giovedì 25 novembre 2010
calcolare o decodificare?
convegno... ancora? ancora.
studiare e aggiornarsi per mantenere intatta la consapevolezza della propria assoluta imperfezione e incompiutezza. la formazione serve a questo, a sapere che non saprai mai abbastanza.
interviene il solito psichiatra pisano, scuola cassano, e mi dico...che pazienza!
la sua psichiatria è algebrica, matematica. un'equazione perfetta. si augura, il pisano, di arrivare un giorno, grazie allo studio della genetica, a poter prevedere, senza colpo ferire, il farmaco giusto, alla dose giusta, per ogni singolo paziente. niente errori, lui pensa, nessuna perdita di tempo, lui pensa, nessuna dispersione, così crede. la psichiatria agisce come una freccia sul bersaglio, la psichiatria svolge il compito dovere di curare la malattia mentale facendo tornare i conti in modo esatto. la psichiatria è, o se ancora non è, sarà, scienza.
a me viene un capogiro, penso...intervengo...ma no, sei matta (...), cosa vuoi dire?
io spero, collega pisano, che quel giorno non arrivi mai. o forse, potrei dire contraddicendo ciò in cui credo, di avere la certezza che non arriverà.
l'argomento del convegno erano i famigerati pazienti bipolari. certo è vero, se ti trovi al pronto soccorso con un giovane bipolare, lasciato una settimana prima dalla fidanzata, strafatto di cocaina -come spesso i giovani pazienti bipolari- che picchia ripetutamente la testa contro il muro procurandosi emorragie inarrestabili e con il chirurgo che nemmeno ti saluta e dice: SEDALO, non c'è molto spazio per il pensiero analitico. c'è spazio solo per una fiala intramuscolo di talofen. la psichiatria è anche questo, è emergenza, è agitazione psicomotoria incontrollabile, è devianza che non sente parola.
ma.
c'è poi un tempo in cui la necessità incontrovertibile dell'intervento medico chirurgico lascia spazio al dubbio, alla domanda, all'indagine, alla decodificazione di un linguaggio.
oltre al calcolo scientifico del gene che detta la catena proteica del trasportatore della serotonina, la psichiatria deve, ha il dovere morale, di muoversi nell'incertezza. ogni paziente è una storia e una relazione. ogni paziente è diverso dall'altro, possiede legami che lo hanno costruito, esprime un'emotività con sigle e codici del tutto personali, definisce un enigma che richiede un paziente lavoro di ricomposizione dei pezzi e della loro reciproca posizione. la mente è inconoscibile e contenuta in una scatola che non ha trasparenze. poterci entrare dentro è un percorso al buio, pensare di illuminarlo con il calcolo matematico non solo è inutile ma anche fuorviante e presuntuoso.
e infatti, come suggerisce l'altro polo della psichiatria presente allo stesso convegno, ovvero lo psichiatra psicodinamico della ben più umile milano, i pazienti bipolari hanno una modalità di legame con il proprio terapeuta assolutamente unica nel contesto delle tipologie dei pazienti. sono affettivi e quindi sintonici, chiedono aiuto e poi lo sfuggono, chiedono stabilità ma non sanno rinunciare alla disponibiltà infinita di energie della mania, sono creativi e immaginifici in modo sorprendente.
e sarà su questo, per me, e non sul calcolo infinitesimale della risposta farmacologica esatta, sarà sul rapporto, sarà sul tranfert, sarà sulla ricerca e l'errore e la sfida, sarà sulle risorse e sui cedimenti, sarà sul mistero che si potrà costruire la possibilità di una domanda di cura per quel paziente, a partire da quel pronto soccorso.
sarà questo che ho pensato e imparato a questo convegno?...anche.
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martedì 23 novembre 2010
a single man
cio' che ci permette di vivere e' la ripetizione di un gesto d'amore, e cio' che ci aiuta a sopravvivere alla sofferenza e alla tentazione della resa e' la speranza di poterlo rivivere.
ma bisogna saperlo cogliere, quel gesto nel momento in cui si ripete, e saziarsene, potrebbe essere tardi, altrimenti.
ho visto della luce in questo film, che mi ha ricordato Hopper, oltre all'eleganza di Tom Ford.
e assunto endovena musiche, di Umebayashi Shigeru.
ma bisogna saperlo cogliere, quel gesto nel momento in cui si ripete, e saziarsene, potrebbe essere tardi, altrimenti.
