bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 8 dicembre 2011

Roso di dentro e arso di fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un'idea incurabile

Comincia così: "Chiamatemi Ismaele".
E' Moby Dick, di Herman Melville, il cui primo traduttore è stato Cesare Pavese.

Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta
da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo,
e ha veduto i ramponi pesanti volare nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e  lottare alla lancia.

C. PAVESE, I mari del Sud.

Lo scolto in audiolibro, meravigliosamente narrato da una voce che mi fa sognare come una bambina, e, dopo un inizio difficile, descrittivo in modo esasperato, enciclopedico nella sua analisi e catalogazione di balene, cetacei, leviatani, capodogli, spermaceti, ora è un godimento dell'anima di cui sono già diventata dipendente.
Sono solo al 45° di ben 135 capitoli ma ormai sono stata catturata, sono incatenata sul Pequod e partecipo della follia ossessiva e dannata del suo capitano Achab, e attendo l'incontro con Moby Dick, la balena albina dalla fronte rugosa e dalla gobba bianca, simbolo eterno della possessione e della perdizione senza scampo.
il capitano Achab, io sono demoniaco, io sono la pazzia impazzita, è una figura mitica come mitico è questo libro: la sua narrazione, la sua storia e i suoi personaggi appartengono all'epica, non meno di iliade e odissea. ed è così che mi ritovo dentro a una storia senza spazio e senza tempo, un'epopea narrativa densa di codici e simboli che appartengono alla nostra matrice pià profonda. io sono Ismaele, io sono Achab, io sono Moby Dick.
Achab è posseduto da un'angoscia primordiale e, come si legge sul libro, quando in preda al suo tormento ossessionante e dominante si lancia sul ponte della nave alla ricerca visiva e predatoria del suo fantasma oscuro ..in quel momento non era che una cosa vuota, una creatura informe che vagava nel sonno, e che era sempre un raggio di luce viva ma senza un oggetto da colorare, e quindi, in se stessa, un niente. Dio ti aiuti, vecchio. I tuoi pensieri hanno creato dentro di te una creatura; e all'uomo che a forza di pensare si trasforma in un Prometeo, un avvoltoio divora il cuore per sempre. Un avvoltoio che è la stessa creatura che egli crea.

Eccolo Achab, in un capito esaltante del romanzo:
Mi lascio dietro una scia bianca e torbida; acque pallide, facce più pallide, dovunque vada. Le onde invidiose si gonfiano ai lati per coprire la mia traccia. Facciano: ma prima io passo..Laggiù, agli orli del calice sempre ricolmo, le acque tiepide arrossiscono come il vino. La fronte d'oro scandaglia l'azzurro. Il sole che si tuffa, sceso lentamente dal meriggio, va giù. E la mia anima sale. Stanca dell'erta che non ha mai fine. È dunque troppo pesante la corona che porto, questa mia corona di ferro di Lombardia? Eppure splende di tante gemme. Io che la porto non vedo i suoi lampeggiamenti lontani, ma sento oscuramente di portare una cosa che abbaglia e confonde. È ferro, lo so: non oro. Ed è anche spaccata, lo sento. Il suo bordo intaccato mi tortura tanto che il mio cervello sembra pulsare contro il metallo vivo. Sicuro, è un cranio d'acciaio, il mio; di quelli che scendono senza elmo nella zuffa più massacrante. Arsura sulla mia fronte? Oh ci fu un tempo che l'alba mi stimolava generosamente e il tramonto mi dava sollievo. Ora non più. Questa luce bella non illumina me; ogni bellezza per me è angoscia, perché non provo più gioia. So percepire il sublime, e mi manca la bassa capacità della gioia. Sono dannato nel modo più sottile e perverso, dannato in mezzo al paradiso! Buona notte! Buona notte!


(Agita la mano e si stacca dalla finestra.)


