A Catania non vado, e soffro per questo, causa un misto di miseria, stupidità, paura, ingorgo e impedimento neuropsichico. ma l'amica antonella mi inonda di mail sul dibattito che gira intorno al tema del convegno. inonda è anche troppo poco. è uno tsunami. leggo tutto e a volte inorridisco per il compiacimento della complessità narrativa che fa di tutto per non farsi capire, e a volte rimango a bocca aperta per quanto quel che leggo mi colga preparata, in sintonia, capace di interagire con il mio di pensiero. capisco e godo.
ecco, ripropongo per intero l'intervento, saggio e colto, di questa psicoanalista lacaniana, che personalmente non conosco ma la scuola cui appartiene si, e sono certa di farmi un grande piacere inserendola qui.
questo è il mio posto, il posto dove i miei pensieri prendono la forma del discorso, dove le parole -che ritengo gli strumenti della nostra vita- si fanno portatrici del linguaggio del reale e dell'inconscio, dove le parole sono responsabilità, fanno vivere e uccidono, e in questo posto porto i discorsi che mi piacciono.
Prostituzione della parola
Cristiana Santini
Due temi riempiono le pagine dei giornali negli ultimi tempi: morte e prostituzione. C’è da chiedersi se dipenda da un aumento delle due o da un interesse particolare verso tali argomenti. La cosa non cambia.
Nel tempo della globalizzazione, trasformata in omogeneizzazione, tutto sembra essere solo oggetto di mercato. Oggetto che si può vendere, che si può acquistare. La parola non è immune a questo destino. Venduta. Prostituita.
La situazione Italiana rivela, meglio di altre, questa tendenza, propria di tempi segnati dalla logica consumistica: la prostituzione. Appare ovvio, da un punto di vista psicoanalitico, che ove la parola non costituisce più un bene prezioso, tale per cui “dare la parola” sia indice di impegno e garanzia della implicazione del soggetto nei suoi detti, il soggetto stesso si perde. Non trova più un ancoraggio nel simbolico, per costituirsi parte civile nel processo istituito contro la sua particolarità. Diviene oggetto e, in quanto tale, merce di scambio.
Fa riflettere, e non è un caso, che i risultati di una ricerca sulla quantità di avvocati in Italia ne rivelino un numero tale che, nel solo circondario di Roma, se ne trovano tanti quanti in tutta la Francia. Anche nel caso della più semplice incomprensione c’è il ricorso alla legge. La sensazione diffusa è che non ci sia più possibilità d’intesa con l’altro. Una sorta di “paranoicizzazione” dei rapporti, che induce a fare appello al terzo perché riduca l’immaginario che dilaga ove il simbolico non tiene più. Ma anche il ricorso alla legge non tiene, poiché è fatto non in nome di una idealizzazione della giustizia, al contrario con l’obbiettivo di asservirla alle proprie ragioni e utilità, eliminando la sua funzione di limite al plsusgodere di ciascuno. La legge perde la sua dimensione simbolica, solo parole che si possono girare e rigirare come si preferisce, alla maniera dell’azzeccagarbugli manzoniano, tutto sta a sfruttare la loro innata ambiguità. Coloro che colgono la gravità della situazione fanno appello alla costituzione, alla patria, alla storia, nel tentativo di reintrodurre del simbolico che restituisca consistenza alle parole.
Gli ultimi avvenimenti della politica italiana danno la misura dello sgretolamento del simbolico. Le singole storie svelano padri che, anziché incarnare la funzione di limite al godimento, facendosi sembianti di un ordine, di una legge protettiva rispetto al reale della pulsione, autorizzano al godimento fuori-legge, che anzi si fa legge.
L’uso della parola nei mezzi di comunicazione subisce il massimo sfruttamento. Ciascuno parla, scrive, senza vergogna, senza pudore, come se non avesse nulla da perdere, nulla a che fare con ciò che dice o di cui lascia traccia su di un foglio. Parole usate per incantare, addormentare, confondere, insultare, in una guerra apparentemente senza morti, perché la parola è stata disinnescata e non “uccide” più, come si diceva un tempo, perché non rappresenta alcuno presso un qualche ordine simbolico condiviso. Purtroppo se non ci sono vittime non è perché tutti sono salvi, ma perché tutti sono già morti. Dove non si tiene conto del reale della castrazione, non c’è desiderio, quindi non c’è soggetto, non c’è vita, solo corpi illusi di vivere perché impegnati a consumare.
Paola Turroni, poetessa, per la quale la parola è una cosa molto seria, scrive nel suo Il mondo è vedovo:
“Guardati nudo, mostrati orgoglioso, le tue ferite son
La loro vergogna, mostra il vuoto di quello che hanno preso.
Questi corpi spellati si seccano, come arringhe, come funghi.
Corpi stesi secchi, messi alla prova
Destinati alla terra.
Tieni la paura della morte-tu che la provi come cicuta
Una goccia per volta. La morte è tenere l’attenzione.
Tieni la paura, fai sosta prima del valico
La morte è il limite che serve a bilanciare.
