bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 12 luglio 2013

la grande bellezza

c'è l'uomo che apre le porte dei palazzi perchè è amico delle principesse.
è un uomo misterioso, elegante e con il passo claudicante che - non si sa come - ha con sé una valigetta con le chiavi dei più bei palazzi di Roma, del bello inarrivabile, misterioso, ancestrale, inaccessibile a tutti gli altri. è una specie di custode della "grande bellezza". è lui la chiave per la grande bellezza, l'unico pieno, seppure sfuggente, nel grande vuoto che anima tutto il film.

La Grande Bellezza è un film di Paolo Sorrentino, interpretato da Toni Servillo e, insieme a molti altri,  per un breve ma intenso tratto, da Sabrina Ferilli.
il film ha echi e richiami felliniani indiscutibili ma anche un codice personale indiscutibile.
ho letto molti articoli, anche su la Lettura del Corriere della Sera, e mi sembra possano dire molto meglio di me del valore di questo film, di cui ho goduto molto, almeno fino a tre quarti del film, trovando invece intollerabile un finale inutile e noioso. un gran bel film con un protagonista memorabile che poteva finire in gloria con il ballo di una festa -una delle tante- di matrimonio e il grande Jep che si delizia illudendosi all'idea, nostalgica e tragica, che ci sia ancora qualcosa di bello che rimanga da fare...
le scene delle feste sono travolgenti, le immagini di Roma fanno pensare al luogo più bello immaginabile , e inimmaginabile, al mondo, l'ironia, l'intelligenza, il gusto e la parola tagliente di Jep sono irresistibilmente attraenti: la verità che aleggia in questo film è così penetrante quanto insopportabile.
la vita si svolge sul bordo di una terrazza che da sul Colosseo, si nutre di lusso e di ricchezza, ma la voragine è lì, il vuoto, il nulla, il buco nero che ci risucchiano verso il non essere sono solo un passo oltre. o forse ci siamo già dentro.
l'intelligenza di Jep, tutta l'intelligenza del mondo non servono a niente, nel vuoto ci nuotiamo dentro.
solo, se lo sappiamo, intelligentemente, non facciamo finta che sia qualcos'altro.
intelligenza è solo consapevolezza ma non salvezza. è l'attimo in cui si può vedere la bellezza che ci circonda, goderne con leggerezza, ma se ne siamo capaci, per poi nuovamente inabissarci nella stupidità e nella vacuità che quotidianamente ci abitano.
"Il privilegio di avere la mia età è che posso permettermi di non fare le cose che non ho voglia di fare“.
un film inesorabile.


IL POTERE DELLA FRIVOLEZZA
di Emanuele Trevi - da la Lettura del Corriere della Sera
Nessuna storia, del resto, per quanto pretenda di essere originale e addirittura inaudita, potrebbe essere comprensibile senza la presenza di un archetipo. Perché qualcosa ci interessi davvero, deve stimolare allo stesso tempo il nostro desiderio di novità e il suo contrario, vale a dire la nostra memoria. Esattamente come fa Jep Gambardella, il fatuo e impeccabile protagonista della Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Toni Servillo ne ha cavato fuori una delle sue interpretazioni più memorabili. Ma quella vecchia canaglia noi la conosciamo bene. E anche se ci secca ammetterlo, la sua versione della realtà rappresenta un punto di vista unico, e ancora illuminante. Proprio perché Jep è un parassita, un uomo inutile. Se si trova in cima alla piramide sociale, è alla maniera di un turacciolo che galleggia sulla superficie del mare.
Jep è un mondano, il re dei mondani. È un infallibile esperto di una delle scienze più complesse e raffinate che esistano, la scienza della frivolezza. Non la frivolezza individuale che ognuno coltiva all’interno di sé, come ingrediente del carattere e parte necessaria, anche se inconfessabile, del destino. No, la frivolezza di cui Jep è insieme l’anatomista e il sacerdote è un legame collettivo, una malattia epidemica, un linguaggio capace di cementare le relazioni fra i singoli. Non è senza importanza che Jep sia quella che una volta si sarebbe definita una «grande firma» di un importante quotidiano. La lieve coloritura professionale gli si addice come l’eleganza dei suoi completi di lino. Quella del giornalista mondano è la perfetta incarnazione moderna del custode della frivolezza. In lui trovano una sintesi suprema vecchie e onoratissime professioni, figlie o serve del privilegio e della ricchezza: la spia, il cortigiano, il poeta di epigrammi, il nottambulo. Tra tutti gli dei antichi, è Ermes il protettore ideale di questo tipo d’uomo, di quest’ombra sociale. 