...Mi credono pazzo: Starbuck mi crede pazzo; ma io sono demoniaco, io sono la pazzia impazzita. Quella pazzia selvaggia che è calma solo per capire se stessa! La profezia ha detto che sarei stato smembrato, e difatti! Ho perso questa gamba. Io ora profetizzo che smembrerò il mio mutilatore. E perciò il profeta e l'esecutore siano la stessa persona. Questo è più di quanto avete saputo mai fare voi, grandi dei. Vi urlo e fischio in faccia, voi pugili, voi giocatori di cricket, voi Burke e Bendigo ma sordi e orbi! Non farò come i ragazzini di scuola che dicono ai prepotenti: Trovatene uno grosso come voi, non state a picchiare me! No, voi mi avete messo a terra e io sono in piedi di nuovo, siete voi che siete scappati a nascondervi. Uscite da dietro i vostri sacchi di cotone, che io non ho fucile lungo per raggiungervi. Venite, vi presento i miei ossequi, venite a vedere se potete farmi cambiare strada. Farmi cambiare strada? No che non ne siete capaci, se non cambiando strada voi stessi! È qui che l'uomo vi tiene. Farmi cambiare strada? La strada che porta al mio scopo immutabile è attrezzata con rotaie di ferro, e la mia anima è scanalata per correrci sopra. Mi getto senza sbagliare su precipizi senza fondo, attraverso i cuori scavati delle montagne, sotto i letti dei torrenti. Niente può fare da ostacolo, niente può torcere una strada di ferro!


Ed ecco Starbuck, primo ufficiale del Pequod, insabbiato nella palude melmosa del suo capitano, magnetizzato dalla sua ossessione, tormentato dall'imprevedibilità della palese follia di chi lo comanda, e, allo stesso tempo, dall'obbligo morale di assecondarla pur volendo liberarsene:


La mia anima ha trovato più che un'eguale, ha trovato un tiranno, e un pazzo. Assillo insopportabile, che in questo campo un uomo sano debba gettare le armi! Ma egli ha scavato a fondo, ha bruciato tutta la mia ragione. Credo di vedere la sua intenzione empia, ma sento che debbo aiutarlo. Che io voglia o no, qualcosa di inspiegabile mi ha legato a lui, e mi trascina con un cavo che non ho coltello per tagliare. Vecchio orribile! «Chi è superiore a lui,» grida: sicuro, sarebbe democratico con tutti quelli in alto, e guarda come tiranneggia quelli in basso! Oh, vedo chiaramente il mio compito miserabile: obbedire ribellandomi, e ancora peggio odiare con un filo di pietà! Perché gli leggo negli occhi non so che dolore sinistro che mi brucerebbe, se l'avessi io. Eppure c'è qualche speranza. Il tempo e il mare passano lenti e vasti. La balena odiata può nuotare in tutto il mondo dell'acqua, come il pesciolino dorato nella sua bolla di vetro. Il suo proposito blasfemo Dio può debellarlo. Mi rifarei coraggio, se non avessi il cuore come piombo. Ma tutto il mio meccanismo si è scaricato; e non ho più chiave per risollevare il cuore, che è il peso che regola tutto.


e poi c'è un capitolo che è un capolavoro di letteratura, di psicologia, di interpretazione, di visione, di intuizione, di lettura profonda del mondo simbolico e inconscio. una grandiosità di valore universale. mitico. epico. eterno. 
e io, anche se non per intero, lo dispiego, qui, in tutta la sua potente bellezza. 