ho visto della luce in questo film, che mi ha ricordato Hopper, oltre all'eleganza di Tom Ford.
e assunto endovena musiche, di Umebayashi Shigeru.
domenica 21 novembre 2010
Berliner Mauer
"along the wall", breve mostra fotografica, a milano, di Alesandro Vicario.
muro di berlino sullo sfondo, fisso, riconoscibile, immobile, e gente che passa, davanti, mossa, impercettibile.
la storia ci fa da sfondo e, a un certo punto, non la vediamo piu'.
la vita prende sempre il sopravvento su tutto.
la storia e' fissa, la vita e' mobile.
a volte gli scatti sono sorprendenti, a volte non si distingue piu' l'ombra dal reale.
il piede e' fermo, e' consistente, la figura e' solo ombra, impalpabile.
e il muro sostiene l'ombra.
una bella metafora.
resti di muro, sostegni scarnificati, crepe, e, dietro, inarrestabile, la vita, la strada, le macchine.
questa mostra forse non l'avrei nemmeno vista non fosse stato per un compagno del corso di fotografia.
manuele. venerdi' scorso scrive, a tutti, una mail. ciao a tutti, sono M., guardate qui...bella no? andiamo a vederla sabato prossimo e poi ci facciamo un aperitivo o una cena?
gagliardo!! questo ho pensato. inusuale! anche questo ho pensato. socievole. coraggioso. propositivo. chi sei tra tutti?
siamo in venti o poco piu' al corso, alla mostra in cinque.
poche risposte, pochissime adesioni, un pomeriggio di sabato piacevolissimo.
mostra, foto, commenti e opinioni, chiacchiere tra chi non si conosce ma condivide un interesse, pioggia, simpatico locale e ottimo aperitivo.
faccio domande, more solito, e scopro che manuele non e' di milano. e' di la spezia e ama la montagna. ha vissuto otto anni a parma prima di venire a milano, 4 anni fa, e confondersi nella nebbia.
un impatto difficile, mi dice. ci credo, dico io.
ora ho capito, gli dico, ho capito perche' un invito cosi' poteva venire solo da te.
milano e' una galera e i milanesi una razza bastarda.
la risposta all'invito lo dimostra. la gente non comunica, non condivide, non lancia inviti a sconosciuti con naturelezza e voglia di incontro. no. a milano no.
milano rimpicciolisce tutto, minimizza la vita e spoglia la realta' dell'opzione della vicinanza.
solo chi viene da ben altre realta' e dimensioni mantiene la spontaneita' del vivere comunitario, la semplicita' di un invito a conoscersi, a condividere, a collaborare.
a milano i milanesi il muro di berlino ce l'hanno dentro.
sono stata contenta ieri, sono contenta di scoprire che lungo il muro c'e' ancora vita che pulsa.
giovedì 18 novembre 2010
departures
non mi aspettavo niente da questo film, o forse non sapevo cosa aspettarmi. avevo scarsissime informazioni, solo "vale la pena" di vederlo, solo che si aggirava intorno alla morte. o meglio, ai morti.
un film sulla morte che parla di vita. il meglio arriva quando non l'aspetti, l'assenza di previsioni o pregiudizi esalta la purezza dell'ascolto e della visione.
l'accettazione della morte, della fisicità della separazione, e il dialogo con i morti, con la corporeità senza vita, aprono la via alla serenità. alla pacificazione.
il protagonista del film, ambientato in giappone, si occupa di tanatocosmesi, ovvero la composizione della salma, la sua preparazione e cura prima della cremazione. il corpo al momento della morte porta i segni del dolore, della stanchezza, della malattia e la funzione del protagonista è di lavarlo, vestirlo, truccarlo, profumarlo e restituirgli una bellezza originaria. un rituale di passaggio, un'apertura del cancello, un percorso alla presenza dei cari, un'operazione liturgica di contatto con la morte, di accettazione della sua concretizzazione, di pacificazione con l'evento, di risoluzione dei conflitti.
