Di passaggio in passaggio, senza rendermene conto, mi sentii prima sospinta
verso un’adesione imbronciata, poi verso una rinnovata ammirazione per lei. Ma sì,
sarebbe stato bello se si fosse rimessa a studiare. Tornare ai tempi delle
elementari, quando lei era sempre la prima e io sempre la seconda. Ridare senso
allo studio perché lei sapeva dargli senso. Tener dietro alla sua ombra e perciò
sentirmi forte e al sicuro. Sì sì sì. Ricominciare.
A un certo punto, lungo la strada verso casa, mi tornò in mente l’ibrido di
sofferenza, spavento, disgusto che le avevo visto in faccia. Perché. Ripensai al
corpo in disordine della maestra, a quello sgovernato di Melina.
Senza una ragione evidente, cominciai a guardare con attenzione le donne lungo
lo stradone. All’improvviso mi sembrò di essere vissuta con una sorta di
limitazione dello sguardo: come se fossi in grado di mettere a fuoco solo noi
ragazze, Ada, Gigliola, Carmela, Marisa, Pinuccia, Lila, me stessa, le mie compagne
di scuola, e non avessi mai fatto veramente caso al corpo di Melina, a quello di
Giuseppina Peluso, a quello di Nunzia Cerullo, a quello di Maria Carracci. L’unico
organismo di donna che avevo studiato con crescente preoccupazione era quello
claudicante di mia madre, e solo da quell’immagine mi ero sentita incalzata,
minacciata, temevo tuttora che essa s’imponesse di colpo alla mia. In
quell’occasione, invece, vidi nitidamente le madri di famiglia del rione vecchio.
Erano nervose, erano acquiescenti. Tacevano a labbra strette e spalle curve o
urlavano insulti terribili ai figli che le tormentavano. Si trascinavano
magrissime, con gli occhi e le guance infossate, o con sederi larghi, caviglie
gonfie, petti pesanti, le borse della spesa, i bambini piccoli che le tenevano per
le gonne e che volevano essere presi in braccio. E, Dio santo, avevano dieci, al
massimo vent’anni più di me. Tuttavia parevano aver perso i connotati femminili a
cui noi ragazze tenevamo tanto e che evidenziavamo con gli abiti, col trucco. Erano
state mangiate dal corpo dei mariti, dei padri, dei fratelli, a cui finivano sempre
più per assomigliare, o per le fatiche o per l’arrivo della vecchiaia, della
malattia. Quando cominciava quella trasformazione? Con il lavoro domestico? Con le
gravidanze? Con le mazzate? Lila si sarebbe deformata come Nunzia? Dal suo viso
delicato sarebbe schizzato fuori Fernando, la sua andatura elegante si sarebbe
mutata in quella a gambe larghe, braccia scostate dal busto, di Rino? E anche il
mio corpo, un giorno, si sarebbe rovinato lasciando emergere non solo quello di mia
madre ma quello di mio padre? E tutto ciò che stavo imparando a scuola si sarebbe
disciolto, il rione sarebbe tornato a prevalere, le cadenze, i modi, tutto si
sarebbe confuso in una mota nerastra, Anassimandro e mio padre, Folgóre e don
Achille, le valenze e gli stagni, gli aoristi, Esiodo e la sboccatezza proterva dei
Solara, come del resto era accaduto nei millenni alla città, sempre più scomposta,
sempre più degradata?
Mi convinsi di colpo che senza accorgermene avevo intercettato i sentimenti di
Lila e li stavo sommando ai miei.
Perciò aveva quell’espressione, quel malumore? S’era accarezzata la gamba, il
fianco, come una sorta di addio?
Si era tastata, parlando, come se sentisse i confini del suo corpo assediati da
Melina, da Giuseppina, e ne fosse spaventata, disgustata? Aveva cercato i nostri
amici per bisogno di reagire?
Mi ricordai il suo sguardo, da piccola, sulla Oliviero caduta dalla cattedra
come una pupazza rotta. Mi ricordai il suo sguardo su Melina che mangiava lungo lo
stradone il sapone molle che aveva appena comprato. Mi ricordai di Lila quando
raccontava a noi bambine l’omicidio, il sangue lungo la pentola di rame, e
sosteneva che l’assassino di don Achille non era un uomo ma una donna, come se
avesse sentito e visto, nel racconto che ci faceva, la forma di un corpo femminile
spezzarsi per necessità d’odio, per urgenza di vendetta o di giustizia, e perdere
la sua costituzione.
siamo nella Storia del nuovo congnome, siamo a casa di Elena Ferrante.
e ancora mi sento spiazzata da questo stralcio di letteratura.
sottolinea pensieri sempre presenti sul corpo delle donne, lo declina in modo straordinario.
siamo il corpo delle nostre madri, forse di tutte le madri del mondo, siamo un corpo che testimonia la storia delle nostre antenate, oppure siamo capaci di diversificarci, di uscire da quella traccia e fare di noi un corpo nuovo? fuori dai solchi della miseria e del degrado, emancipate dalla cultura e dalla fatica dello studio, verso una nuova era?
la storia del cognome sarà storia antica? perderemo le tracce dei nostri padri, gli aberi genealogici si sfalderanno, non troveremo più i significanti della nostra discendenza ora che i cognomi dei padri si perderanno nelle nuove normative giuridiche che prevede anche l'acquisizione del cognome della madre? il cognome del padre dobbiamo viverlo solo come un'imposizione imperialista e maschilista del sesso dominatore e usurpatore o contiene la storia dei nostri significanti familiari?
certo la storia del nostro corpo è segnata da quello delle nostre madri. è in quel seno, in quella piega, in quella ruga, in quel ventre, in quel vestito, in quello stile, in quel modo di camminare e di parlare che siamo cresciute e abbiamo imparato, o no, il valore della femminilità.
chi sono?
che donna sono?
come si fa a essere una donna?
sembrano domande scontate.
vi assicuro.
non lo sono affatto.
le donne si perdono dietro al proprio corpo e alla sua immagine, si perdono in abissi di dolore e di esistenze perdute mai vissute vituperate smarginate sfregiate, non dagli acidi o dagli abusi degli uomini, soprattutto a causa degli sfregi che si sono inflitte, cicatrici di ferite mai ricomposte.
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