Costretti dunque a vivere tra fatti così stupefacenti, e sapendo che la balena bianca era sempre scampata a ogni attacco temerario, non c'è da meravigliarsi molto se qualche baleniere si dimostrava ancora più superstizioso, e affermava che Moby Dick non solo possedeva l'ubiquità ma era immortale (perché l'immortalità non è che ubiquità nel tempo); per quanto gli piantassero nei fianchi foreste di lance, se ne sarebbe andato sempre illeso; e anzi, se mai si poteva riuscire a fargli sputare sangue grumoso, quella vista sarebbe stata nient'altro che una allucinazione: a centinaia di leghe di distanza, nell'acqua incruenta, si sarebbe visto di nuovo il suo spruzzo immacolato. Ma anche lasciando da parte queste supposizioni soprannaturali, nel carattere innegabile del mostro come creatura di questa terra c'era abbastanza da colpire l'immaginazione con una forza non comune. Perché ciò che lo distingueva dagli altri capodogli non era tanto la sua dimensione eccezionale, quanto, come si è accennato altrove, la sua strana fronte grinzosa e bianca come la neve, e un'alta gobba bianca a forma di piramide. Questi erano i suoi caratteri più vistosi, i segni coi quali, perfino nei mari sconfinati e sconosciuti, rivelava a grande distanza la sua identità a quelli che lo conoscevano. Il resto del suo corpo era così striato, maculato e screziato dello stesso colore nebbioso, che alla fine s'era guadagnato quel suo nome tutto speciale di balena bianca, un nome che in realtà era giustificato letteralmente dal suo aspetto luminoso, quando lo si vedeva scivolare in pieno meriggio per un mare azzurro cupo, lasciandosi dietro una scia di schiuma cremosa, come una via lattea, tutta punteggiata di scintille d'oro. E ciò che rendeva la balena una creatura terribile non era tanto la sua grandezza eccezionale o quel colore impressionante, e nemmeno la sua mascella deforme, quanto la cattiveria intelligente e inaudita che stando a certi resoconti precisi essa aveva mostrato più e più volte nei suoi attacchi. Erano sopratutto le sue perfide fughe che sgomentavano, forse più di ogni altra cosa. Quando batteva in ritirata davanti ai suoi inseguitori esultanti, con ogni sintomo apparente di timore, diverse volte si diceva che si era rivoltata di colpo per piombare addosso alle barche, o facendole a pezzi o ricacciando i pescatori terrorizzati verso la nave. Già la sua caccia aveva fruttato parecchi disastri. Certo disgrazie simili, di cui a terra si parlava poco, non erano affatto rare nella pesca alla balena; ma nella maggior parte dei casi la feroce premeditazione della balena bianca pareva così infernale, che le mutilazioni e le morti che causava non si potevano considerare interamente inflitte da una creatura bruta. Immaginate perciò a che grado di smania e di furore venivano spinti gli animi dei cacciatori più disperati, quando scansavano a furia di braccia i grumi biancastri dell'ira paurosa della balena, in mezzo ai frammenti delle barche stritolate, tra membra che andavano a fondo, strappate ai compagni, e nuotavano nella luce del sole, serena, esasperante, che continuava a sorridere come a una nascita o a un matrimonio. Un capitano, trovandosi attorno le sue tre lance sfondate e remi e uomini che piroettavano nei gorghi, aveva afferrato il coltello da lenza dalla prua spaccata e si era buttato sulla bestia, come un duellista dell'Arkansas sul suo avversario, tentando ciecamente, con una lama di sei pollici, di raggiungere la vita del mostro che era profonda una tesa. Quel capitano era Achab. E fu allora che menandogli di sotto all'improvviso la sua mandibola a roncone Moby Dick gli aveva falciato la gamba, come fa il mietitore con un filo d'erba ai campi. Nessun turco di quelli col turbante, nessun prezzolato veneziano o malese avrebbe potuto colpirlo con più apparente malizia. C'era dunque ben poco da dubitare che dopo quello scontro quasi mortale Achab avesse nutrito un continuo desiderio selvaggio di vendicarsi della balena. Un desiderio tanto più accanito perché nella sua smania morbosa egli era arrivato al punto da identificare con la bestia non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La balena bianca gli nuotava davanti agli occhi come