il titolo della mostra dice tutto.
l'eternità è quel lungo tempo che ci aspetta dopo la morte.
Mike Kelly si è suicidato a fine 2012, esattamente il 31 di gennaio, e questa mostra a me ha detto: per tutto questo, tutto quello che vi sto facendo vedere di me, per tutta questa angoscia che permea la mia vita attuale e la mia memoria, per tutto questo io non voglio più vivere.
le simpatiche, e certamente preparate, ragazze che mi hanno accompagnato lungo questa difficile e complessa mostra all'Hangar Bicocca di Milano, e senza le quali non avrei potuto cogliere la profondità del messaggio sotteso ad ogni installazione, si sforzavano molto di insistere sull'ironia del lavoro di Mike Kelly, un trasgressore, un bad boy dell'arte contemporanea mondiale, un narratore contro o oltre le istituzioni e le regole del vivere civile, ma io, proprio proprio del tutto francamente, l'ironia non l'ho vista. né percepita.
io ho letto e vissuto angoscia, l'angoscia di una memoria senza pace che cerca un'espiazione nella rappresentazione artistica.
io ho pensato che Mike Kelley deragliava, immerso nelle sue ossessioni reiterate su casa e scuola, nelle ricostruzioni ossessionanti di spazi scolastici adolescenziali e case dell'infanzia, nei travestimenti, nei mascheramenti, nelle rappresentazioni in mutande nei sottoscala, nella raffigurazione di riti satanici con carne bruciata, io ho pensato: questa mostra è la rappresentazione di un trauma. un trauma mortale.
Attivo dagli anni Settanta, Mike Kelley si impone in modo evidente nello scenario delle ricerche artistiche degli anni Ottanta. Nella sua multiforme pratica di lavoro, si muove su più media, sconfinando in campi di espressione differenti, sia nell’arte che nella musica, mai accettando la distinzione tra arte colta e vernacolare. Interessato a riattivare forme e figure legate a un immaginario adolescenziale e a indagare come la cultura popolare produce miti e ritualità, esplora soprattutto i temi della memoria, dell’identità e il rapporto con l’autorità. Utilizza oggetti e manufatti apparentemente banali sovvertendone il significato ed enfatizzandone la forza comunicativa. La sua capacità di attraversare universi di riferimento e codici differenti senza griglie concettuali fanno di lui uno degli artisti più interessanti della contemporaneità.
Muore il 31 gennaio 2012 a Los Angeles. Le sue opere si trovano nelle collezioni pubbliche e private più prestigiose del mondo, tra cui il MoMA, il Whitney e il Guggenheim di New York, la Collezione Pinault di Parigi e Venezia, il Reina Sofía di Madrid, il Museum of Contemporary Art di Detroit, il MoCA di Chicago, il Centre Georges Pompidou di Parigi.
la mostra si articola su queste installazioni, visive, grafiche, visuali, arricchite di video e scene teatrali.
esordisce con la messa in scena di una squallida scena domestica, un letto sfatto, un forno, delle suppellettili, scenografia di una rappresentazione teatrale con una coppia gay in crisi relazionale, al punto che uno dei due protagonisti arriverà, guarda caso, al suicidio. la scena è vuota, la rappresentazione teatrale viene mostrata altrove, filmata in un video mostrato in una tv, come a mostrare uno scollamento della realtà, l'involucro da una parte il contenuto, angosciante dall'altro.
a questo punto si passa ad un video sui riti satanici, con un’alternanza di immagini in un crescendo di maschere sataniche, vortici che risucchiano la materia, visioni di urina trasformata in elemento divinatorio e molti altri riferimenti alle fantasie di onnipotenza adolescenziali, per poi concludersi con l’inquadratura iniziale del ponte su cui avanza una figura nuda (l’artista stesso), il tutto condito da una colonna sonora, che inizia con il silenzio della quiete boschiva, si trasforma in un susseguirsi di suoni inquietanti e distorti che evolvono in una scura composizione noise.
altre installazioni ripresentano video di mascheramenti, travestimenti, riprese dell'artista stesso truccato da femmina e in mutande in uno scantinato sotterraneo, grottesco bizzarro e umiliante, visioni boschive con figure grottesche travestite per la festa di Halloween, riprese da immagini reali del tempo liceale dell'autore,(tratte dagli Yearbooks scolastici) che aveva suddiviso in tematiche quali “riti religiosi”, “numeri di danza”, “immagini sataniche”, “personaggi rozzi e strani”, “delinquenti”, “Halloween e stili gotici”. si incontrano altri video, uno surreale e frammentato, in cui un personaggio si aggira protetto da una rettangolare maschera di carta che nasconde l'uomo più brutto del mondo, sovraccaricando ancora l'immagine di effetti fisici e personologici umilianti e segreganti, rimandi ancora a codici gestuali ed espressivi di cortometraggi televisivi ripescati ancora dalla memoria della sua infanzia.