il film mi ha ricordato un'episodio della mia carriera studentesca, una lezione di anatomia patologica, parliamo di secoli fa. aula ad anfiteatro gremita di studenti e un corpo, un cadavere al centro della sala. mi ricordo le parole del professore, me le ricordo tra milioni di parole che ho ascoltato e studiato per un'infinità di anni. mi ricordo quel corpo e quel medico che ci dice, che mi dice, che del corpo, morto, bisogna avere rispetto. che quel corpo, morto, porta dentro di sè una storia, una vita, gli amori, i dispiaceri, i lutti, magari i figli e, ovviamente, le malattie. ricordo che a quel corpo diede un nome: questa e' la sig.ra Maria. ricordo che ne fece un resoconto clinico, ricordo che ne parlo' con osservanza, ricordo che spiegando la toccava, con quel gesto di confidenza e rassicurazione che a volte hanno i medici al letto dei malati. L'apertura di quel corpo, l'analisi dei suoi organi interni, la ricostruzione di un'esistenza, di uno stile di vita, di una genetica, di un'ereditarietà e di una acquisizione ambientale, non hanno procurato in me nessuna negazione, nessun rifiuto. ho guardato, osservato, studiato e capito sapendo che di quel corpo avevo riguardo, di quel corpo ne riconoscevo il bagaglio e l'esperienza. capivo che quel corpo mi stava aiutando. capivo che stavo imparando.
e da allora non ho mai più avuto nessun timore di un corpo senza vita, ovviamente conseguente a una morte naturale e non violenta, perchè non ne ho più avuto soggezione. non dico che mi sono fatta una partita a carte con la paura della morte, direi una bugia colossale, io tremo, ma la morte fisica obiettivata in un corpo esanime non mi sgomenta.
questo film racconta di un passaggio importante nell'accettazione della morte, racconta del contatto necessario con il corpo di chi abbiamo amato e di come, nel rispetto di quella fisicità ancora presente, possiamo ripercorrere, come nella ricomposizione del cadavere, un percorso fatto insieme, una storia vissuta accanto, una riconciliazione con chi abbiamo amato ma magari non capito.
paradossalmente il contatto crea la distanza necessaria, l'intimità produce il distacco che consente l'addio. ed e' questo paradosso che mi interessa.
sembra che la vita a volte sia cieca, e la morte possa essere illuminante.
se ci penso mi dico che nella nostra vita, quella che pulsa e pompa sangue dentro me che scrivo, di voi che leggete ora, di chi concepisce e partorisce in questo momento, di chi crea un quadro o cammina verso scuola, la morte che ci riguarda non e' ovviamente la nostra ma quella degli altri. la nostra e' una previsione, e' un fantasma, e' un mistero inconoscibile che rimarra' tale, quella degli altri e' tangibile, fisica, e' presenza che diventa assenza, e' dolore e solitudine. ma la continua elusione della morte e' ogni volta una sua evocazione, ogni tentativo di aggirarla e' un suo radicamento dentro di noi. guardarla, accettarla, toccarla e' un modo, una modalita' eventuale, per avvicinarsi e sentirla meno opprimente.
i personaggi del film sembrano toccati da questo destino, quel lavoro, inizialmente vissuto come umiliante e sporco, imbarazzante e infimo, restituisce dignità e forza al protagonista. a parte il finale prevedibile e alcuni simbolismi troppo elementari, il film crea con convinzione la dimensione del confronto con la morte -e questo passaggio ci riguarda tutti e dico tutti prima o poi- che apre la strada a una visione lungimirante e riconciliata della vita.
giovedì 11 novembre 2010
l'opera mia piu' bella
“Delle mie opere, quella che mi piace di più è la Casa che ho fatto costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti di canto non favoriti dalla fortuna, o che non possedettero da giovani la virtù del risparmio. Poveri e cari compagni della mia vita! Credimi, amico, quella Casa è veramente l’opera mia più bella”.
Così scrive Giuseppe Verdi in una lettera all’amico Giulio Monteverde.
quella Casa è la casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi di Milano. mi ci sono trovata dentro, pur vedendola da fuori non so quante volte abitandoci molto vicino, per un corso di aggiornamento: la depressione nell'anziano.
scelta illuminata, lo devo dire, come pure la qualità del corso, me ne devo stupire.
entro nella Casa e mi dirigo verso la portineria. e chi incontro? un'anziana, musicista suppongo, che chiede informazioni. è curva, ha il bastone, ha uno scialle sulle spalle. ecco, questo non è, di solito, l'ambiente in cui si svolgono i convegni. la medicina si prende molto sul serio e si concede, di prassi, sedi all'altezza della sua prosopopea.
ma questa volta sono entrata in una dimensione magica, forse, finalmente, la medicina, o meglio la psichiatria, riconosce la dimensione artistica e creativa che la sottende. solo sottende, di fatto la psichiatria si occupa di sofferenza e ferite, come tutto il resto della medicina.