l'incarnazione ossessiva di tutte quelle forze del male da cui certi uomini profondi si sentono azzannare nel proprio intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e mezzo polmone. Quella malvagità inafferrabile che è esistita fino dal principio, al cui regno perfino i cristiani d'oggi attribuiscono metà dei mondi, e che gli antichi Ofiti dell'oriente veneravano nel loro demonio di pietra, Achab non cadeva in ginocchio per adorarla come loro, ma ne trasferiva allucinato l'idea nell'aborrita balena bianca e le si piantava contro, così mutilato com'era. Tutto ciò che sconvolge e tormenta di più tutto quel che rimescola la feccia delle cose, ogni verità farcita di malizia, ogni cosa che spezza i tendini e coagula il cervello, tutti i subdoli demonismi della vita e del pensiero, ogni male insomma, per quell'insensato di Achab, era personificato in modo visibile e reso raggiungibile praticamente in Moby Dick. Sulla gobba bianca della balena ammucchiava il peso di tutta la rabbia, di tutto l'odio sentiti dalla sua razza fino da Adamo. Poi, come se avesse un mortaio in petto, le sparava addosso il cuore rovente. È improbabile che questa monomania fosse cominciata in lui proprio nel momento in cui il suo corpo veniva mutilato. In quel momento, gettandosi contro il mostro col coltello in pugno, aveva solo scatenato in sé un'improvvisa e appassionata avversione fisica; e quando ricevette il colpo che lo mutilò, sentì probabilmente soltanto l'atroce strappo nella carne, e nient'altro. Ma quando, obbligato da quello scontro a riprendere la via di casa, per lunghi giorni e settimane e mesi Achab e l'angoscia giacquero insieme su un'unica branda, e doppiarono nel cuore dell'inverno quel tetro e ululante Capo di Patagonia, fu allora che il corpo squarciato e l'anima ferita sanguinarono l'uno nell'altro, e mescolandosi così lo fecero impazzire. Che l'ossessione finale l'abbia preso soltanto allora, durante il viaggio di ritorno dopo la zuffa, pare assolutamente certo per il fatto che a intervalli, durante la traversata, Achab fu in preda a una pazzia furiosa; sebbene gli mancasse una gamba, nel suo petto da statua egiziana gli restava tanta forza vitale, resa ancora più intensa dal delirio, che i suoi ufficiali furono costretti a legarlo forte, proprio mentre era in navigazione, e lasciarlo vaneggiare nella sua branda. Nella camicia di forza dondolò al ballo pazzo delle burrasche. E quando la nave, entrando in latitudini più sopportabili, spiegò i leggeri coltellacci e fluttuò nei placidi tropici, quando secondo ogni apparenza il delirio del vecchio pareva fosse rimasto indietro assieme alle acque alte del Capo Horn, ed egli uscì dalla sua tana oscura nella letizia dell'aria e della luce, perfino quando mostrò quella sua fronte ferma e raccolta, solo un po' pallida, e diede di nuovo i suoi ordini pacati, sicché gli ufficiali ringraziarono Iddio perché finalmente quella terribile pazzia era superata, sempre Achab, nel suo profondo, continuò a farneticare. La pazzia umana è spesso una cosa scaltra e terribilmente felina. Quando pensi che se ne sia andata, può darsi che si sia soltanto trasformata in qualche forma ancora più subdola. La pazzia totale di Achab non si spense, ma si ritirò nel fondo senza perdere forza, come lo Hudson, quando quel nobile figlio del Nord scorre stretto ma profondissimo dentro la gola degli Altipiani. Ma come nel fluire ristretto della sua ossessione non si era perduto un briciolo della gran pazzia di Achab, così in questa sua totale pazzia non si era spenta neanche una favilla della grande intelligenza che gli era naturale. Ciò che era prima un agente vivo diventò adesso un vivo strumento. Se mi si concede un'immagine così avventata, la sua peculiare demenza diede l'assalto alla sua salute complessiva, la espugnò, e concentrò il tiro di tutti i suoi cannoni sull'unico suo pazzo bersaglio. Sicché Achab non aveva perduto affatto la sua forza, e anzi possedeva ora, per quell'unico scopo, un'energia mille volte maggiore di quella che mai aveva diretto da sano verso un unico oggetto ragionevole. Questo è già impressionante: ma non si era ancora detto nulla del lato più vasto, più cupo, più profondo di Achab.