si arriva a una scala a chiocciola, prelevata dalla casa di Kelley stesso, che ruota senza sosta su se stessa pendente dal soffitto e che funge da fulcro del lavoro e da supporto mobile per una proiezione rotante costituita da tre sequenze: la prima consiste in una serie di diapositive che ritraggono i precedenti inquilini della casa, una famiglia ispanoamericana, ritratta in differenti situazioni familiari; la seconda sequenza, ritrae gli stessi dettagli della casa al momento in cui egli vi risiede da solo e quindi privi di persone e con l’arredo completamente cambiato; nella terza sequenza vengono sovrapposte le immagini originali a quelle realizzate da Kelley, che in alcune si traveste nei panni della figlia minore. l’insieme, definito da Kelley stesso come “una macchina del tempo disfunzionale”, utilizza la compresenza di momenti spaziali e temporali differenti per sottolineare come, negli spazi che abitiamo, le tracce del passato non siano mai completamente scomparse. “I luoghi in cui viviamo ogni giorno divengono estranei nel momento in cui rappresentano ciò che è invisibile: il tempo passato, e le persone che non ci sono più”.
si giunge alla maestosa statua di John Glenn, l’astronauta protagonista nel 1962 della prima missione spaziale statunitense, costruita utilizzando oggetti d’arredo come vasi, lampadari e bottiglie con decorazioni create incollando piccoli frammenti come pezzi di bigiotteria, vetri e così via. si tratta di detriti e frammenti di vetro, metallo e ceramica risalenti probabilmente a una discarica degli anni ‘20 e ‘30, raccolti e utilizzati per il rivestimento della scultura. anche qui la scelta di John Glenn è autobiografica: a questo eroe nazionale, originario di Detroit, era dedicato il liceo frequentato da Kelley, e la statua è una replica di dimensione quasi doppia rispetto all’originale che si trova ancor oggi nella biblioteca della scuola.
l'ossessione scolastica, il pensiero reiterato e congelato su un frammento di vita evidentemente indigerito, raggiunge la sua apoteosi nella presentazione di un modello architettonico di tutti gli edifici scolastici frequentati da Mike Kelley nel corso della sua esistenza realizzato in base alla sua memoria e con alcune parti mancanti laddove non ne ricordava la struttura. i pannelli di legno che costituiscono l’installazione sono assemblati in modo da ricreare la sensazione dei cubicoli da ufficio presenti negli spazi di lavoro tipo open space: sulle pareti dei cubicoli sono appesi disegni, schemi, schizzi e appunti insieme a immagini ambigue che sembrano tratte da fumetti d’epoca. frasi di riferimento sessuale e forse abusante ricorrono qua e là appesi alle bacheche.
un universo di disperazione.
l'unica opera che posso definire artistica, con un suo spessore di ricerca al di là di un ossessione congelata a un momento traumatico della vita di quest'uomo, ma pur sempre improntata alla drammaticità, alla contrapposizione tra maschile e femminile probabilmente sessualmente irrisolta, è l'ultima, commissionata dal Louvre, Profondeurs Vertes.
E' un’opera inusuale: per la prima volta infatti l’oggetto del lavoro non è costituito da riferimenti alla cultura popolare bensì da due opere appartenenti alla storia dell’arte del Settecento e dell’Ottocento. Composta da tre proiezioni video, un dipinto a olio e una serie di sette disegni, oltre a diverse fonti sonore, Profondeurs Vertes è un complesso gioco di rimandi e citazioni intorno a due quadri della collezione ancora oggi esposte nel museo di Detroit: Watson and The Shark (1777) di John Singleton Copley e The Recitation (1891) di Thomas Wilmer Dewing.
I due quadri rappresentano rispettivamente il dramma di un naufragio, con un uomo in mare che sta per essere attaccato da uno squalo, e il ritratto campestre di due donne raffigurate nello stile della pittura borghese del tempo. In entrambi i dipinti il colore dominante è il verde da cui il titolo dell’opera. La colonna sonora di Watson and The Shark, dal tono epico e drammatico, è ispirata alle colonne sonore dei film d’avventura di Bernard Herrmann, mentre da un’altra fonte sonora è possibile ascoltare la declamazione di un frammento del secondo canto di Maldoror (lavoro poetico proto-surrealista, scritto da Isidore Ducasse sotto lo pseudonimo di Conte di Lautréamont) in cui il protagonista esprime il suo amore per una femmina squalo: la descrizione dell’attacco dello squalo a una zattera di sopravvissuti a un naufragio ben si associa a Watson and the Shark. The Recitation è accompagnato dalla musica del compositore impressionista Charles Tomlinson Griffes e da brani di grandi scrittrici e poetesse della letteratura dell’Ottocento americano, da Ella Wheeler Wilcox a Julia Ward Howe, fino a Harriet Prescott Spofford.
