leggo su la Lettura del Corriere della Sera questa bella intervista tra Sandro Veronesi e Laura Morante sulla posizione verso i propri figli, se posizione ancora "edipica", educativa e rigorosa o, come sembra suggerire Veronesi, più disposta alla mediazione, al confronto e all'accettazione. accettazione più che nostra verso i nostri figli, dei nostri figli verso di noi. quel che non piace al padre moderno, quello che assolutamente non sa più fare, quello che evita accuratamente a costo di mandare per aria la famiglia, è quella inevitabile e dolorosa tortura di tollerare l'odio adolescenziale dei figli verso di sè. come dimostra più Veronesi della Morante, questo passaggio, quello del conflitto, è inaccettabile e intollerabile. il padre vuole essere complice del figlio, capirlo, affiancarlo, blandirlo, ma assolutamente non sa mettersi in posizione di argine, di limite, di negazione del permesso, perché assumere questi ruolo e posizione vuol dire scontrarsi, vuol dire essere giudicati, vuol dire essere separati e odiati. ma, come insegna tutta intera la psicoanalisi del mondo, questo significa solo essere odiati per il tempo necessario ad una crescita, ad una maturazione interiore, ad un superamento del modello di riferimento, per poi essere di nuovo amati. anzi solo così saremo amati dai nostri figli, accettando ora il loro disappunto -e questo è solo un eufemismo, ovviamente- ma recuperando poi la loro riconoscenza perché solo attraverso il limite, l'imposizione del limite, del non possibile, sarà loro consegnato l'accesso al desiderio, l'insegnamento della passione e della dedizione. se siamo complici e diamo noi, ora, tutto per possibile, non ci sarà per loro nulla da guadagnare, cresceremo dei figli improntati al narcisismo e al godimento mortifero di tutto, di ogni cosa, cui poi non rimarrà che il vuoto abissale del nulla.
Non siamo curiosi dei nostri figli
Sandro Veronesi si confronta con Laura Morante: "l'indisponiobilità al conflitto" incontra "l'importanza di maneggiare" chi amiamo.
Pare che il rapporto più produttivo tra genitori e figli — produttivo in termini proprio storici, di civiltà — sia il conflitto. Allora la domanda è: siamo preparati a vivere questo conflitto, da genitori? Perché da figli viene naturale, si tratta di una strada inevitabile; ma almeno io mi trovo in difficoltà a percorrere questa stessa strada da padre, cioè a scontrarmi con i miei figli per il loro bene. Laura Morante, come te la cavi con questo problema?
Sandro Veronesi si confronta con Laura Morante: "l'indisponiobilità al conflitto" incontra "l'importanza di maneggiare" chi amiamo.
«Non so come me la cavo. Peròmi ricordo che anni fa discutevo con un mio fratello col quale generalmente vado molto d’accordo, e ci fu una specie di scontro ideologico su come dovevamo comportarci con le nostre figlie, e io a un certo punto gli dissi: “Giacomo, ricordati che il peggiore dei genitori possibili è il genitore perfetto”. E infatti io rivendico la mia imperfezione».
Ma a te riesce essere imperfetta? Cioè, ti riesce non cercare di essere perfetta?
«Be’, certo, la tentazione di sfuggire la criticabilità è molto forte, c’è sempre. È naturale, è quasi un istinto. Però, in linea di principio io non soltanto accetto ma veramente rivendico la mia imperfezione. Penso che per un figlio sia terribile vedere ergersi di fronte a sé un genitore perfetto».
«Be’, certo, la tentazione di sfuggire la criticabilità è molto forte, c’è sempre. È naturale, è quasi un istinto. Però, in linea di principio io non soltanto accetto ma veramente rivendico la mia imperfezione. Penso che per un figlio sia terribile vedere ergersi di fronte a sé un genitore perfetto».
Ora ti dico una cosa che succede a me. Io di solito considero ogni potenziale punto di conflitto con i miei figli come un’occasione di ripensarmi, di liberarmi di convinzioni che risalgono magari a molti anni fa. Perciò va a finire che non pongo molti ostacoli alle inclinazioni dei miei figli, ma al contrario mi ritrovo a modificare le mie. Onestamente non so dirti se questo nasconda una mia mancanza di nerbo normativo, ma insomma ormai mi sono abituato a considerare i miei figli come una risorsa di «creazione di me», chiamiamola così. Il figlio che crea il padre, insomma, e non viceversa.
