E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono
fecondi, e sulle strade circola l'umanità affamata. I granai sono pieni, e i bimbi dei poveri crescono
rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e
furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in
fucili, in spie, in polizie e in liste nere.
Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e
fermenta.
inizia con la siccità, termina con il diluvio universale dopo la morte del primogenito. sembrano le piaghe d'egitto e il riferimento biblico non può essere casuale, non lo è. la simmetria è perfetta, inesorabile.
sono colpita da questo progetto letterario, ha la dimensione universale di un destino dell'umanità e mi sembra una dimensione grandiosa, superlativa. la storia dei Joad è la storia dell'uomo, dalla nascita alla morte, dall'inzio alla fine, dal singolo alla comunità, nella disperazione, nella dannazione.
la scena finale, che mi immagino nel grande teatro della vita, è quella della madonna dolente, della resurrezione, della pietà. nel diluvio che tutto cancella, che trascina raccolti e corpi, che annienta le ultime risorse, che invita a lasciarsi andare alla corrente mortifera, il seno gonfio di latte della giovane madre alimenta il moribondo, in un gesto di infinita compassione.
un quadro inimmaginabile, per me, prima di leggerlo.
avrei voluto ascoltarlo da Baricco (che ne fece una lettura radiofonica anni fa), mi sarebbe piaciuto molto.
posso sentirne il ritmo da Bruce Springsteen che, nel 1995, incise The Ghost of Tom Joad in omaggio al capolavoro di Steinbeck.
CAPITOLO 29.
Provenienti dall'oceano i nuvoloni grigi scavalcarono le alte montagne costiere e s'ingolfarono nelle vallate. Il vento soffiava feroce ma silenzioso nel cielo, mentre nella macchia sibilava, e ululava nelle foreste. Le nuvole arrivate a frotte, a stormi, da tutte le parti, si adunarono a ponente e vi si acquattarono; il vento allora cessò, e le lasciò in formazioni profonde e compatte. La pioggia cominciò a cadere: dapprima sotto forma di capricciosi temporali, rotti da pause, poi gradatamente assunse un ritmo di caduta uniforme e costante, e diventò grigia controluce, e convertiva in vespertina la luce meridiana. E al principio l'arida terra la succhiò avidamente, prendendo una tinta color tabacco. Per due giorni interi la terra bevve la pioggia, finché non risultò satura. Allora, dappertutto, si formarono pozze, che nei punti più bassi assunsero proporzioni di laghi. E i laghi fangosi crebbero di livello, e la poggia s'accaniva a frustarne la lucida superficie. Ben presto le vallate risltarono colme, e allora i versanti parvero liquefarsi in mille torrenti che precipitavano ruggendo nel canalone in fondovalle. E le acque dei fiumi strariparono, mordendo gli alberi alle radici, rosicchiando le radici finché gi alberi non si dessero per vinti. Le acque fangose turbinando a ridosso degli argini li sormontarono, e traboccarono nei campi di cotone. In tutta la pianura i campi si convertirono in laghi, estesi, grigi, e la pioggia ostinata continuava a frustarne la superficie. Poi l'acqua si rovesciò lungo le strade, e le automobili procedevano lente fendendo l'acqua come i bastimenti con la prora, e lasciandosi dietro una scia fangosa e gorgogliante. Sotto le sferzate della pioggia tutta la terra bisbigliava, e accogliendo i precipiti torrenti i fiumi tuonavano. Quando la prima pioggia aveva cominciato a cadere, i nomadi si erano ritirati sotto le tende dicendo: Passerà presto, e domandando: Quanto potrà durare? E quando si formarono le pozze, gli uomini uscirono dalle loro tane, e coi badili costruirono piccole dighe attorno alle tende. La pioggia martellante mordeva la tela finché penetrandola non riusciva ad irrompere all'interno. Poi distrusse le dighe, e allora l'acqua irruppe anche per via di terra, travolgendo giacigli e coperte. I nomadi, fradici, rizzarono cassette a mo' di palafitte, e sulle cassette adagiarono tavole, e sulle tavole stavano seduti giorno e notte. Presso le tende stavano i decrepiti veicoli, e l'acqua ne deteriorò i circuiti e i carburatori. Le tende grigie emergevano dall'acqua. E finalmente i nomadi si decisero a traslocare; ma i