Profondeurs Vertes mette in luce una preparazione artistica, la conoscenza della storia dell'arte, della musica, della poesia, l'analisi dei testi e la capacità grafica. Il naufragio, che sul video viene frammentato in singoli pezzi visualizzando in modo ingrandito i tratti drammatici dei volti, dello squalo, della disperazione, dell'abbandono alla morte, viene poi ripreso in disegni dell'artista, posti in sequenza, che ritraggono frammenti dell'opera originaria, solo lievi tratti grafici ma significativi, solo l'impronta stilizzata della rappresentazione pittorica. un'operazione di smaltimento del superfluo che esalta la drammaticità, anzi la tragicità dell'evento rappresentato, i momenti successivi di un'evento senza scampo, l'essenzialità del dolore.
la mostra si articola su queste installazioni, visive, grafiche, visuali, arricchite di video e scene teatrali.
esordisce con la messa in scena di una squallida scena domestica, un letto sfatto, un forno, delle suppellettili, scenografia di una rappresentazione teatrale con una coppia gay in crisi relazionale, al punto che uno dei due protagonisti arriverà, guarda caso, al suicidio. la scena è vuota, la rappresentazione teatrale viene mostrata altrove, filmata in un video mostrato in una tv, come a mostrare uno scollamento della realtà, l'involucro da una parte il contenuto, angosciante dall'altro.
a questo punto si passa ad un video sui riti satanici, con un’alternanza di immagini in un crescendo di maschere sataniche, vortici che risucchiano la materia, visioni di urina trasformata in elemento divinatorio e molti altri riferimenti alle fantasie di onnipotenza adolescenziali, per poi concludersi con l’inquadratura iniziale del ponte su cui avanza una figura nuda (l’artista stesso), il tutto condito da una colonna sonora, che inizia con il silenzio della quiete boschiva, si trasforma in un susseguirsi di suoni inquietanti e distorti che evolvono in una scura composizione noise.
altre installazioni ripresentano video di mascheramenti, travestimenti, riprese dell'artista stesso truccato da femmina e in mutande in uno scantinato sotterraneo, grottesco bizzarro e umiliante, visioni boschive con figure grottesche travestite per la festa di Halloween, riprese da immagini reali del tempo liceale dell'autore,(tratte dagli Yearbooks scolastici) che aveva suddiviso in tematiche quali “riti religiosi”, “numeri di danza”, “immagini sataniche”, “personaggi rozzi e strani”, “delinquenti”, “Halloween e stili gotici”. si incontrano altri video, uno surreale e frammentato, in cui un personaggio si aggira protetto da una rettangolare maschera di carta che nasconde l'uomo più brutto del mondo, sovraccaricando ancora l'immagine di effetti fisici e personologici umilianti e segreganti, rimandi ancora a codici gestuali ed espressivi di cortometraggi televisivi ripescati ancora dalla memoria della sua infanzia.
si arriva a una scala a chiocciola, prelevata dalla casa di Kelley stesso, che ruota senza sosta su se stessa pendente dal soffitto e che funge da fulcro del lavoro e da supporto mobile per una proiezione rotante costituita da tre sequenze: la prima consiste in una serie di diapositive che ritraggono i precedenti inquilini della casa, una famiglia ispanoamericana, ritratta in differenti situazioni familiari; la seconda sequenza, ritrae gli stessi dettagli della casa al momento in cui egli vi risiede da solo e quindi privi di persone e con l’arredo completamente cambiato; nella terza sequenza vengono sovrapposte le immagini originali a quelle realizzate da Kelley, che in alcune si traveste nei panni della figlia minore. l’insieme, definito da Kelley stesso come “una macchina del tempo disfunzionale”, utilizza la compresenza di momenti spaziali e temporali differenti per sottolineare come, negli spazi che abitiamo, le tracce del passato non siano mai completamente scomparse. “I luoghi in cui viviamo ogni giorno divengono estranei nel momento in cui rappresentano ciò che è invisibile: il tempo passato, e le persone che non ci sono più”.