«Ma certo, i figli sono delle risorse, e non soltanto per le cose che esprimono consapevolmente, ma anche per altre più ipnotiche, più profonde. Io ricordo Eugenia, la mia prima figlia, quando aveva un anno e visse accanto a me la sua prima esperienza di un temporale. Ricordo l’emozione che provò, e quella sua emozione mi restituì intatta quella che avevo provato io. Devo dire che io sono strutturalmente polifonica, diciamo così, e infatti sono anche complicata nell’agire, e ho tendenza a sposare molti punti di vista. È proprio un vizio, quasi: non mi è mai riuscito di ammirare un paesaggio senza chiedermi come sia l’inverso, cioè il punto dove io mi trovo visto da quello che sto ammirando».
«Ma certo, i figli sono delle risorse, e non soltanto per le cose che esprimono consapevolmente, ma anche per altre più ipnotiche, più profonde. Io ricordo Eugenia, la mia prima figlia, quando aveva un anno e visse accanto a me la sua prima esperienza di un temporale. Ricordo l’emozione che provò, e quella sua emozione mi restituì intatta quella che avevo provato io. Devo dire che io sono strutturalmente polifonica, diciamo così, e infatti sono anche complicata nell’agire, e ho tendenza a sposare molti punti di vista. È proprio un vizio, quasi: non mi è mai riuscito di ammirare un paesaggio senza chiedermi come sia l’inverso, cioè il punto dove io mi trovo visto da quello che sto ammirando».
Ecco, ma questo non assomiglia un po’ a quella tendenza alla perfezione di cui parlavamo prima? Perché un genitore autoritario, severo, normativo, che tende a imporre il proprio punto di vista ai figli senza considerare il loro, sicuramente perfetto non è. E questo si dice che alla fine fa bene ai figli, stimolando la loro voglia di superarlo, di lasciarselo indietro e andare oltre. Ecco, a me non riesce di farmi ingombro per dar loro questo stimolo.
«E certo, ma io non dico che sia semplice, o anche solo che sia possibile: io dico che in linea di principio un genitore deve accettare di farsi anche un po’ odiare, perché sono convinta che l’ostacolo più grande, e non solo tra genitori e figli ma sempre, nei rapporti, sia la vanità. Purtroppo la vanità è una delle piaghe dell’umanità».
«E certo, ma io non dico che sia semplice, o anche solo che sia possibile: io dico che in linea di principio un genitore deve accettare di farsi anche un po’ odiare, perché sono convinta che l’ostacolo più grande, e non solo tra genitori e figli ma sempre, nei rapporti, sia la vanità. Purtroppo la vanità è una delle piaghe dell’umanità».
Cioè mi stai dicendo che forse questa mia indisponibilità al conflitto con i miei figli possa essere una forma di vanità?
«Sì, io penso che la vanità possa entrarci. Ora puoi anche definirla con una parola più amabile, però penso che in sostanza sia questo. A tutti fa piacere sentir dire “mio padre è un uomo meraviglioso” piuttosto che “mio padre è uno stronzo”. Ma è da dimostrare che sia più sano».
«Sì, io penso che la vanità possa entrarci. Ora puoi anche definirla con una parola più amabile, però penso che in sostanza sia questo. A tutti fa piacere sentir dire “mio padre è un uomo meraviglioso” piuttosto che “mio padre è uno stronzo”. Ma è da dimostrare che sia più sano».
Già, ma come si fa a essere stronzi? Guarda che con i nostri figli si può anche pensarla allo stesso modo, non siamo così lontani. La cultura di riferimento, al contrario di quel che capitava con i nostri genitori, è la stessa. È molto più difficile essere stronzi con uno che ascolta la stessa musica che ascolti tu. Ho assistito all’orale dell’esame di terza media dimio figlio, l’altro giorno, e parlava di Andy Warhol, del «Giovane Holden», delle missioni Apollo sulla Luna. Quelle sono cose anche mie, come si fa a essere stronzi?