questo incontro mi ha benevolmente stupita e mi ha consegnato l'aspettativa di una giornata diversa. ed è stata, in effetti, unica.
supero un portone e intravedo una chiesa in fondo al cortile, salgo una scala, che potrebbe essere quella di un vecchio palazzo e, effettuata l'iscrizione, entro in uno splendido salone con un pianoforte sul fondo, oltre a un banco spoglio, un proiettore e un telo per le diapositive. sottotono direi, l'apparecchiatura, ma non certo l'ambiente: affreschi con immagini di persone illustri, suppongo. come poi scopro, sono gli otto musicisti italiani ritenuti meritevoli della più alta lode e amicizia da parte di Verdi stesso, vedi Giovanni Pierluigi da Palestrina, Claudio Monteverdi, Gioachino Rossini.
è inusuale trovarmi lì, in quel bell'ambiente ottocentesco, con le finestre grandi e gli spazi ampi, con i mobili che ricordano le nostre vecchie case, ma con qualcosa di importante e solenne, e mi ci ritrovo come in una casa della memoria che vorremmo lasciar sempre intatta e custodire con rispetto.
il convegno è ragguardevole per completezza e approfondimenti ma le notizie più importanti non lo riguardano: per chi lo desidera all'intervallo ci sarà una visita guidata e, udite udite, alla fine della giornata di lavoro alcuni residenti della struttura suoneranno per noi.
prima fitta di emozione, anziani musicisti che suonano per psichiatri tromboni che dissertano sugli abissi della loro veneranda età.
ma agli abissi corrispondono le vette, ricordatelo Rossa.
all'intervallo mi fiondo come una scolaretta al punto di ritrovo e mi accodo alla visita. la cosa triste è che a milano c'è un posto così ricco di storia e di cultura e io non lo sapevo -e chissà quanti altri non ne conosco-, la cosa bella è che oggi l'ho scoperto e una giornata novembrina si fa luminosa.
scopro l'immensa generosità di Verdi, artista universalmente riconosciuto e anche uomo di altissima levatura morale e onestà intellettuale. una vita dedicata all'arte e al sostegno di chi non ha avuto fortuna. una vita di grandissima sofferenza, perse moglie e figli nel giro di 4 anni, e di straordinario riscatto. sosteneva giovani artisti, pittori e scultori comprandone le opere sconosciute, viveva in modo sobrio e ritirato e, alla fine della sua vita, si dedicò alla costruzione della Casa. a quei tempi gli istituti per anziani non si chiamavano case ma ospizi. una gran bella intuizione direi, cambiare un nome a volte significa incidire sulla sostanza. scopro che dalla sua costruzione oltre mille artisti vi hanno dimorato, suonando e coltivando la loro arte e trascorrendo la loro vecchiaia in totale libertà e autonomia, e che, a partire dal 2013, dopo le opere di restauro programmate e rese possibili da ponderosissime donazioni, saranno ospitati fino a 80 anziani. scopro che la Casa ospita anche 16 giovani artisti, per lo più stranieri, che vivono a milano per portare avanti i loro studi musicali.
e questa corrisponde alla seconda fitta di emozione: scendendo le scale che dalla cappella portano al cortile mi imbatto in un giovane. è di spalle, in una sala circondata da ampie finestre, esposta, visibile, suona il piano e si esercita. studia. una casa di riposo che coltiva il futuro, straordinario. anziani che insegnano ai giovani, esemplare. sorrido perchè sono commossa, a volte l'emozione storpia il viso.
scopro che verdi è sepolto lì. vicino alla sua secoda moglie, in una cripta coperta di mosaici. ci sono figure eroiche e figure retoriche, amore, disperazione, pianto e vecchiaia, gli elementi della sua opera, l'amore umano quello mistico e quello umoristico. c'è una lastra che ricorda la prima moglie e i figli, i cui resti non sono stati ritrovati ma almeno qui ricordati. e una citazione di D'annunzio che, alla sua morte, compose una poesia per lui:
...
Ci nutrimmo di lui come dell’aria
libera ed infinita,
cui dà la terra tutti i suoi sapori.
La bellezza e la forza di sua vita,
che parve solitaria,
furon come su noi cieli canori.
Egli trasse i suoi cori
dall’imo gorgo dell’ansante folla.
Diede una voce alle speranze e ai lutti.
Pianse ed amò per tutti.
Fu come l’aura, fu come la polla.