motori non partivano più, o, se partivano, le ruote affondavano nel fango. E molte famiglie dovettero abbandonare le macchine e si incamminarono a piedi nell'acqua portandosi addosso le coperte, gli uomini guazzavano portando sulle spalle i bambini e i vecchi. E arrivando al primo cascinale, vi si affollavano. Taluni ricorrevano agli uffici d'assistenza: ma ne ritornavano avviliti e depressi. C'è il regolamento. Bisogna esser qui da almeno un anno per aver diritto al sussidio. Dicono che il governo provvederà, ma non sanno dire quando. E allora sopravvenne il più terribile dei terrori: per tre mesi, niente lavoro, di nessun genere. Nei cascinali i nomadi stavano pigiati in ozio, e il terrore si abbatté su di loro illividendone le facce. I bambini piangevano per la fame, e non c'era da mangiare. Poi sopravvennero le malattie: la polmonite, e un morbillo che s'attaccava agli occhi e alle orecchie. E la pioggia continuava implacabile, e l'acqua inondava le strade, perché le fogne risultavano incapaci di portarla via. Allora dalle tende, dai cascinali affollati, uscivano, nei loro stracci, gruppi d'uomini gracili con le scarpe ridotte a viscida polpa; e guazzavano alla volta dei paesi, o dei negozi di campagna, per mendicare: mendicare cibo o sussidi. O per provare a rubare. E sotto questa suprema degradazione cominciò a fermentare il furore della disperazione. D'altra parte, nei piccoli paesi, anche la compassione che gli abitanti dapprima sentivano verso i nomadi fradici, prese a convertirsi in furore; e il furore contro gli affamati si convertì a sua volta in paura degli affamati. Allora gli sceriffi reclutarono nuovi agenti a frotte, e s'affrettarono a commissionare ingenti forniture di fucili, di gas lacrimogeni, di munizioni. E gli affamati s'accalcavano nei vicoletti dei retrobottega per mendicare un pezzo di pane o qualche avanzo di verdura, o all'occasione, per rubare. Frenetici, i pezzenti venivano a bussare alle porte dei medici; ma il medico aveva sempre troppo da fare. E i pezzenti si riducevano a lasciar detto nelle botteghe di campagna di far venire il "coroner" col carro funebre. E il carro arrivava, s'accostava a marcia indietro nel fango, e si portava via i morti. E la pioggia continuava incessante e i fiumi rompevano gli argini e dilagavano nella campagna. Rintanati negli umidi fienili o nei ripostigli annessi alle case coloniche, la fame e il terrore generarono finalmente il furore. E allora anche i ragazzi si decisero a uscire non per mendicare, ma per rubare, e gli uomini indeboliti li seguirono per cercar di rubare. E gli sceriffi reclutavano nuovi agenti e ordinavano nuovi fucili. E la gente che viveva comoda nelle case al riparo dalle intemperie dapprima sentì compassione e poi disgusto e finalmente odio contro i nomadi pezzenti. Nei fienili inzuppati le donne ammalate di polmonite mettevano al mondo le loro creature, e i vecchi si rannicchiavano negli angoli e lì si lasciavano morire, accartocciati su se stessi così che il "coroner" non era più in grado di distenderne le membra irrigidite. Di notte i frenetici pezzenti irrompevano apertamente nei pollai, e si portavano via i polli schiamazzanti. Se qualcuno li faceva segno a colpi di fucile non correvano via, non cercavano di nascondersi, ma continuavano a diguazzare con la stessa andatura di prima, e se colpiti si lasciavano stancamente cadere nel fango. La pioggia cessò. Sui campi restò l'acqua, a riflettere il grigio del cielo, e tutta la terra era un murmure d'acqua corrente. E i pezzenti uscivano dai loro covi, dai fienili e dalle stalle e accoccolati contemplavano la terra inondata, silenziosi, o parlando con una tragica calma. Niente lavoro fino a primavera. Niente lavoro. Niente lavoro... niente denaro, niente cibo. Ma, dico io, chi ha una pariglia di cavalli, e se ne serve per arare, per coltivare, non si sognerebbe mai di metterli fuori dalle stalle e lasciarli morire di fame, quando manca il lavoro nei campi. Ah, ma quelli sono cavalli... noi siamo uomini. Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era proprio la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l'ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore.
