è Joyce che scrive, in Gente di Dublino.
Joyce, che personaggio.
nel corso della sezione clinica su Lacan, l'anno scorso, la figura di Joyce è stata lungamente presentata: Lacan ne studiò da vicino la natura psichica e l'opera.
Joyce era probabilmente psicotico, una psicosi però confinata, trattenuta, non esplosa, grazie a una supplenza, quella della scrittura. è proprio
attraverso questa supplenza che Joyce può arrivare a farsi
un “nome proprio”. nella supplenza il soggetto realizza una sorta di individuazione, differenziando la propria identità da quella degli
altri.
la natura simbolica della supplenza conduce alla produzione di un’opera. è
evidente che quest’opera non ha come modello necessariamente l’Ulisse di Joyce (modello “alto”
privilegiato da Lacan) ma può benissimo realizzarsi attraverso opere – od operazioni – tra le più
quotidiane. ciò che conta è che queste operazioni riescano a
ricucire lo strappo lasciato dall’assenza del Padre. a riguardo è vero che
il caso Joyce resta esemplare poiché per lui, il “farsi un nome”, coincide in modo assoluto con il
prodotto, ovvero con l’opera stessa di Joyce.
la stampella di Joyce, la sua ricucitura, il suo poter stare al mondo, è stata la scrittura.
in Gente di Dublino c'è qualcosa di pervasivo, di costante, un respiro di sconfitta, di perdita, di disfatta, in tutti i racconti. c'è una storia, che non è mai troppo strutturata, è sfumata, con dettagli che arrivano inaspettatamente e a volte non arrivano affatto, una scrittura disordinata, tutt'altro che metodica, storie dai contorni indefiniti in cui emerge, lento, inesorabile, il senso della perdita, della paralisi, della condanna. è come se per ogni personaggio si giungesse, alla fine del racconto, sempre, a un perdita di senso.
nell'ultimo dei racconti, I morti, questa perdita tocca la morte, la morte dell'anima, un'ombra che mangia ogni cosa.
e un brivido nero, squotente, macabro, corre lungo la schiena.
Un picchiettare sommesso sui vetri lo fece voltare verso la finestra: aveva ricominciato a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi neri e argentei che cadevano obliqui contro il lampione. Era giunto il momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali dicevano il vero: c'era neve dappertutto in Irlanda. Cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dove era sepolto Michael Furey. S'ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull'universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti. (da I morti)
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