Ora in cuor suo Achab aveva qualche sospetto di questo, e cioè: tutti i miei mezzi sono sani, il mio movente e il mio fine sono pazzi. Ma incapace di sopprimere o mutare o evitare i fatti, era però cosciente di avere simulato a lungo davanti agli uomini. E in qualche modo lo faceva ancora. Ma il suo comportamento falso era soggetto soltanto alla sua percezione, non alla sua volontà cosciente. Eppure ci riusciva così bene, a fingere, che quando con la sua gamba d'avorio scese finalmente a terra, nessuno a Nantucket vide altro in lui che un dolore naturale, e fino all'anima, per la disgrazia terribile che gli era successa. Quando si seppe con certezza del suo delirio in mare, anche questo venne attribuito da tutti a una causa simile. E così pure la nuova profonda tristezza che da allora gli gravò sempre sulla fronte, fino al giorno che Achab salpò sul Pequod per questo viaggio. E non è troppo azzardato pensare che invece di considerarlo poco idoneo a un'altra crociera a causa di quei sintomi così cupi, la gente calcolatrice di quell'isola prudente fosse invece disposta a pensare che proprio per quelle ragioni Achab era meglio qualificato, e preparato a dovere, per un lavoro così pieno di furore e di ferocia come la caccia sanguinaria alle balene. Roso di dentro e bruciacchiato di fuori, lacerato di continuo dalle zanne di qualche idea incurabile: un uomo così, a trovarlo, sarebbe il vero tipo fatto per scagliare il rampone e alzare la lancia contro il più terrificante dei bruti. E se per qualche motivo lo si dovesse considerare inabile nel fisico, parrebbe sempre adatto in modo superlativo a eccitare e aizzare i suoi subalterni all'attacco. Comunque sia è certo che Achab, con tutta la sua pazza furia serrata e sprangata nel segreto dell'animo, era partito di proposito per questo viaggio con l'unica e maniaca intenzione di dare la caccia alla balena bianca. Se qualcuno dei suoi vecchi conoscenti di terra avesse appena sospettato ciò che egli covava dentro, con che fretta le loro rette anime sbigottite avrebbero strappato la nave a un uomo così diabolico! Tutto ciò che volevano era una crociera vantaggiosa, un utile da contarsi in dollari di zecca. Ciò che voleva lui era una vendetta temeraria, spietata, ultraterrena..Ecco dunque: un vecchio grigio ed empio inseguiva maledicendo attorno alla terra una balena di Giobbe, e per giunta alla testa di una ciurma fatta sopratutto di bastardi rinnegati, di reprobi e di cannibali; un gruppo di uomini indebolito, anzi, dall'insufficienza dell'onestà o virtù isolata e senza altri aiuti di Starbuck, dalla noncuranza e dall'indifferenza così impassibili e spensierate di Stubb, e dalla mediocrità di cui Flask era tutto imbevuto. Un equipaggio simile, e con simili ufficiali, pareva scelto e assortito apposta da qualche fato diabolico per aiutare Achab nella sua vendetta maniaca. Come mai rispondessero tanto alla rabbia del vecchio, quale incantesimo malvagio si fosse impossessato delle loro anime, tanto che a volte quell'odio pareva quasi un loro odio e la balena bianca un nemico che anche loro non potevano soffrire; come mai fu possibile tutto questo, e ciò che era per loro la balena, e perché anche nel loro inconscio la bestia poté presentarsi in qualche modo misterioso e insospettato come il gran demonio che scivola per i mari della vita, per spiegare tutto questo bisognerebbe tuffarsi più a fondo di quanto non sa fare Ismaele. Quel minatore sotterraneo che lavora in tutti noi, come è possibile dire, dal rumore sempre diverso e soffocato che fa il suo piccone, dove conduce il suo pozzo? Chi non sente il braccio irresistibile che ci trascina? Quale battello può starsene fermo, se una corazzata lo rimorchia? Quanto a me, cedetti al rilassamento del tempo e del luogo; ma mentre ero anch'io tutto preso dalla smania di affrontare la balena, non riuscivo a vedere altro in quel bruto che il male più funesto.

bene, non ho letto migliaia di libri, ma questo sa dire bene dell'incantesimo malvagio che si era impossessato delle loro anime, del gran demonio che scivola per i mari della vita e che nel loro inconscio si era presentato in modo misterioso e insospettato. il demone dell'odio non può portare che rovina, e io la attendo a ogni pagina, il fantasma dell'orrore costruisce ogni giorno la su stessa disgregazione, ogni assedio diventa una prigione per chi lo apposta, come gli Achei alle porte di Ileo, assediavano ma erano assediati e prigionieri del loro stesso furore.
e così Achab attende la sua balena, attende la sua morte per farne uno spettacolo indimenticabile, ormai svuotato, solo portatore della sua angoscia, senza corpo e senza mente.


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