L'erba spuntò tenerissima e distese sui colli la delicata coltre verzolina dell'annata nuova.
CAPITOLO 29.
Provenienti dall'oceano i nuvoloni grigi scavalcarono le alte montagne costiere e s'ingolfarono nelle vallate. Il vento soffiava feroce ma silenzioso nel cielo, mentre nella macchia sibilava, e ululava nelle foreste. Le nuvole arrivate a frotte, a stormi, da tutte le parti, si adunarono a ponente e vi si acquattarono; il vento allora cessò, e le lasciò in formazioni profonde e compatte. La pioggia cominciò a cadere: dapprima sotto forma di capricciosi temporali, rotti da pause, poi gradatamente assunse un ritmo di caduta uniforme e costante, e diventò grigia controluce, e convertiva in vespertina la luce meridiana. E al principio l'arida terra la succhiò avidamente, prendendo una tinta color tabacco. Per due giorni interi la terra bevve la pioggia, finché non risultò satura. Allora, dappertutto, si formarono pozze, che nei punti più bassi assunsero proporzioni di laghi. E i laghi fangosi crebbero di livello, e la poggia s'accaniva a frustarne la lucida superficie. Ben presto le vallate risltarono colme, e allora i versanti parvero liquefarsi in mille torrenti che precipitavano ruggendo nel canalone in fondovalle. E le acque dei fiumi strariparono, mordendo gli alberi alle radici, rosicchiando le radici finché gi alberi non si dessero per vinti. Le acque fangose turbinando a ridosso degli argini li sormontarono, e traboccarono nei campi di cotone. In tutta la pianura i campi si convertirono in laghi, estesi, grigi, e la pioggia ostinata continuava a frustarne la superficie. Poi l'acqua si rovesciò lungo le strade, e le automobili procedevano lente fendendo l'acqua come i bastimenti con la prora, e lasciandosi dietro una scia fangosa e gorgogliante. Sotto le sferzate della pioggia tutta la terra bisbigliava, e accogliendo i precipiti torrenti i fiumi tuonavano. Quando la prima pioggia aveva cominciato a cadere, i nomadi si erano ritirati sotto le tende dicendo: Passerà presto, e domandando: Quanto potrà durare? E quando si formarono le pozze, gli uomini uscirono dalle loro tane, e coi badili costruirono piccole dighe attorno alle tende. La pioggia martellante mordeva la tela finché penetrandola non riusciva ad irrompere all'interno. Poi distrusse le dighe, e allora l'acqua irruppe anche per via di terra, travolgendo giacigli e coperte. I nomadi, fradici, rizzarono cassette a mo' di palafitte, e sulle cassette adagiarono tavole, e sulle tavole stavano seduti giorno e notte. Presso le tende stavano i decrepiti veicoli, e l'acqua ne deteriorò i circuiti e i carburatori. Le tende grigie emergevano dall'acqua. E finalmente i nomadi si decisero a traslocare; ma i motori non partivano più, o, se partivano, le ruote affondavano nel fango. E molte famiglie dovettero abbandonare le macchine e si incamminarono a piedi nell'acqua portandosi addosso le coperte, gli uomini guazzavano portando sulle spalle i bambini e i vecchi. E arrivando al primo cascinale, vi si affollavano. Taluni ricorrevano agli uffici d'assistenza: ma ne ritornavano avviliti e depressi. C'è il regolamento. Bisogna esser qui da almeno un anno per aver diritto al sussidio. Dicono che il governo provvederà, ma non sanno dire quando. E allora sopravvenne il più terribile dei terrori: per tre mesi, niente lavoro, di nessun genere. Nei cascinali i nomadi stavano pigiati in ozio, e il terrore si abbatté su di loro illividendone le facce. I bambini piangevano per la fame, e non c'era da mangiare. Poi