«Sì, hai ragione, non è per niente semplice. È per questo che parlavo di linea di principio».
«Sì, hai ragione, non è per niente semplice. È per questo che parlavo di linea di principio».
Ma insomma, tu li hai avuti dei conflitti forti con le tue figlie?
«Sì che li ho avuti. Nel periodo proprio classico, il periodo adolescenziale. Diciamo che allora avevo un perpetuo senso di colpa perché mi ero separata da tutti e due i loro padri e questo mi metteva in una situazione molto attaccabile. E non osavo reagire come probabilmente avrei dovuto perché il senso di colpa, appunto, quello proprio rotondo, classico, me lo impediva. E in più ero una donna separata e perciò ero diventata un po’ tutto, per loro, e non c’era possibilità di fuggire. Non potevo mai deviare i colpi: arrivavano tutti a me».
«Sì che li ho avuti. Nel periodo proprio classico, il periodo adolescenziale. Diciamo che allora avevo un perpetuo senso di colpa perché mi ero separata da tutti e due i loro padri e questo mi metteva in una situazione molto attaccabile. E non osavo reagire come probabilmente avrei dovuto perché il senso di colpa, appunto, quello proprio rotondo, classico, me lo impediva. E in più ero una donna separata e perciò ero diventata un po’ tutto, per loro, e non c’era possibilità di fuggire. Non potevo mai deviare i colpi: arrivavano tutti a me».
Riguardando le cose retrospettivamente c’è qualcosa che hai fatto e che non rifaresti?
«Sì. Sicuramente sarei più attenta a non esporle così tanto alle mie vicissitudini personali. Credo di averle coinvolte un po’ troppo, ecco. Avrei potuto preservarle di più, facendo scelte più ponderate, soprattutto facendo passare più tempo, e credo che se potessi tornare indietro lo farei. Starei molto più attenta perché poi loro, avendo appunto questo rapporto così simbiotico con me, hanno proprio introiettato le mie sofferenze e le mie inquietudini. Ma a proposito dell’educazione non autoritaria mi è venuto in mente un episodio di quando ero ragazzina ed ero andata con mia madre in visita da una sua amica, che aveva due bambini piccoli, tipo di cinque e tre anni, educati con un sistema rigorosamente non-autoritario; per cui, mentre noi tre eravamo lì in salotto a conversare, quei due diavoli ne combinavano di tutti i colori: rovesciavano i libri della libreria, i cuscini dei divani, facevano tutta la confusione possibile nell’indifferenza serafica della madre. Io ero allibita, ma la madre continuava a parlare come se niente fosse. A un certo punto il bambino più grande, tutto sudato, ansimante, è salito in piedi sul tavolo attorno al quale eravamo sedute noi, ha tirato un gran sospiro e ha detto: “Che palle!”. E io questa cosa me la ricorderò sempre, perché quel bambino non riusciva proprio a stare senza i rimproveri della madre, ma lei non gliene dava».
«Sì. Sicuramente sarei più attenta a non esporle così tanto alle mie vicissitudini personali. Credo di averle coinvolte un po’ troppo, ecco. Avrei potuto preservarle di più, facendo scelte più ponderate, soprattutto facendo passare più tempo, e credo che se potessi tornare indietro lo farei. Starei molto più attenta perché poi loro, avendo appunto questo rapporto così simbiotico con me, hanno proprio introiettato le mie sofferenze e le mie inquietudini. Ma a proposito dell’educazione non autoritaria mi è venuto in mente un episodio di quando ero ragazzina ed ero andata con mia madre in visita da una sua amica, che aveva due bambini piccoli, tipo di cinque e tre anni, educati con un sistema rigorosamente non-autoritario; per cui, mentre noi tre eravamo lì in salotto a conversare, quei due diavoli ne combinavano di tutti i colori: rovesciavano i libri della libreria, i cuscini dei divani, facevano tutta la confusione possibile nell’indifferenza serafica della madre. Io ero allibita, ma la madre continuava a parlare come se niente fosse. A un certo punto il bambino più grande, tutto sudato, ansimante, è salito in piedi sul tavolo attorno al quale eravamo sedute noi, ha tirato un gran sospiro e ha detto: “Che palle!”. E io questa cosa me la ricorderò sempre, perché quel bambino non riusciva proprio a stare senza i rimproveri della madre, ma lei non gliene dava».
