Restavo sdraiato lassù, come su un palco aereo. Appesi al muro,
tutt'intorno al letto, erano i corpi delle volpi uccise di fresco. Sentivo il
loro odore selvatico, vedevo i loro musi arguti all'ondeggiare rossastro
delle fiamme, e muovendo appena la mano, toccavo il loro pelame che
sapeva di grotta e di bosco. Dalla porta mi giungeva il lamento continuo
del moribondo: – Gesù aiutami, dottore aiutami, Gesù aiutami, dottore
aiutami, – come una litania di angoscia ininterrotta, e il sussurro delle
donne in preghiera. Il fuoco del camino oscillava, guardavo le lunghe
ombre muoversi come mosse da un vento, e le tre figure nere dei
cacciatori, coi cappelli in capo, immobili davanti al focolare. La morte era
nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l'umiliazione della mia
impotenza. Perché allora una così grande pace scendeva in me? Mi pareva
di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni
determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo
celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza
dell'albero: tendevo l'orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d'un
tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata,
era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.
Verso l’alba il malato si avviò alla fine. Le invocazioni e il respiro si cambiarono in un rantolo, e anche quello si affievolí a poco a poco, con lo sforzo di una lotta estrema, e cessò. Non aveva ancor finito di morire che già le donne gli abbassavano le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d’improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scomposero le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie, e cominciarono a danzare a gran passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando, su una sola nota altissima, il racconto della morte. Ogni tanto si affacciavano alla finestra, gridando in quell’unico tono, come ad annunciare la morte alla campagna e al mondo; poi tornavano nella stanza e riprendevano il ballo e l’ululato, che sarebbe continuato senza riposo per quarantott’ore, fino all’interramento. Era una nota lunga, identica, monotona, straziante. Era impossibile ascoltarla senza essere invasi da un senso di angoscia fisica irresistibile: quel grido faceva venire un groppo alla gola, pareva entrasse nelle viscere. Per non scoppiare a piangere mi congedai in fretta ed uscii, con Barone, alla luce del primo mattino.
Cristo si è fermato a Eboli.
Carlo Levi
qualcosa si muove in Carlo Levi, verso la fine del libro. alla dimensione descrittiva, distaccata, si aggiunge un colore emotivo, una felicità, un'angoscia, un'esperienza di morte che esalta la vita, le restituisce il mandato di felicità, di "infinita pienezza".
il luogo in cui cristo non si è fermato è il luogo in cui la civiltà non ha trovato istanza, sopratutto in luogo in cui il simbolico diventa reale, in cui le ombre della morte sono la morte, le maschere di carnevale sono il diabolico, in cui la natura è magica e funesta: "Non c'è posto per la religione,
appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e
non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la
capra. Tutto è magìa naturale".
in questo luogo la morte del malato si incarna, si presentifica, violentissima. se si supera lo sgomento, se si sopravvive allo schianto, alla percezione del cuore stesso del mondo ne segue, immenso, il senso di sollievo.
in questo luogo la morte del malato si incarna, si presentifica, violentissima. se si supera lo sgomento, se si sopravvive allo schianto, alla percezione del cuore stesso del mondo ne segue, immenso, il senso di sollievo.
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