si giunge alla maestosa statua di John Glenn, l’astronauta protagonista nel 1962 della prima missione spaziale statunitense, costruita utilizzando oggetti d’arredo come vasi, lampadari e bottiglie con decorazioni create incollando piccoli frammenti come pezzi di bigiotteria, vetri e così via. si tratta di detriti e frammenti di vetro, metallo e ceramica risalenti probabilmente a una discarica degli anni ‘20 e ‘30, raccolti e utilizzati per il rivestimento della scultura. anche qui la scelta di John Glenn è autobiografica: a questo eroe nazionale, originario di Detroit, era dedicato il liceo frequentato da Kelley, e la statua è una replica di dimensione quasi doppia rispetto all’originale che si trova ancor oggi nella biblioteca della scuola.
l'ossessione scolastica, il pensiero reiterato e congelato su un frammento di vita evidentemente indigerito, raggiunge la sua apoteosi nella presentazione di un modello architettonico di tutti gli edifici scolastici frequentati da Mike Kelley nel corso della sua esistenza realizzato in base alla sua memoria e con alcune parti mancanti laddove non ne ricordava la struttura. i pannelli di legno che costituiscono l’installazione sono assemblati in modo da ricreare la sensazione dei cubicoli da ufficio presenti negli spazi di lavoro tipo open space: sulle pareti dei cubicoli sono appesi disegni, schemi, schizzi e appunti insieme a immagini ambigue che sembrano tratte da fumetti d’epoca. frasi di riferimento sessuale e forse abusante ricorrono qua e là appesi alle bacheche.
un universo di disperazione.
l'unica opera che posso definire artistica, con un suo spessore di ricerca al di là di un ossessione congelata a un momento traumatico della vita di quest'uomo, ma pur sempre improntata alla drammaticità, alla contrapposizione tra maschile e femminile probabilmente sessualmente irrisolta, è l'ultima, commissionata dal Louvre, Profondeurs Vertes.
E' un’opera inusuale: per la prima volta infatti l’oggetto del lavoro non è costituito da riferimenti alla cultura popolare bensì da due opere appartenenti alla storia dell’arte del Settecento e dell’Ottocento. Composta da tre proiezioni video, un dipinto a olio e una serie di sette disegni, oltre a diverse fonti sonore, Profondeurs Vertes è un complesso gioco di rimandi e citazioni intorno a due quadri della collezione ancora oggi esposte nel museo di Detroit: Watson and The Shark (1777) di John Singleton Copley e The Recitation (1891) di Thomas Wilmer Dewing.
I due quadri rappresentano rispettivamente il dramma di un naufragio, con un uomo in mare che sta per essere attaccato da uno squalo, e il ritratto campestre di due donne raffigurate nello stile della pittura borghese del tempo. In entrambi i dipinti il colore dominante è il verde da cui il titolo dell’opera. La colonna sonora di Watson and The Shark, dal tono epico e drammatico, è ispirata alle colonne sonore dei film d’avventura di Bernard Herrmann, mentre da un’altra fonte sonora è possibile ascoltare la declamazione di un frammento del secondo canto di Maldoror (lavoro poetico proto-surrealista, scritto da Isidore Ducasse sotto lo pseudonimo di Conte di Lautréamont) in cui il protagonista esprime il suo amore per una femmina squalo: la descrizione dell’attacco dello squalo a una zattera di sopravvissuti a un naufragio ben si associa a Watson and the Shark. The Recitation è accompagnato dalla musica del compositore impressionista Charles Tomlinson Griffes e da brani di grandi scrittrici e poetesse della letteratura dell’Ottocento americano, da Ella Wheeler Wilcox a Julia Ward Howe, fino a Harriet Prescott Spofford.
Profondeurs Vertes mette in luce una preparazione artistica, la conoscenza della storia dell'arte, della musica, della poesia, l'analisi dei testi e la capacità grafica. Il naufragio, che sul video viene frammentato in singoli pezzi visualizzando in modo ingrandito i tratti drammatici dei volti, dello squalo, della disperazione, dell'abbandono alla morte, viene poi ripreso in disegni dell'artista, posti in sequenza, che ritraggono frammenti dell'opera originaria, solo lievi tratti grafici ma significativi, solo l'impronta stilizzata della rappresentazione pittorica. un'operazione di smaltimento del superfluo che esalta la drammaticità, anzi la tragicità dell'evento rappresentato, i momenti successivi di un'evento senza scampo, l'essenzialità del dolore.
ecco l'artista finalmente, oltre l'uomo strutturato nell'angoscia di un vivere insopportabile, ecco un'operazione di senso artistico, non più solo e unicamente la rappresentazione ostinata e invadente di un'agonia che preannuncia una fine suicidaria.
Nessun commento:
Posta un commento