sopravvennero le malattie: la polmonite, e un morbillo che s'attaccava agli occhi e alle orecchie. E la pioggia continuava implacabile, e l'acqua inondava le strade, perché le fogne risultavano incapaci di portarla via. Allora dalle tende, dai cascinali affollati, uscivano, nei loro stracci, gruppi d'uomini gracili con le scarpe ridotte a viscida polpa; e guazzavano alla volta dei paesi, o dei negozi di campagna, per mendicare: mendicare cibo o sussidi. O per provare a rubare. E sotto questa suprema degradazione cominciò a fermentare il furore della disperazione. D'altra parte, nei piccoli paesi, anche la compassione che gli abitanti dapprima sentivano verso i nomadi fradici, prese a convertirsi in furore; e il furore contro gli affamati si convertì a sua volta in paura degli affamati. Allora gli sceriffi reclutarono nuovi agenti a frotte, e s'affrettarono a commissionare ingenti forniture di fucili, di gas lacrimogeni, di munizioni. E gli affamati s'accalcavano nei vicoletti dei retrobottega per mendicare un pezzo di pane o qualche avanzo di verdura, o all'occasione, per rubare. Frenetici, i pezzenti venivano a bussare alle porte dei medici; ma il medico aveva sempre troppo da fare. E i pezzenti si riducevano a lasciar detto nelle botteghe di campagna di far venire il "coroner" col carro funebre. E il carro arrivava, s'accostava a marcia indietro nel fango, e si portava via i morti. E la pioggia continuava incessante e i fiumi rompevano gli argini e dilagavano nella campagna. Rintanati negli umidi fienili o nei ripostigli annessi alle case coloniche, la fame e il terrore generarono finalmente il furore. E allora anche i ragazzi si decisero a uscire non per mendicare, ma per rubare, e gli uomini indeboliti li seguirono per cercar di rubare. E gli sceriffi reclutavano nuovi agenti e ordinavano nuovi fucili. E la gente che viveva comoda nelle case al riparo dalle intemperie dapprima sentì compassione e poi disgusto e finalmente odio contro i nomadi pezzenti. Nei fienili inzuppati le donne ammalate di polmonite mettevano al mondo le loro creature, e i vecchi si rannicchiavano negli angoli e lì si lasciavano morire, accartocciati su se stessi così che il "coroner" non era più in grado di distenderne le membra irrigidite. Di notte i frenetici pezzenti irrompevano apertamente nei pollai, e si portavano via i polli schiamazzanti. Se qualcuno li faceva segno a colpi di fucile non correvano via, non cercavano di nascondersi, ma continuavano a diguazzare con la stessa andatura di prima, e se colpiti si lasciavano stancamente cadere nel fango. La pioggia cessò. Sui campi restò l'acqua, a riflettere il grigio del cielo, e tutta la terra era un murmure d'acqua corrente. E i pezzenti uscivano dai loro covi, dai fienili e dalle stalle e accoccolati contemplavano la terra inondata, silenziosi, o parlando con una tragica calma. Niente lavoro fino a primavera. Niente lavoro. Niente lavoro... niente denaro, niente cibo. Ma, dico io, chi ha una pariglia di cavalli, e se ne serve per arare, per coltivare, non si sognerebbe mai di metterli fuori dalle stalle e lasciarli morire di fame, quando manca il lavoro nei campi. Ah, ma quelli sono cavalli... noi siamo uomini. Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era proprio la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l'ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore.
L'erba spuntò tenerissima e distese sui colli la delicata coltre verzolina dell'annata nuova.
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