È la cosa più crudele che abbia mai sentito. Ma sei sicura che fosse un metodo? Magari era semplicemente sadica.
«Non lo so se era un metodo, ma di sicuro non era un comportamento naturale. Da una parte ero ammirata davanti all’imperturbabilità di quella donna, ma dall’altra ero proprio sconvolta vedendo questo bambino, poverino, che cercava in tutti i modi uno scappellotto che non arrivava».
«Non lo so se era un metodo, ma di sicuro non era un comportamento naturale. Da una parte ero ammirata davanti all’imperturbabilità di quella donna, ma dall’altra ero proprio sconvolta vedendo questo bambino, poverino, che cercava in tutti i modi uno scappellotto che non arrivava».
Tra l’altro io non credo proprio che si debbano seguire dei metodi per allevare i figli.
«Guarda, io ho sempre creduto che con i figli contino molto di più i gesti delle parole. Ho sempre pensato che il problema dimolte famiglie sia che si parla troppo, perché penso che la parola sia sempre un po’ fuorviante. Il gesto secondo me è infinitamente più importante per l’equilibrio affettivo. Parlo proprio di gesti semplici, primari. Quando le bambine erano piccole e io vivevo la mia vita travagliata, sentivo che la distanza tra me e loro aumentava quando, per ragioni anche contingenti, perché lavoravo eccetera, io non le toccavo. Bastava che ricominciassi a cambiarle, a dar loro da mangiare, a vestirle, a prenderle in braccio, il rapporto si ristabiliva immediatamente. Questi gesti qui, non necessariamente carezze o baci: gesti fisici. Toccare. Maneggiare».
«Guarda, io ho sempre creduto che con i figli contino molto di più i gesti delle parole. Ho sempre pensato che il problema dimolte famiglie sia che si parla troppo, perché penso che la parola sia sempre un po’ fuorviante. Il gesto secondo me è infinitamente più importante per l’equilibrio affettivo. Parlo proprio di gesti semplici, primari. Quando le bambine erano piccole e io vivevo la mia vita travagliata, sentivo che la distanza tra me e loro aumentava quando, per ragioni anche contingenti, perché lavoravo eccetera, io non le toccavo. Bastava che ricominciassi a cambiarle, a dar loro da mangiare, a vestirle, a prenderle in braccio, il rapporto si ristabiliva immediatamente. Questi gesti qui, non necessariamente carezze o baci: gesti fisici. Toccare. Maneggiare».
Certo. I gesti dedicati. I gesti di contatto dedicati.
«E una delle cose che mi turbano della religione è tutto l’aspetto astratto che si porta appresso, questa venerazione della parola e la demonizzazione della carne. Io non credo affatto che la carne sia il demonio: semmai il demonio sta nello spirito, nelle parole. Ma la religione insiste a mortificare la carne, e questo mi turba molto».
«E una delle cose che mi turbano della religione è tutto l’aspetto astratto che si porta appresso, questa venerazione della parola e la demonizzazione della carne. Io non credo affatto che la carne sia il demonio: semmai il demonio sta nello spirito, nelle parole. Ma la religione insiste a mortificare la carne, e questo mi turba molto».
Senti, David Foster Wallace dice da qualche parte, non mi ricordo in quale libro, che nei rapporti tra genitori e figli c’è sempre l’equivoco dell’amore, perché secondo lui i figli non desiderano tanto sentirsi amati dai genitori — quello lo danno più o meno per scontato —, quanto sentirsi apprezzati. Tu che cosa ne pensi?