Sono i morti, il numero dei morti, che fa la differenza
-il loro prestigio.”
La morte serve a bilanciare. Le ridondanti notizie sulle morti, sui morti che ovunque coprono la terra, servono a bilanciare? Dove la parola è disinnescata, dove il simbolico frana, dove non c’è limite al godimento, il reale imperversa, graffia, ritorna. Cosa più della morte lo rappresenta.
E la psicoanalisi? La psicoanalisi rischia di essere travolta dalla prostituzione della parola se anch’essa si perde nella sua dimensione di senso e non ne coglie la funzione di segno, se affoga nell’enunciato e non punta il dito sull’enunciazione. Il soggetto è un vuoto, che le parole non riescono a prendere né a spiegare, ma del cui passaggio possono costituire la traccia, affinché egli non si riduca solo a un corpo che si “secca come arringa”.
Chi ha conosciuto Jacques Lacan non ha scuse. Egli non lascia dubbi su questo punto. Pur nella difficoltà della lettura, i suoi testi offrono strumenti per fare diagnosi e cura del male che ha reso mute le parole.
La medicina cerca di tenere in vita corpi che sono sempre più vuoti. La psicologia e un certo modo d’intendere la psicoanalisi cerca di curare quei vuoti riempendoli di parole, di spiegazioni, di senso. Una progressione infinita, che conduce all’implosione, creando voragini o deserti. La psicoanalisi del reale, quella che indica Lacan, è un artiglio che ferisce le pareti viscide di quel vuoto, non lo riempie, lo arpiona in qualche sua parte, ciascuno la sua, perché da quell’aggancio si possa fare qualcosa di singolare della propria esistenza. L’uso della parola in questa logica è segnato dalla responsabilità di chi la pronuncia, da una posizione etica rispetto alla propria posizione, rispetto all’atto di dire, alla propria condizione di essere-parlante, di essere in quanto parlante e non viceversa.
La testimonianza di chi abbia fissato il suo arpione, nel proprio lavoro di analista o occupando posti diversi in cui la psicoanalisi trova un suo utilizzo, può offrire un’occasione: un orizzonte alternativo all’illusione mortifera di una vita senza perdite, senza limiti, senza ferite, piena fino all’orlo, che affoga il desiderio e quindi il soggetto. Ma occorre “guardarsi nudi , mostrarsi orgogliosi” perché “le tue ferite sono la loro vergogna”, occorre “tenersi la paura della morte”, non negare il reale della castrazione. Occorre aver fatto un’analisi ed essere rimasti analizzanti di fronte al proprio inconscio.
venerdì 3 giugno 2011
Prostituzione della parola
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2 commenti:
scusami se posto da anonimo... lo faccio anche per pigrizia (del resto, diro' cose assolutamente innocenti), ma soprattutto perche' voglio esaltare la materialita' e concretezza di quello che dico, a scapito della possibile relazione che si instaurerebbe tra quello che io dico e quello che una mia identita', comunque denominata, potrebbe rappresentare.
Dopo questa premessa, chiedo, tout court:
ma perche' Cristiana Santini ci regala questa lunghissima prolusione sulla sostanziale inutilita' della parola dopo aver constatato -e su questo concordo- che non esiste piu' un modello dialettico realmente capace di incidere sul mondo reale?
I simboli ed i simbolismi non sono piu'.
Li' le identita' individuali si schieravano e formavano degli "insiemi" abbastanza omogenei.
Ora esistono miliardi di microcosmi (i nostri rocciosi, granitici super-IO), impenetrabili, non comunicanti, che non condividono piu' alcunche', men che meno i comuni archetipi (simboli) che ci condurrebbero a distinguere tra bene e male.
Un po' mi sento preso in giro.
Ma credo che sia solo colpa mia (e del mio super-IO)
Cmq ti abbraccio, anche se non ti conosco e non ti conoscero' mai.
Mi piace il tuo blog
Se proprio ti manca (e credo di si'....) chiamami e ricordami come... boh... vediamo....
Ryan, dai.
Ciao
PS -tra parentesi- (oh, guarda che sono uno molto grezzo, di cultura medio-bassa.. piu' bassa che medio per la verita'. Quindi, sii comprensiva)
beh anch'io Ryan (??), o Ryan dai, sono di cultura medio bassa. traggo in inganno solo perche' sono curiosa.
non penso che cristina santini mi, ci, volesse dire che la parola e' inutile. direi che come lacaniana non potrebbe mai dire una cosa del genere. e nemmeno io, che lacaniana non sono, per quanto a volte tremendamente affascinata da quel pansiero.
la parola e' tutto, ed e' il regno del simbolico per eccellenza.
temo che volesse dirmi, o dirci, che il cattivo uso imperante la svuota la depaupera la rende zoccola la svende. ma rimane il luogo senza il quale nessuno puo' riconoscersi e riconoscere l'Altro.
almeno io ho capito questo.
ti abbraccio anch'io -il che e' una strana cosa, affidare il senso di un linguaggio non verbale a una parola.
Rossa
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