e insisto sulla fotografia, questa volta quella che mi ha presentato Giorgia Fiorio al Festival delle donne, settimana scorsa.
la Fiorio è uno strano personaggio, di grandissimo talento, ma dall'aspetto e dall'eloquio sofferente.
dall'aura inquieta e tormentata, magrissima (più della prima volta in cui l'ho vista 4 anni fa), lo sguardo vaga, mentre parla non fissa, gli occhi non si soffermano volgono altrove, la parola è ridondante incomprensibile farcita. rispetto al mio primo incontro con lei qualcosa è cambiato oppure sono cambiata io (http://nuovateoria.blogspot.it/2010/12/il-dono.html)
parlasse più libera e meno incatenata da aggettivi che si rincorrono complicati ed eccessivi e mostrasse il suo sapere con meno spinta ad apparire e mostrarsi istruita sarebbe solo una grande artista.
espone le foto di tre donne (ma mi hanno colpita solo due) delle quali ha seguito il lavoro di formazione e, sia nel discorso introduttivo, sia nella presentazione delle foto, si perde dietro un eloquio che complica e non si spiega, che si concentra sulla sua voluta complessità e non sul desiderio di spiegarsi.
peccato.
scremando molto e concentrandomi per cogliere almeno uno dei cento aggettivi che spreca, si coglie il desiderio di rivalutare la fotografia come lavoro sulla figura di contro all'attuale evoluzione della nostra società senza padre a più godere, anche nelle immagini, scostumate, inutili, svendute, sventrate, ripetute, senza senso. un eccesso di immagini e una consegna assoluta al supporto virtuale, all'oggetto cellulare o ipad che sia con il quale ormai ci identifichiamo completamente, a discapito del valore insostituibile della memoria.
se tutto va ricordato, niente si ricorda più. se tutti i momenti sono speciali, nessuno lo è più, se tutto va fotografato e postato, nulla ha più un valore, nulla ci fa stupire. per esserci, per esistere, l'imperativo è dare testimonianza, prova visibile inconfutabile, della propria presenza, immediata, commentata, supportata, e nulla viene interiorizzato facendone tesoro.
se tutto va ricordato, niente si ricorda più. se tutti i momenti sono speciali, nessuno lo è più, se tutto va fotografato e postato, nulla ha più un valore, nulla ci fa stupire. per esserci, per esistere, l'imperativo è dare testimonianza, prova visibile inconfutabile, della propria presenza, immediata, commentata, supportata, e nulla viene interiorizzato facendone tesoro.
bene, ha ragione, sono d'accordo con lei. allora una fotografia ragionata, pensata, maturata, sviluppata all'interno di un discorso personale ha un valore insostituibile in un mondo di godimento malato autoreferenziato che tutto vuole, tutto e subito.
tra le fotografe che presenta una è Anne-Lise Cornet, pseudonimo Modi, francese.
l'altra è Gihan Tubbeh, peruviana.
due lavori diversi, molto diversi, la prima mi comunica un distacco pensato, anche troppo, dalle cose, l'altra un invischiamento sofferente con la realtà. la prima è limpida, chiara e trasparente, le seconda sfuocata, agitata, forse angosciata, cupa. due sguardi sul mondo, due atti di vera testimonianza, un dono (e la Fiorio ne ha fatto un lavoro magistrale) apprezzabile in un mondo che del dono non ha più conoscenza.
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