere, almeno nel sopportare. Non escludiamo che ciò possa avvenire quando l’oppressione non
superi un certo limite, o forse quando l’oppressore, per
inesperienza o per magnanimità, lo tolleri o lo favorisca.
Ma constatiamo che ai nostri giorni, in tutti i paesi in cui
un popolo straniero ha posto piede da invasore, si è stabilita
una analoga situazione di rivalità e di odio fra gli
assoggettati; e ciò, come molti altri fatti umani, si è potuto
cogliere in Lager con particolare cruda evidenza.
Sui prominenti non ebrei c’è meno da dire, benché
fossero di gran lunga i più numerosi (nessuno Häftling
«ariano» era privo di una carica, sia pure modesta). Che
siano stati stolidi e bestiali è naturale, a chi pensi che per
lo più erano criminali comuni, scelti dalle carceri tedesche
in vista appunto del loro impiego come sovrintendenti
nei campi per ebrei; e riteniamo che fosse questa
una scelta ben accurata, perché ci rifiutiamo di credere
che gli squallidi esemplari umani che noi vedemmo all’opera
rappresentino un campione medio, non che dei
tedeschi in genere, anche soltanto dei detenuti tedeschi
in specie.
È più difficile spiegarsi come in Auschwitz i
prominenti politici tedeschi, polacchi e russi, rivaleggiassero
in brutalità con i rei comuni. Ma è noto che in
Germania la qualifica di reato politico si applicava anche
ad atti quali il traffico clandestino, i rapporti illeciti
con ebree, i furti a danno di funzionari del Partito. I politici
«veri» vivevano e morivano in altri campi, dal nome
ormai tristemente famoso, in condizioni notoriamente
durissime, ma sotto molti aspetti diverse da quelle qui
descritte.
Ma oltre ai funzionari propriamente detti, vi è una vasta
categoria di prigionieri che, non favoriti inizialmente
dal destino, lottano con le sole loro forze per sopravvivere.
Bisogna risalire la corrente; dare battaglia ogni
giorno e ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, e alla
inerzia che ne deriva; resistere ai nemici e non aver pietà
per i rivali; aguzzare l’ingegno, indurare la pazienza,
tendere la volontà. O anche, strozzare ogni dignità e
spegnere ogni lume di coscienza, scendere in campo da
bruti contro gli altri bruti, lasciarsi guidare dalle insospettate
forze sotterranee che sorreggono le stirpi e gli
individui nei tempi crudeli. Moltissime sono state le vie
da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti
sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante
di ciascuno contro tutti, e molte una somma non
piccola di aberrazioni e di compromessi. Il sopravvivere
senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale,
a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è
stato concesso che a pochissimi individui superiori, della
stoffa dei martiri e dei santi.
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