Ma, nato dalla zolla,
dalle madre dei buoi
forti e dell’ampie querci e del frumento,
nel bronzo degli eroi
foggiò sé stesso il creatore spento.
...
sono contenta perchè godo di ciò che scopro, mi piace questo posto, è caldo di storia e arte, ma soprattutto è carico di un'umanità viva.
durante il convegno compaiono anziani, eleganti e curiosi, una signora è in carozzina e si fa portare dentro la grande sala. vogliono sentire, ascoltare, si parla di loro in casa loro. assistono all'ultima relazione, la psicoterapia nell'anziano...mi domando: cosa pensano di tutto questo, dei ripensamenti, della perdita, della preziosità del tempo, dell'assenza, della rievocazione del passato e dell'evocazione di un tempo da percorrere ancora, della riformulazione delle aspettative, e della tardività, ovvero quell'intransigenza che a tratti diventa una feroce militanza contro il proprio tempo con l'avvicinarsi la fine, ovvero l'inizio di tutto.
cosa pensano della conciliazione tra il tempo che termina e l'arte che non termina mai? si ostinano o vanno incontro a una pacifica risoluzione delle contraddizioni, a una serena compiutezza?
mi rispondono, si esibiscono.
la sala ormai è svuotata -e bravi gli psichiatri si sono persi la parte viva e autentica della giornata per fare la spesa e tornare a casa presto- mi avvicino per vedere e ascoltare meglio.
il primo si avvicina claudicante, e sorridente. si coglie con forza la sua emozione, suona Debussy e prima ci racconta ciò che quel pezzo significa per lui. suona il flauto.
i secondi si accomodano al piano il primo e allo spartito per violino la seconda. lei arriva alzando le mani felice e salutando quel pubblico con un ardore e una felicità solide. le guardo le mani, sono artrosiche, nodose, storpiate. ma come inizia a suonare le mani guariscono e la sua faccia si veste di un altro volto. la musica le si disegna sui lineamenti, suona anche con quelli.
l'ultima è una cantante e suona Verdi, pezzi dalla Traviata e la Forza del Destino. una voce ancora potente, si spezza solo a tratti, ma si difende egregiamente. guardo in fondo alla sala e vedo, oltre la porta a vetro, la violinista di prima sbirciare dentro la sala. come una bambina, curiosa, come starà andando per la cantante là fuori, com'è questo pubblico ritrovato?
è un'emozione incontenibile, per noi e per loro. sono scossa, emozionata, con il cuore spappolato. questa esibizione è planetaria in questo contesto a conclusione di una giornata sulla depressione nell'anziano, a dimostrazione di quali potenzialità espressive possiede l'uomo a qualsiasi età a qualsiasi latitudine in qualsiasi città, anche in questa landa desolata che gli anziani li stermina e che si chiama milano.
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sabato 6 novembre 2010
gigante d'argilla
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l'ansia ti mangia a colazione pranzo e cena, e l'immagine carnivora ci sta proprio bene.
siamo abituati a pensare al problema del corpo come un'esclusività femminile ma, ormai, dati i tempi di sovraesposizione e consumo dell'immagine, anche gli uomini non si possono più sottrarre alla dura legge dell'anoressia.
l'anoressia maschile esiste, con un habitus diverso da quella femminile, ma esiste.
è vero, abbiamo perso anche questo primato, insieme a molti altri che facevano della femminilità un grande rifugio, un grande potere, una meravigliosa diversità. la donne acquisiscono penosamente l'aggressività maschile e gli uomini acquisiscono fragilità storicamente femminili.
la centralità e conseguente fragilità del corpo producono malessere in molti uomini, moltissimi, come in te, non immagini quanti: l'alimentazione incontrollata è quasi diventato un primato della mascolinità.
giganti d'argilla, ho letto in un libro, ed è un gran bel titolo direi.
bello, muscoloso, molto attento all'alimentazione, anzi direi ossessionato dall'alimentazione ma la tua visione allo specchio è distorta: come un'anoressica scheletrica che si vede sempre grassa, così ti vedi poco tonico, poco atletico, non erculeo come "dovresti". e questo è l'impring maschile, il volto maschile del problema anoressia.
l'allenamento è un dovere, una pratica che non ha più niente a che vedere con lo sport o il godimento della fatica fisica, è un rituale obbligatorio, è una dannazione alla quale non puoi più sottrarti. una competizione furibonda con i tuoi colleghi e magari anche con i tuoi clienti, un primato necessario a non sentire l'angoscia.