«Posso dire un’altra cosa? Secondo me la base dell’amore è la curiosità, ma pochissimi sentimenti che noi chiamiamo amore poggiano su questa base. L’unico che ha dato una definizione molto precisa di questo, e infatti mi è rimasto impresso, è stato Flaubert, nell’Educazione sentimentale, quando a un certo punto, parlando del suo amore per Madame Arnoux, dice di Frédéric qualcosa come — vado a memoria: “Provava nei suoi confronti una curiosità dolorosa che non aveva limiti”. L’intuizione straordinaria di Flaubert è proprio questa: che alla base del sentimento amoroso deve esserci la curiosità. Io penso che quello che manca più di tutto ai figli è una reale, autentica curiosità nei loro confronti. Perché è tanto affascinante una delle prime lettere che Kafka ha scritto a Felice Bauer? Poi dopo è discutibile che lui l’abbia amata o no, come tutti sappiamo, però in questa lettera, che credo sia la prima che le perviene veramente, lui le descrive per filo e per segno ciò che lei ha fatto e detto quella prima sera in casa Brod, e il senso che avevano tutti i suoi gesti. Anche cose sgradevoli, perché a un certo punto le dice che si vergognava perché aveva ai piedi delle ciocie, evidentemente essendo entrata in casa con i piedi bagnati e avendo ricevuto in prestito quelle pantofole dalla signora Brod — e insomma teneva i piedi nascosti, e Kafka glielo racconta. Tutte queste cose, se io avessi ricevuto una lettera così, mi avrebbero fatto esultare. La straordinarietà di quella lettera è la curiosità di cui lui dà prova nei confronti di questa donna. Di fatto lui l’ha osservata costantemente — anche con crudeltà, perché la curiosità presuppone la crudeltà, così come l’arte, per esempio, presuppone la crudeltà. Però quella cosa lì è secondo me la cosa più toccante, più vivificante, più rassicurante: la cosa migliore che tutti noi possiamo ricevere».
«Posso dire un’altra cosa? Secondo me la base dell’amore è la curiosità, ma pochissimi sentimenti che noi chiamiamo amore poggiano su questa base. L’unico che ha dato una definizione molto precisa di questo, e infatti mi è rimasto impresso, è stato Flaubert, nell’Educazione sentimentale, quando a un certo punto, parlando del suo amore per Madame Arnoux, dice di Frédéric qualcosa come — vado a memoria: “Provava nei suoi confronti una curiosità dolorosa che non aveva limiti”. L’intuizione straordinaria di Flaubert è proprio questa: che alla base del sentimento amoroso deve esserci la curiosità. Io penso che quello che manca più di tutto ai figli è una reale, autentica curiosità nei loro confronti. Perché è tanto affascinante una delle prime lettere che Kafka ha scritto a Felice Bauer? Poi dopo è discutibile che lui l’abbia amata o no, come tutti sappiamo, però in questa lettera, che credo sia la prima che le perviene veramente, lui le descrive per filo e per segno ciò che lei ha fatto e detto quella prima sera in casa Brod, e il senso che avevano tutti i suoi gesti. Anche cose sgradevoli, perché a un certo punto le dice che si vergognava perché aveva ai piedi delle ciocie, evidentemente essendo entrata in casa con i piedi bagnati e avendo ricevuto in prestito quelle pantofole dalla signora Brod — e insomma teneva i piedi nascosti, e Kafka glielo racconta. Tutte queste cose, se io avessi ricevuto una lettera così, mi avrebbero fatto esultare. La straordinarietà di quella lettera è la curiosità di cui lui dà prova nei confronti di questa donna. Di fatto lui l’ha osservata costantemente — anche con crudeltà, perché la curiosità presuppone la crudeltà, così come l’arte, per esempio, presuppone la crudeltà. Però quella cosa lì è secondo me la cosa più toccante, più vivificante, più rassicurante: la cosa migliore che tutti noi possiamo ricevere».
C’è un problema però, secondo me, nel basare l’amore per i figli sulla curiosità, come dici tu: loro, i figli, generalmente si aspettano il tuo giudizio. Lo postulano, forse addirittura lo esigono — automaticamente, qualunque sia, temo, la natura della tua curiosità. E questo allora, data la congenita insicurezza che accompagna gli adolescenti e i ragazzi, può portare di nuovo all’intuizione di Wallace e cioè: sei curioso di me (dunque mi ami: ok, grazie), ma «come mi giudichi»? Mi approvi? Mi apprezzi?
«È vero, è un po’ come nella storiella del topolino e dell’elefante che giocano insieme: tu non sai di avere quel peso enorme, tu hai le tue, di insicurezze, e non tieni nel giusto conto quelle dei tuoi figli. Perché si continua a sentirsi figli, secondo me, anche al cospetto dei nostri figli».
«È vero, è un po’ come nella storiella del topolino e dell’elefante che giocano insieme: tu non sai di avere quel peso enorme, tu hai le tue, di insicurezze, e non tieni nel giusto conto quelle dei tuoi figli. Perché si continua a sentirsi figli, secondo me, anche al cospetto dei nostri figli».
Per concludere vorrei chiederti una cosa: tu di tutto questo parli in pubblico a Spoleto, con tua figlia Eugenia, al Festival «Istinto di conversazione». Sei proprio sicura di riuscirci?
«Non lo so. Vado così, alla ventura, non ho la minima idea di cosa potrà avvenire. Sono anche un po’ curiosa di vedere come va a finire, in verità,ma non mi fa paura, se è questo che intendi. Sono assolutamente aperta a tutto ciò che potrà venirne fuori, dato che non riesco proprio a immaginarmelo. Spero che non ci scontreremo»
«Non lo so. Vado così, alla ventura, non ho la minima idea di cosa potrà avvenire. Sono anche un po’ curiosa di vedere come va a finire, in verità,ma non mi fa paura, se è questo che intendi. Sono assolutamente aperta a tutto ciò che potrà venirne fuori, dato che non riesco proprio a immaginarmelo. Spero che non ci scontreremo»
No, questo no. Ma magari io avrei paura di scoprire, lì, sul palco, di non avere più tutta la lucidità e la parlantina che ho adesso, di ritrovarmi a balbettare.
«Questo sì, è possibile. Io ho soggezione delle mie figlie, e di sicuro sarò un po’ trattenuta, avrò timore di dire delle cose che le dispiacciano, o di essere troppo retorica. Sicuramente mi sentirò un po’ — ecco — io, giudicata. E riguardo alla retorica genitori-figli mi viene in mente una cosa detta da Monicelli che è perfetta per finire — in un’intervista alla televisione, tanti anni fa: intervistavano i personaggi del cinema sulla paternità, Gassman, mi ricordo, Tognazzi, e le risposte erano tutte un po’ retoriche. Quando arrivò il turno di Monicelli, che per la retorica aveva quella cronica, meravigliosa repulsione, ciò che disse fu: “Guardi, secondo me la migliore cosa che un padre possa fare per i suoi figli è sparire”».
«Questo sì, è possibile. Io ho soggezione delle mie figlie, e di sicuro sarò un po’ trattenuta, avrò timore di dire delle cose che le dispiacciano, o di essere troppo retorica. Sicuramente mi sentirò un po’ — ecco — io, giudicata. E riguardo alla retorica genitori-figli mi viene in mente una cosa detta da Monicelli che è perfetta per finire — in un’intervista alla televisione, tanti anni fa: intervistavano i personaggi del cinema sulla paternità, Gassman, mi ricordo, Tognazzi, e le risposte erano tutte un po’ retoriche. Quando arrivò il turno di Monicelli, che per la retorica aveva quella cronica, meravigliosa repulsione, ciò che disse fu: “Guardi, secondo me la migliore cosa che un padre possa fare per i suoi figli è sparire”».
Sandro Veronesi
6 commenti:
istruttivo,davvero.mi ci riconosco in larghissima parte e,purtroppo,è la descrizione maschile.è così maledettamente complicato..almeno così a me sembra.Monicelli nel finale è grande,come sempre.buona giornata.
Monicelli sintetizza in un lampo, magari un po' cinico, quel che ogni genitore dovrebbe saper fare, dopo aver favorito la separazione.
La curiosità è davvero un tratto essenziale, quello che ci fa sentire oggetto di Philia da parte di chi ci vuole bene. Si spera di essere oggettivati per sentirsi amati.
Buona giornata, Rossa.
Non sono anonima, sono http://monologoinnero.blogspot.it/
Non so perchè non lo mostri.
beh la seconda volta ha funzionato però!
io credo proprio che non si debba affatto esser oggettivati ma soggettivati per essere amati, e amare a nostra volta. mi sembra una differenza sostanziale.
ciao eSSe B
Ho capito che non sei d'accordo sull' essere 'oggetto' d'amore. Ma soggetto si è, non si viene fatti diventare da un altro. Credo. Ma posso sbagliarmi.
Ciao
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