E' LO SQUALLORE CHE MI COMMUOVE
intervista a Paolo Sorrentino di  Alessandro Piperno - da la Lettura del Corriere della Sera

«Dopo un libro del genere all’autore non resta che scegliere tra due opzioni: o spararsi in bocca o stendersi ai piedi della croce». È una battuta di Barbey d’Aurevilly. La scrisse dopo aver letto À rebours di Huysmans. La propongo a Paolo Sorrentino. Anzi, gliela sbatto in faccia. Gli chiedo se non si possa dire altrettanto di lui, e soprattutto di Jep Gambardella, l’insuperabile eroe de La grande bellezza.
«Be’» sorride Sorrentino «per me non saprei, ma sono certo che per Jep esista una terza via».
«La terza via di Jep è lasciare tutto così com’è» dice Sorrentino. «Del resto il film finisce con Jep che scrive la prima frase del nuovo romanzo. Non sapremo mai se riuscirà a scrivere anche la seconda, la terza, la quarta, e così via».
Tu che dici, ce la farà?
«Direi di no. Se lo conosco non ce la farà. Jep mi somiglia: è un dissipatore. Anche a me capita di trovare un buon incipit e di fermarmi lì. Ho i cassetti pieni di incipit promettenti».
Quindi anche la riscoperta della vocazione di Jep è l’ennesima patacca?
«Forse sì. Lui non vuole rompere con quel mondo, con quella vita. E Dio solo sa se lo capisco».
Anche tu sei invischiato con la mondanità?
«Parlavo del film. Del mondo del film. Di solito riesco a staccarmi abbastanza presto da un film. Stavolta no. Se mi chiedessi che film mi piacerebbe girare adesso, ti direi: il sequel de La grande bellezza. Che so, Jep molla il romanzo, torna a Roma e ricomincia da dove ha lasciato».
Uno dei segni della sopraggiunta maturità artistica è la perdita di interesse per la trama: l’ellissi è la più ambiziosa delle figure retoriche.
«In me la ricerca ossessiva di un plot è quasi evaporata. E pensare che quando ho cominciato questo mestiere ne ero così ossessionato. Ora sento il plot come un ostacolo. Prima di dirottare l’idea su un film avevo pensato di fare di Jep l’eroe di un libro. Nei romanzi (almeno per come li concepisco) si può essere molto più liberi. Solo facendo i primi sopralluoghi, le immagini hanno preso il sopravvento sui personaggi e sull’intreccio».
La grande bellezza è un titolo ironico?
«Mi dispiacerebbe se qualcuno lo intendesse così. Non volevo puntare il dito sulle volgarità di un certo milieu! Volevo raccontare la fatica di vivere. Tanto più nel privilegio, nell’agiatezza. Ecco, diciamo che la fatica di vivere, questo titanico tirare a campare, ha una sua bellezza. Persino nel vuoto che attanaglia i personaggi, e che in fondo attanaglia anche me, c’è bellezza. Alla fine mi piacerebbe che passasse questo piccolo pensierino: che la vita è una gran fatica ma che non si può dire che non sia bella».
Mi torna in mente la scena del film in cui il marito della scrittrice progressista nuota in piscina contro una corrente artificiale: nuota, si sbraccia, e non avanza di un centimetro.
Non è un caso se nel film ricorre una famosa battuta di Flaubert. Erano gli anni febbrili della Bovary quando il giovane Gustave confessò all’amante il desiderio di scrivere un «romanzo sul niente». Avrebbe dovuto attendere un’altra quindicina d’anni, e alla fine quel romanzo l’avrebbe scritto:L’educazione sentimentale. Quello sì che è un romanzo sul niente. La storia di una non-vita. Un libro stagnante (come le nostre vite), che ancora oggi fatica a trovare un pubblico: non fa piacere a nessuno immedesimarsi in un individuo così sprovvisto di qualità e ambizioni, che frequenta solo persone come lui.
...
Vorrei rassicurare Sorrentino: La grande bellezza non è un film magnifico nonostante i suoi difetti. È un film magnifico in virtù dei suoi difetti: squilibri, divagazioni, false partenze, volgarità, avanspettacolo, scorciatoie retoriche, sentimentalismi…
Sei attratto dalla volgarità?
«La parola “volgarità” non mi convince, e non mi piace. Più che altro mi attrae lo squallore. Ogni tanto sono tentato di gettare un occhio giudicante e censorio sulla volgarità, ma questo non avviene mai con lo squallore. Lo squallore mi commuove. Nasconde sempre un dolore, una malinconia. Non c’è niente di amabile nella volgarità tout court, che so, Bossi in canottiera e bretelle. Mentre le scene che mescolano squallore e tristezza m’inteneriscono. Forse perché mi riguardano. Sento che potrei esserne l’ignaro protagonista».