e chissà quanti sono come te, nella tua palestra, nella palestra vicino, nel condominio, al bar sotto casa.
per le donne il riconoscimento del proprio corpo e bellezza avvengono attraverso lo sguardo dell'altro. se mi guardi esisto, si, per quante donne è così. un riconoscimento che smette di essere condizionato dall'approvazione esterna solo quando la mente ottiene il primato sul corpo, a volte proppo tardi, a volte superata una certa età. oggi lo sguardo è onnipresente, lo cerchiamo e lo applichiamo, le immagini sono oggetto di consumo abituale. divoriamo immagini e ne siamo divorati. il corpo e la sua immagine sono diventati un aspetto quotidiano ossessivo e ossessionante della nostra esistenza. te ne sei accorto, tu come tutti quanti noi.
qualcuno parla di società liquida, una società sciolta, slegata, liquefatta. senza legame con l'altro. qualcuno dice che questo è l'esito del declino della funzione paterna.
interessante.
per gli uomini il riconoscimento, fisico e di ruolo, avviene attraverso l'adesione al mondo del padre. l'identità sessuale dell'uomo non è biologica, non solo almeno, ma proprio identificativa.
vero, manca il padre patriarca e si afferma il padre affettivo partecipe, empatico e il figlio fatica a trovare il ruolo di maschio. si maschio, hai capito bene cosa intendo. la figura del padre è sempre stata normativa, da la misura delle cose, ne segna il confine, il limite invalicabile, segna la legge e il suo ordinamento. per separarsi dal padre normativo e prescrittivo, dopo averlo riconosciuto, bisogna ucciderlo, simbolicamente. mai letto di keith richards che si fuma le ceneri del padre cremato? ecco, quello è mangiare dio, quello è uccidere il padre e divorarlo, e non solo in termini simbolici direi! uccidere un padre morbido e accogliente, come una madre, non è facile e nemmeno desiderabile. lo sai bene di cosa sto parlando, tuo padre è una persona dolce e remissiva, tenera e accogliente. di norme e regole da lui ne sono arrivate poche, di divieti e dissensi ancora meno. tuo padre ti vuole bene e ti accoglie come spetterebbe a una madre. tu non lo puoi simbolicamente uccidere ed ecco cha arriva la tua confusione. quali sono i confini del mio io e soprattutto del mio corpo? che corpo è questo, come manifesta la sua mascolinità e la sua forza? forse ci prova tramite l'apparenza di un corpo perfetto, un corpo al quale dedicare tutte le energie, le attenzioni, i sacrifici, ci prova ma non ci riesce , alla fine sei esausto, ansioso, anche angosciato. qualcosa veramente non va in questa tua relazione con te estesso, manca un pezzo.
è così, padri e figli non sono più mondi separati, tutti davanti alla play, tutti accomunati, padri bambini che non vogliono crescere e si perdono dietro alle ventenni, si le ventenni che piacciono a te.
per crescere, gli uomini, i maschi, tu, hanno bisogno del conflitto paterno, della ribellione, dei vai affanculo stronzo, ma se la sfida non è più con tuo padre allora la ingaggi con il tuo corpo. quel corpo senza marchiatura, senza identità. quello è l'oggetto del tuo conflitto. scomparsi i riti di passaggio all'interno della famiglia, quelli di identificazione prima e quelli conflittuali adolescenziali dopo, i riti si ripropongono nel gruppo ma con modalità assai differenti...bullismo branco piercing depilazione tatuaggi. atti identificativi del gruppo, sostituivi di atti identificativi paterni.
ed eccoci qui, il tuo desiderio perde di originalità e diventa mimentico. desideri ciò che gli altri desiderano, cosa è tuo e cosa è degli altri? dov'è, appunto, la tua identità?
ed ecco le giornate passate a guardare i muscoli e la prestanza, l'iperattività fisica che nulla a più a che vedere con la sportività e le ore passate a inseguire una perfezione fisica, ecco l'alimentazione incontrollata che si alterna alla ricerca ossessiva del cibo giusto, talmente scrupolosa da evitare la pizza con gli amici.
ecco il pieno del corpo che annulla il vuoto, quel buco, il buco lasciato lì e che però non si colma mai.
ne parlo a te, ma non è questo che aiuta, ma soprattutto ne parlo a me, magari capisco e aiuta me.
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venerdì 5 novembre 2010
lunedì 1 novembre 2010
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