Uno dei colpi di genio de La grande bellezza è che Jep Gambardella, a dispetto delle apparenze e del suo ruolo in società, è un uomo buono, a suo modo premuroso. È come se l’idea della propria miseria lo spingesse a guardare gli altri con misericordia. L’indolenza, la passione nel dissiparsi non sembrano provenire dalla paura del fallimento, bensì dall’intuizione della propria irrilevanza e della gratuità della vita. Come tutti i veri cinici Jep è un sentimentale in pensione. Come tutti i veri moralisti Jep è un immoralista. Ecco perché i sodalizi di Jep sono così memorabili: i duetti mattutini (si fa per dire) con la domestica; gli affettuosi pasti con la direttrice della rivista di gossip per cui Jep lavora; le ciarle insensate con il marito della donna amata; le scorribande notturne con la spogliarellista (una Ferilli in forma magnanesca). Persino prima di umiliare pubblicamente la scrittrice progressista, Jep la mette in guardia almeno un paio di volte (per inciso, si tratta di un monologo che, per intensità e disperazione, non è secondo a quello finale de L’uomo in più). Toni Servillo è il più grande attore italiano vivente perché è capace di questa pietà. Il suo Jeb Gambardella è una specie di Lebowski: uno che sta lì per riscattarci tutti. Da qui l’eloquenza impareggiabile, una sentenziosità degna di Oscar Wilde. Jep parla in nostra vece. Siamo contenti che almeno lui sappia cosa dire.
«Hai presente quando qualcuno ti dice una cosa che ti prende in contropiede? Là per là non sai che rispondere. Poi non fai che ripensarci. Te ne vai a letto tutto incazzato ed ecco che finalmente, a bocce ferme, la battuta arriva. Ti maledici per non averci pensato al momento giusto. Ecco, a me piace mettere in bocca ai miei personaggi la risposta perfetta. Sai perché adoro Céline? Perché lui ha sempre la battuta definitiva. È vero, questo nella vita avviene di rado, ma perché non farlo avvenire al cinema?».
Raddrizzare le gambe storte della vita: una delle ragioni sociali dell’arte. L’arte ti offre la seconda chance che tutti invochiamo. E ti permette di lavorarci su in santa pace.
A giudicare dai protagonisti dei tuoi film direi che te la intendi bene con individui a dir poco ambigui… Da Tony Pisapia, passando per Andreotti fino a Jep Gambardella. Non mi pare che nessuno si segnali per civismo e dirittura morale.
«Quando devo scegliere il protagonista di un film la sua moralità non mi interessa, e neppure la sua fedina penale. Di norma mi interessa chi sa fare veramente bene una cosa».
....
È per colpa di Fellini allora se nel film ci sono tutti quei prelati? Gli chiedo. Io, ad esempio, sono romano: la mia famiglia, per causa di forza maggiore, è qui da qualche secolo, e ti assicuro che a Roma i preti non ci sono più.
«Ma scherzi?», ride. «Sono ovunque. Proprio ieri ero qua sotto sullo scooter: una decina di preti in bicicletta, con tanto di tonaca e di cappello circolare, ostruivano il passaggio. Una scena degna di De Sica. Vivo da qualche anno in questa città e mi sembra immensa e misteriosa. Ci sono luoghi nel centro storico — chiese, piazzette, vicoli — che, pur essendo antichissimi, sembrano completamente privi di identità, svincolati dal contesto come la lounge di un aeroporto. Non conducono da nessuna parte. Sono disabitati. Non servono a niente e a nessuno. Capisci quanto tutto questo sia eccitante per chi fa cinema! Insomma come vedi il mio sguardo su Roma è provinciale. La parrucchiera del Minnesota in vacanza a Roma in confronto a me è una donna di mondo, una spregiudicata».
Da qui allora il passatismo? Lo sguardo ostinatamente rivolto al passato?
«Sai, mi è rimasta impressa la risposta che diede un grande scrittore (non ricordo più quale) a chi gli chiedeva perché scrivesse libri. “Cerco il padre” fu la risposta. Si tratta di una sintesi perfetta del mio lavoro. È vero, sono un nostalgico. Il presente non mi interessa, non mi smuove. Provo nostalgia per un’epoca che non ho vissuto. Forse perché ho perso mio padre quando avevo solo sedici anni. Tutto quello che faccio è un tentativo di conoscere mio padre nella deprimente consapevolezza che non ce la farò mai».

Nessun commento: