bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 30 giugno 2014

lei

è un bel film quello di Spike Jonze e pensare, chissà perchè, che credevo non lo fosse.
è che la mente divaga sul sentito dire, la voce di un sistema operativo, un innamoramento, una delusione, sarà una boiata.
pregiudizi.
bisogna sempre tenerne conto, ne siamo pieni e tracimanti. soprattutto quelli che pensano di esserne immuni.
il film è pregevole, l'attore, Joaquin Phoenix, strepitoso.
lei è la solitudine, pervasiva e dannatamente pericolosa, che sostituisce l'incognita della realtà dell'altro.
si realizza nel film questa condizione paradossale di un delirio a cielo aperto, un parlar da soli in mezzo ad altri che parlano da soli, ognuno connesso con il suo personalissimo A.I., un arretramento di fronte al dubbio che ogni relazione porta in sè, un atto masturbatorio perpetuo, senza consapevolezza, immersi in una dipendenza senza scampo, la dipendenza dal nulla che sostituisce il dolore. siamo così. 
quel poco di simbolico che l'altro ancora ci porta, quando c'è, è nevrotico, impossibile da tollerare: una donna conosciuta una sera chiede già un impegno per il futuro. tutti uguali voi uomini, anzi, tu non sei uomo, sei un animale. vergognati di esistere. certo che così è difficile non soccombere al paradiso artificiale.
è dura resistere alle miserie umane, soprattutto quando siamo una miseria noi stessi e quando il suo insabbiamento, la sua negazione, è così facile da ottenere.
colpisce questa rarefazione del corpo o, al contrario, il suo dominio assoluto. perchè il corpo dell'altro non c'è, è fantasmatizzato e pure erotizzato in modo solipsistico, nell'assoluta aderenza tra la nostra fantasia e la sua realizzazione (visto che l'altro è lì apposta, non farà altro che assecondare ciò che vogliamo fatta eccezione per la sua consistenza), dall'altra il nostro corpo diventa dominatore assoluto della nostra esistenza, il suo appagamento non viene mai negato, mai messo in discussione ma accettato totalmente in tutte le sue manifestazioni.
il godimento è assoluto, un più di godere, nello sfacelo dell'esistenza dell'altro e nell'inabissamento nella più completa solitudine.
può sembrare un paradosso, un film di fantascienza, ma è situato in un mondo, in un tempo, solo un po' più in là del nostro, dove anche le lettere, d'amore e di amicizia, di vicinanza e di lutto, di separazione e di abbandono, vengono delegate ad agenzie specializzate, interi carteggi amorosi scritti da terzi, per anni, consegnando ad altri la realizzazione dei nostri desideri, ma è qui. è qui, adesso, questo mondo, questa dimensione, la stiamo vivendo adesso, chattando e consegnandoci su whatsApp o qualche sito specializzato con qualcuno che nemmeno conosciamo e mai conosceremo.
adesso.

giovedì 26 giugno 2014

the right moment

lo Spazio Forma di Milano si è spostato un po' qua è un po' là, dopo lo sfratto dalla sede storica.
qualcosa è finito ai Frigoriferi Milanesi (ma vi pare possibile!!??), un po' alla Galleria Leica in centro, un po' alla Forma Galleria, nuova sede, in via Ascanio Sforza.
una frammentazione magari, per una volta, salutare. fotografie sparse.
nella sede della Leica mi sono vista, veloce e impalpabile, una piccola mostra: The right moment.
poche foto e pochi autori, tra quelli che conosco sei foto di Steve McCurry, due foto di Cartier-Bresson e tre di Alex Majoli. e altre poche foto.

Ogni tanto quando chiediamo  qualcuno di lasciarsi fotografare gli si dice: vieni che ti immortalo. Ti immortalo!! Tanto arrogante a volte si fa il linguaggio per esorcizzare l'angoscia della nostra impermanenza.
Eppure c'è in questa iperbole un residuo di quel mito faustiano che gli uomini, da quando hanno cominciato ad avere coscienza di sé, e quindi del tempo, insistentemente perseguono. Fermare il tempo, non fosse che per un istante.
Ferdinando Scianna 


Werner Bischof


 Abbas
 Jonas Bendisken

Steve McCurry






Steve McCurry rimane il mio preferito, difficile eguagliarlo e mi sembra, relativamente al titolo che richiama l'attimo irripetibile, l'unico in tema.
per il resto mi è sembrata solo un'occasione commerciale, semplicemente foto in vendita.

lunedì 23 giugno 2014

patrimonio di famiglia

 Il Servizio pubblico tra Mazzocchi e Buffa 
di Aldo Grasso

 Di questi tempi si parla molto di Servizio pubblico. Per non restare nell’empireo delle dichiarazioni di principio e di buona volontà, per ribadire la priorità del concreto sull’astratto, facciamo esempi pratici per rispondere alla domanda: che cos’è Servizio pubblico? 
In Brasile ci sono i Mondiali di calcio, le reti televisive hanno mandato i loro inviati, ogni giorno parecchie ore di trasmissioni sono dedicate all’evento. 
Uno degli uomini di punta della Rai si chiama Marco Mazzocchi, e di recente è salito agli onori delle cronache per via della «toccatina» scaramantica. In studio c’era Paolo Bonolis (che nel suo preserale non disdegna che gli venga toccato il fondo schiena) e Mazzocchi, in collegamento, ha fortemente auspicato, fra l’imbarazzo generale, che il rito si ripetesse. 
Uno degli uomini di punta di Sky si chiama Federico Buffa. Grande commentatore di basket ma anche grande esperto anche di calcio. Ci ha introdotto a questi Mondiali raccontando storie del passato, come solo un uomo di cultura sa fare. Nei suoi interventi mai una parola di troppo, mai un’osservazione a sproposito. Anzi. 
Di Marco Mazzocchi, figlio del telecronista di Tmc Giacomo Mazzocchi (è facile che in tv si formino delle dinastie; se non ricordo male, il figlio di Aldo Biscardi, Maurizio, all’epoca lavorava per Tmc; così com’è successo per Davide De Zan), si fatica a ricordare quale sia stato, in Rai, il suo apporto alla crescita culturale del concetto di sport. Com’è finito Buffa a Sky? Commentava il basket con Flavio Tranquillo su TeleCapodistria. Era (è) una coppia formidabile, inevitabile che finisse a Tele+ e poi a Sky. Mazzocchi è noto per le montature dei suoi occhiali, per certe battute grevi, per una certa faciloneria; Buffa è noto per la sua bravura. Secondo voi, chi dei due fa Servizio pubblico?

è chiaro che Aldo Grasso lo ama, il Buffa.
non c'è un suo articolo sul Corriere che non lo esalti.
d'altronde, a ragione, amatissimo dal pubblico di Sky e non, anche da quelli che lo seguivano fin dal tempo delle telecronache di basket su Telecapodistria con il Tranquillo (preistoria), il Buffa è outstanding.
lo conosco bene, il ragazzo, fin dai tempi dei suoi studi liceali classici (rigorosamente il maschio fa il classico, la sorella femmina lo scientifico, eppure il padre era uomo illuminato ma certi presupposti di genere non si superano facilmente) e di certe sue parodie non ancora destinate a un pubblico televisivo, ma più ristretto e già attentissimo, quindi di antica fama e origine. la sua cifra se l'è costruita fin da allora, grazie all'ausilio di una formidabile memoria, con molto moltissimo studio e molti moltissimi viaggi (mica solo negli States, non crediate che il tutto venga solo da lì)  ma in tutto il mondo sempre e solo rigorosamente da solo. si viaggia soli, se si vuole viaggiare veramente, se del viaggio vogliamo farne nostro lo spirito, incorporarlo, e poi restituirlo rivestito di un senso, il nostro. e tutto, del Buffa, è rigorosamente suo.
anche il Buffa appartiene a una dinastia, seppure non certo televisiva, e suo padre sarebbe orgoglioso di lui.

giovedì 19 giugno 2014

Insegnanti, questa scuola non è un’anagrafe

Alessandro D'Avenia, che è anche un insegnante presumo di lettere probabilmente a Roma, ha scritto un libro Bianca come il latte, rossa come il sangue. L'ho letto, tre anni fa, spinta dalla curiosità di tanto successo presso gli adolescenti, anche presso il mio. L'ho letto in due giorni, un libricino, certamente di facile fruizione per i ragazzi, certamente pieno del loro mondo, certamente anche ricco di un'aura di fiaba, vagamente retorica.
deludente. ma, mi sono detta, è chiaro che io non capisco niente di niente di queste cose. il fatto è che gli adolescenti questo libro lo leggono altri no. agli adolescenti questo libro piace, gli altri libri no. quindi sono rimasta con un punto di domanda irrisolto e la certezza che io sono giurassica, appartengo a un altro mondo, mi devo rassegnare alla mia ignoranza. alla mia emarginazione. devo solo stare a guardare e non giudicare.
poi succede che su La lettura inizia, promossa da Paolo Giordano, un bel dibattito sulla scuola, le sue opportunità, le sue voragini.
e leggo Alessandro D'Avenia, che interviene.
il suo articolo è tra i migliori, fa emergere il problema fondante, cioè che la scuola superiore, per come è strutturata, mortifica l'individuo, unico e irripetibile, che esiste in ogni studente, enfatizza la didattica di massa che falcia il desiderio, massimizza tutto, generalizza l'insegnamento consegnandogli il solo mandato della prestazione, trasforma gli studenti in una folla indistinta fastidiosa che disturba o che turba, e la parola dell'insegnamento in "poltiglia educativa".
mi è piaciuto e, lo metto qui, tutto.

Il problema sono coloro che non vogliono o non sanno lavorare: «indocenti» e «indecenti». Hanno età e storie diverse, ma l’anzianità come criterio base delle graduatorie non funziona

di Alessandro D’Avenia



Le parole abusate sono segnaletica della nostalgia, fosforescenze di ciò che perdiamo. Scuola: tutti ne parlano, mentre rantola.

Se dovessi distillare il succo di 14 anni di insegnamento, di incontri in ogni tipo di scuola e di migliaia di lettere di studenti, docenti e genitori, dovuti ai libri che ho scritto, direi con Elias Canetti: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Così ne La lingua salvata definiva l’essenza della scuola: la viva voce e l’immagine dell’insegnante. Solo una discontinuità antropologica (e quindi economica) potrà cambiare la scuola, non belletti organizzativi spacciati per riforme. Una rivoluzione copernicana che ponga nell’ordine giusto conoscenza e amore: ogni crescita in estensione e profondità della nostra conoscenza del mondo presuppone un’estensione della nostra sfera di inter-esse, cioè d’amore. Perché non chiudiamo le scuole e non carichiamo le lezioni su YouTube risparmiando tempo e fatica?


Perché siamo convinti che insegnare sia una relazione attuale: spazio e tempo condivisi nell’irripetibile dinamismo della vita e delle vite. Se un ragazzo esteriormente somiglia più al padre o alla madre, interiormente (sguardo sul mondo, fiducia nella vita) corrisponde alla qualità della relazione tra i genitori. Così l’insegnamento, parte dell’educazione, si dà nella triplice relazione professore-studente, professore-genitori, professore-colleghi. Classe e studente somigliano alla qualità di queste tre relazioni. Posso soffermarmi solo sulla prima.

La qualità della relazione docente-studente determina l’apertura conoscitiva, a meno di non illudersi che istruzione ed educazione siano separabili. Si conosce soltanto ciò a cui la nostra intelligenza ri-conosce un valore (il cuore intelligente di Finkielkraut) segnalato da tutto l’essere dell’in-segnante. Non ci può essere educazione (né insegnamento) in differita, perché la relazione coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo, spirituale). Il moscone del cogito cartesiano continua a sbattere contro il vetro che non vede: cervelli riempiti di nozioni, addestramento pavloviano a ripetere, miglioramento solo con la sanzione dell’errore. L’insegnamento invece avviene solo in atto, perché solo la vita integrale educa. Si insegna con tutto: sguardo, tono di voce, movenze del corpo, disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito, cellulare spento... e parole. Una relazione funziona quando genera i beni specifici per cui la si instaura, se quella scolastica non genera attenzione, motivazione, curiosità, non è solo per carenza di stipendio, mura scorticate, vuota burocrazia, giovani e famiglie d’oggi, ma per carenza di relazione. Che cosa è necessario perché essa sia, e sia generativa?

La molecola d’acqua è relazione tra due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno, uno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno. Anche a scuola è così: la classe è acqua!

Nella relazione scolastica tre sono gli elementi indispensabili: amore per ciòche si insegna (conoscenza e passione: studium), amore per il chi a cui si insegna (empatia: non sentimentalismo, ma riconoscimento dello studente come soggetto di un «inedito stare al mondo» e non oggetto da cui ottenere prestazioni), amore per il come si insegna (creatività didattica che rinnova ogni lezione in base ad allievi e contesto: metodo). Senza questi tre elementi la relazione non si dà e genera contro-effetti: noia, avversione, disinteresse. Per questo credo in una personalissima trinità di professori.

Uno. I docenti in atto. Curando faticosamente i tre elementi, trasformano il loro dícere (dire) in docère (mostrare): pongono le condizioni dell’imparare, non lo pretendono, e i ragazzi sono pro-vocati a lavorare sodo (a noia non si oppone divertimento, ma interesse) e a diventare teste fredde e cuori caldi (al contrario di come sono oggi). Generano il desiderio mimetico di raggiungere autonomamente la Luna che il dito mostra, svincolano il sapere dalla pur necessaria prestazione e lo orientano a diventare vita: la cultura come strumento per leggere la realtà con totale apertura, senza subire luoghi comuni e ideologie. Generano simbolicamente, fanno venire alla luce i ragazzi, per ciascuno dei quali hanno una pagina del registro con i punti di forza, non smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno studente in crisi, fanno una lezione fuori dal programma, dedicano tempo fuori dalla lezione... Tengono il filo come Arianna (amano e sono presenti a distanza) mentre lo studente si addentra nel labirinto e lo decodifica grazie alla cultura che si confronta con le svolte della vita e le sue forme a volte spaventose come il Minotauro. Aiutano i ragazzi a trasformare il loro destino in destinazione: ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna (Dante a Brunetto Latini). La loro classe è convivio, hanno l’autorità di chi assapora la vita e la porge.

Due. Gli «in-docenti». Per vari motivi (stanchezza, difficoltà relazionali, equilibrio personale, stipendio...), pur avendo competenza nella materia, non riescono a trasmetterla. Mancano due terzi della relazione (empatia e metodo), somigliano a un postino che consegna lettere senza busta e/o destinatario. Non propongo disastrose simbiosi o voti politici, ma asimmetria relazionale (non è distacco: emblematico il recente film Detachment), in cui la materia è terreno comune di ricerca, non trincea: «La fiducia non si guadagna se ci si sforza di guadagnarla, ma se si partecipa alla vita degli allievi, in modo immediato e naturale e se si prende su di sé la responsabilità che da ciò deriva» (Buber). L’indocente non insegna, perché non impara dai ragazzi, la sua classe si appiattisce sulla prestazione (programma ed esame diventano l’orizzonte di autorità).

Tre.Gli «in-decenti». Non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa.
Ogni discorso sulla scuola è secondario senza i docenti in atto. Non basta l’anzianità come criterio esclusivo di merito nelle graduatorie, ma i tre elementi segnalati e trasversali (docenti, indocenti, indecenti hanno tutte le età). La scuola si liberi degli indecenti; aiuti gliindocenti a (ri)diventare se stessi; punti sui docenti, che ne sono le mura di carne e sangue: ce n’è almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello stipendio, almeno un grazie.

mercoledì 18 giugno 2014

la domanda che tu lasci è anch’essa un gesto tuo

A mia madre

Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce nel sonno eterno, rotta
felice schiera
in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi più infuria, se tu cedi
come un’ombra la spoglia
(e non è un’ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)
chi ti proteggerà? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto d’una
vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell’eliso
folto d’anime e voci in cui tu vivi;
e la domanda che tu lasci è anch’essa
un gesto tuo, all’ombra delle croci.

Eugenio Montale

e questo capolavoro di Montale, me lo dedico.
visto che nessuno pensa a me e alla mia di fatica, me la riconosco da sola.
a questa età il riconoscimento non viene più dall'Altro, bisogna saperselo garantire da soli, in assoluta solitudine.
"la Natura- è la madre più Gentile
...
Quando tutti i Figli dormono -
Lei s'allontana quel tanto
Che basta ad accendere i Suoi lumi -
Poi affacciandosi dal Cielo -
Con infinito Affetto -
E infinita Cura -
 Il dito Dorato sulle labbra -
Chiede Silenzio - Dappertutto -
Emily Dickinson

lunedì 16 giugno 2014

l'amante

Ci eravamo ingannati. L'errore che avevamo fatto, in qualche secondo ha invaso l'universo. Lo scandalo era di proporzioni divine. Il mio fratellino era immortale e nessuno lo sapeva. L'immortalità era celata nel corpo di quel fratello finché era vissuto, e nessuno di noi aveva visto. che in quel corpo era racchiusa l'immortalità. Il corpo di mio fratello era morto, l'immortalità era morta con lui. E così ora il mondo si trovava privo di quel corpo visitato, di quella visita. Ci eravamo completamente ingannati. L'errore, lo scandalo, hanno invaso tutto l'universo. Dal momento che era morto, lui, il mio fratellino, tutto doveva morire dopo di lui e per opera sua. La morte, a catena, partiva da lui, il bambino.Il corpo morto del bambino non risentiva per niente degli eventi di cui era causa. Dell'immortalità che aveva ospitato nei ventisette anni della sua vita egli non conosceva il nome. Nessuno vedeva chiaro come me. E dal momento che avevo capito quella verità, tanto semplice, che il corpo del fratellino era anche il mio, io dovevo morire. E sono morta. Il mio fratellino mi ha riunita a lui, mi ha chiamata a lui e sono morta. Bisognerebbe avvertire tutti di tali eventi. Comunicare loro che l'immortalità è mortale, che può morire, che è successo, che continua a succedere, che essa non si palesa mai in quanto tale, che è la duplicità assoluta. Che non esiste nel particolare, ma soltanto in linea di principio. Che certe persone possono celarne la presenza, a condizione che lo ignorino, e che certe altre possono svelarne la presenza nelle prime, alla stessa condizione, ignorando di poterlo fare. Che la vita è immortale mentre è vissuta, mentre è in vita. Che l'immortalità non è una questione di tempo, non è una questione di immortalità, è qualcosa di ignoto. Che è falso dire che non ha principio né fine, come è falso dire che comincia e finisce con la vita dello spirito, poiché partecipa dello spirito e del trascorrere sulle orme del vento. Guardate le sabbie morte dei deserti, i corpi morti dei bambini: l'immortalità non passa di lì, si ferma e li evita. 

L'amante di Marguerite Duras è un libro che non capisco e non apprezzo del tutto.
nel leggerlo ho avuto nella testa le immagini, ormai "antichissime", del film che vidi, tratto dal libro, veramente molti anni fa. ho stampata in testa l'immagine della ragazza bianca, magrissima, con le trecce e il cappello da uomo e il viso sottile. ho in mente l'amante cinese più anziano di lei, ho in mente un'aria erotica malsana. 
il libro è malsano. si respira follia, aria calda soffocante delle colonie indocinesi, aria pesante delle camere in cui si fa sesso, ambiente corrotto, disturbo psichico, fratelli malati, uno di cattiveria bestiale e demoniaca l'altro di infermità mentale e fragilità mortale, una madre amata ma inadeguata, in preda alla depressione, in preda alla mania. si respira la corruzione, la discriminazione razziale, si incorre nella perversione familiare che scaturisce da una disperazione materna incurabile e pervasiva, da una miseria economica strisciante che non ha sempre un corrispettivo nello stile di vita dei personaggi. c'è confusione nelle menti, c'è confusione nella storia.
infatti la scrittura della Duras non è piacevole. è spezzata, frammentata, discontinua, incoerente. il discorso non fila, si interrompe, un punto ogni 5 parole. alla fine della lettura è difficile mettere insieme i pezzi di una storia che rimane fortemente accidentata, narrata per tratti, poi interrotta e ripresa capitoli dopo. il tempo si perde, la continuità non si ricostruisce, la consequenzialità non c'è. parla della protagonista - di fatto, lei stessa- in prima persona poi in terza. in uno stesso periodo il narratore è l'io e poi diventa lei. rimane il dubbio che sia un errore, rimane il dubbio che sia un effetto ricercato...ma perchè? sono io ma non sono io? è la mia storia ma non lo è?, è la mia immagine ma non mi appartiene?

Presto fu tardi nella mia vita. A diciott'anni era già troppo tardi. Tra i diciotto e i venticinque anni il mio viso ha deviato in maniera imprevista. Sono invecchiata a diciott'anni. Non so se succeda a tutti, non l'ho mai chiesto. Mi sembra di aver sentito dire che qualche volta un'accelerazione del tempo può investirci quando attraversiamo l'età giovane, la più esaltata della vita. È stato un invecchiamento brutale. L'ho visto impossessarsi dei miei lineamenti a uno a uno, alterare il rapporto che c'era tra di loro, render gli occhi più grandi, lo sguardo più triste, la bocca più netta, incidere sulla fronte fenditure profonde. Invece di esserne spaventata, ho assistito a quest'invecchiamento con lo stesso interesse che avrei potuto prestare allo svolgersi di una lettura. E poi sapevo di non sbagliarmi: un giorno avrebbe rallentato la corsa e avrebbe preso un ritmo normale. Chi mi aveva conosciuto a diciassette anni, all'epoca del mio viaggio in Francia, è rimasto impressionato quando mi ha rivista, due anni dopo, diciannovenne. Quel nuovo viso si è mantenuto così,è diventato il mio viso. Certo, è invecchiato ancora, ma relativamente meno di quel che avrebbe dovuto.È un viso lacerato da rughe nette e profonde, con la pelle screpolata. Non ha ceduto come certi volti dai lineamenti minuti, ha mantenuto gli stessi contorni, ma la materia di cui è fatto è andata distrutta. Ho un viso distrutto.



 le sue riflessioni sulla vita, la morte, la follia, il sesso, la madre, a volte sembrano incoerenti, scritti male, il cui senso sfugge. parla di un'immortalità attesa del fratellino minore, tradita dalla morte prematura dello stesso, che non trova linfa e conferma nella descrizione di questo misero personaggio, tratteggiato solo superficialmente, sottomesso e terrorizzato dalla figura del fratello maggiore. niente, nel libro, fa pensare a uno spirito immortale, tutto fa pensare a un'invenzione letteraria momentanea della scrittrice, a un pensiero posticcio, che non nasce dal personaggio, ma dalla mente fluttuante di chi scrive. anche la madre è descritta, denominata, come dolcissima e pura ma, al contempo, niente di lei mi ha dato questa impressione nei momenti che la vedono comparire sulla pagina scritta. è una lettura insoddisfacente, è una scrittura insicura, c'è una dissociazione tra ciò che si scrive e quel che si vuole a tutti i costi dire, una forzatura non sostenuta dalla verità della parola.

Durante quel viaggio l'immagine avrebbe potuto staccarsi, isolarsi, mettersi in evidenza. Sarebbe esistita se fosse stata scattata una fotografia, come altre immagini sono esistite in altre circostanze. Ma la foto non è stata fatta, la situazione era troppo insignificante per provocarla. Chi avrebbe potuto pensarci? Per fare quella foto, bisognava prevedere l'importanza di quell'avvenimento, di quell' attraversamento del fiume, nella mia vita. Ebbene, mentre esso accadeva, la sua importanza era ignorata da tutti. Solo Dio la conosceva. Ecco perché questa immagine, e non poteva essere diversamente, non esiste. È stata omessa, dimenticata, non è stata prelevata, isolata, messa in evidenza. Alla foto non fatta deve la sua virtù, quella di rappresentare un assoluto, di esserne l'artefice. 

forse per una volta potrei aver voglia di rivedermi il film, per giudicarlo meglio del libro stesso. 

giovedì 12 giugno 2014

oscuramente forte è la vita

Al padre

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
"Baciamu li mani". Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

Salvatore Quasimodo

a un padre, a quello che ha fatto per suo figlio. per amore, un amore giusto, non un troppo amore, un amore che sa tramandare il desiderio e non chiede mai nulla in cambio. un amore che sa tollerare il dolore.
l'amore di un padre per il figlio.

martedì 10 giugno 2014

le meraviglie

mi ricorda certamente In grazia di dio questo film di Alice Rohrwacher, e mi ricorda anche Corpo celeste, il suo primo film che ho avuto la fortuna di vedere (http://nuovateoria.blogspot.it/2011/07/corpo-celeste.html).
è brava Alice, è sapiente, guarda l'adolescenza delle sue protagoniste, quella di Marta in Corpo Celeste e quella di Gelsomina in questo film, con molta intelligenza, con grande comprensione. guarda la terra e il lavoro delle mani, il lavoro del corpo di chi vive la terra, con grande ammirazione e rispetto. guarda le persone e le fa parlare, le fa vivere in tempo reale, il tempo del film, come fosse il tempo della vita. è brava e conclude magistralmente con una scena che mi lascia atterrita, che segna il tempo che incide, la fine delle cose, la fine delle speranze, la fine che fa sembrare inutile tutto quello per cui si è lottato, e litigato, e urlato e drammatizzato. le famiglie crescono, sviluppano le loro perversioni, girano intorno ai problemi e ai caratteri di chi le abita, fanno un giro tortuoso e spesso irrispettoso delle aspirazioni e nevrosi di tutti i suoi componenti, alla fine, semplicemente danno lo slancio a una vita, o la affossano definitivamente, danno un'impronta e poi ognuno ne farà quel che potrà. rimarrà il suono del vento nelle case vuote abbandonate, una volta abitate, una volta vissute, una volta dense di odori e abitudini, poi disertate e travasate nella memoria di ognuno.


Gelsomina ha un padre tedesco e una madre magra, un padre al quale risponde con adesione assoluta lavorando instancabilmente e una madre che sembra un giunco, forse forte forse troppo flessibile, e tre sorelle. vive dov'è nata, nella terra delle api e fa il miele. la sua vita potrebbe rimanere così in eterno fino al compimento ultimo del proprio destino ma poi si incontra il reale, si incontra la televisione e il mondo dei quiz a premi, si incontra il mondo che tutto consuma, si incontra il disagio mentale adolescenziale (che lei non si può permettere), e quel che sembrava un destino scritto nel libro dell'eternità si frantuma davanti al dubbio: ma potrei avere una vita diversa? è dura farsi carico di un cambiamento, è impossibile davanti a un padre che conosce una parola sola, e quella è, arcaica e contadina, e a una madre incerta che la difende flebilmente, ma il suo moto di ribellione assume almeno la forma di una domanda, quanto meno tenace. per trovarsi Gelsomina dovrà separarsi dalla meraviglia del miele, superare l'editto di suo padre, e cercare altrove la sua nuova appartenenza. sarà l'ape ad uscire dalla sua bocca.


la narrazione a tratti è forte, a tratti si perde, a tratti è memorabile, a tratti è noiosa. la forza probabilmente risiede nella memoria di chi dirige, forse da lì arriva il messaggio più convincente, il linguaggio più vero. le meraviglie appartengono al mondo dell'immaginario, qualche volta al reale della terra, a un letto in piena campagna ove dormire all'aperto, tutti sotto la stessa coperta.


giovedì 5 giugno 2014

Salomè

è una piccola porzione rispetto a quel che ho goduto a Vienna.
che emozione è stata vedere il Bacio di Klimt al Belvedere e poi, al Palazzo della Secessione, il suo Fregio di Beethoven (http://nuovateoria.blogspot.it/2012/03/gesamtkunstwerk.html).
a Palazzo Reale c'è un assaggio, un morso, o un dolcetto a fine pasto. ma qualcosa c'è, per appagare il gusto a quel gran banchetto reale che è l'arte di Klimt.
ci sono anche cose eccelse a dir la verità, ma sembrano poche data l'ingordigia, la fame che mi viene.
impazzisco per Salomè e le sue mani, il volto allungato, la spinta propulsiva in avanti, dove vai Salomè?, per la Filosofia e le Medicina, visionarie e potentissime, spregiudicate nell'arroganza oscura del potere, mi stupisco di Eva al fine così morbida, di sguardo e di forme, con il suo Adamo, vado via con la fantasia al Girasole che è una donna fiore floridissima, mi confondo davanti al camino come la signora sfuocata e sciolta dal calore del fuoco, mi sento bagnata dopo la Pioggia, liquida e nebbiosa, sono stregata dai fuochi fatui, i volti delle donne di Klimt hanno qualcosa di soprannaturale. 

 Salomè

 Adamo ed Eva

 Girasole

 Signora al camino

 Dopo la pioggia

Fuochi fatui

 Filosofia

 Medicina

La mostra a Palazzo Reale di Milano, che ha anche il merito di ricostruire tele andate perdute e strutture che non possono essere spostate dalla loro originaria destinazione, mette opportunamente in luce come Klimt non si riduca affatto allo stereotipo dell’artista che esprime solo stanchezza e pessimismo, in un’atmosfera di greve «decadenza». Il carattere a un tempo stesso affascinante e terribile della natura trova un corrispondente nella capacità di andare oltre la superficie delle apparenze anche nella rappresentazione della figura umana, specie di quella femminile. Così un meraviglioso Girasole (1907-1908) può diventare donna, mentre le eroine bibliche, nel male e nel bene, come Giuditta e Salomè, possono addirittura sembrare delle temibili piante carnivore e le loro nere capigliature, segni della forza della passione, «formano un cielo scuro tra i rami degli alberi assiri, simboli di fertilità che raffigurano l’erotismo», come nota il Nobel Eric Kandel nel suo splendido L’età dell’inconscio. La spregiudicatezza nei contenuti significa per Klimt anche una rivoluzione dello stile. Di fronte al realismo che ormai ci è consentito dalla fotografia, l’artista viennese abbandonava l’ideale di imitare lo spazio tridimensionale su una superficie piana — quel che a suo tempo Galileo Galilei considerava «l’eccellenza della pittura» rispetto alle altre arti — per una voluta «piattezza» che ricordava le figure su fondo oro dei mosaici bizantini. Ma ora si tratta di una spiritualità tutta carnale, come mostra l’incompiuto Adamo ed Eva (1917-1918) che conclude l’esposizione milanese. Il corpo di lui quasi si perde nello sfondo, quello di lei prorompe dal dipinto, e senza alcun senso di peccato: chiaro è il Sì alla vita della donna, e il Serpente è scomparso. 
Giulio Giorello, La lettura 30 Marzo 2014

lunedì 2 giugno 2014

la vita raglia e cavalca nel suo incessante splendore

si è concluso maggio e questo strano inedito periodo di questa mia ultima vita.
un mese di sospensione del contratto di lavoro, un mese di rabbia e di angoscia per l'inconsistenza della sanità italiana e ancora di più dei "responsabili" che la malgovernano, ma anche un mese di strano splendore, di luce negli occhi.
ho avuto il tempo dalla mia parte, quel tempo che mi digrigna i denti per lo più, che mi minaccia e mi sfinisce, e così ho fatto amicizia.
ho fatto la spesa e sono andata in palestra, mi sono occupata delle casa del marito dei figli della tintoria dei colloqui delle commisioni e dei favori, alleggerita dalla pesantissima sensazione dello sfruttamento e dell'abuso della mia persona.
ho visitato mostre, visto film, sentito conferenze, e, sopra ogni cosa, ho letto molti libri al parco.
potrei dire che mi ricorderò di maggio e del suo tempo per la luce negli occhi leggendo libri seduta su una panchina del parco Sempione -o dei giardini pubblici di Milano- in compagnia fedelissima mai tradita della mia bicicletta.
niente auto, il tempo amico mi ha consentito di girare in bici, ovunque, all' analisi in bici, a scoprire Milano e i suoi angoli in bici, a fare l'ecografia alla mammella in bici, al mercato in bici, alla Triennale in bici, da Picard in bici, e anche al Parco Nord e nei parchi dell'EXPO (un giro organizzato dai FAI- La Via Lattea) ovviamente in bici.
il parco è un luogo privilegiato, lo posso dire con cognizione di causa. magari non nel fine settimana, ma durante la settimana lavorativa certamente si. il parco viene pulito e ripulito, viene abitato da mamme e bambini, da impiegati che ci vengono a mangiare nella pausa pranzo, da sportivi accaniti, da strane gente, anche.
ho visto un signore, una ragazzo quasi signore vestito in modo casual molto molto sgualcito con la camicia che fuoriesce malamente e inelegantemente dai pantaloni, girare ripetutatmente, penso facendo sempre lo stesso giro passandomi davanti più volte, camminando velocissimo e sempre con il cellulare in mano, parlando a voce altissima così che ho saputo tutti i fatti suoi. l'ho rivisto più volte quindi, ho pensato, lo fa tutti i giorni, sempre mordendo il sentiero e urlando, affanatissimo e inarrestabile, sempre girando in tondo, come probabilmente anche la sua vita.
ho visto una mamma cinese portare il figlio per un'ora al parco e parlare per tutta l'ora e dico TUTTA al cellulare. ho visto il suo bambino pietire la sua attenzione e riceverne urla sgangherate e certamente violente in cambio, e il cinese mi è sembrata una lingua schifosa.
ho visto molte mamme al cellulare parlare e parlare e parlare e parlare senza ricordarsi di vivere la loro vita adesso, con chi c'è adesso, con chi hanno adesso, quel figlio adesso, quella voce adesso, quelle manine adesso, quel bisogno adesso e invece parlare altrove, con una vita altrove che ora in quel momento non c'è.
il cellulare sostituisce la vita adesso con la vita che non abbiamo, perdendoci per sempre quel che conta, adesso, navigando nel mondo che non esiste e non lascia traccia, ma i nostri figli si, perdio.
ma la mia vita adesso, adesso maggio, è stata libri, lettura, cultura e tanto tanto sole sul mio corpo, la mia faccia, le mie gambe, le mie mani e i miei occhi.
ho finito di leggere Spendore, Margaret Mazzantini:
Sai come chiamano le mimose, ragazzo? Il fiore che si vergogna. Sono di buon augurio a chi si mette in viaggio. Adesso scendono nell'acqua, battezzano il blu. Ma tu non vergognarti del viaggio. La vita, credimi, non è un fascio di speranze perdute, un puzzolente ricamo di mimose, la vita raglia e cavalca nel suo incessante splendore.
potente e inesorabile come sempre, anche l'amore costa, costa tutta la vita intera.
la parola taglia, rompe e consuma, la ricerca dell'unicità costa tutta la vita intera.
ho letto  Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom:
La speranza? La speranza è il male supremo!" gridò addirittura Nietzsche. "Nel mio libro Umano, troppo umano ho affermato che quando il vaso di Pandora fu aperto, così che tutti i mali lì rinchiusi da Zeus dilagarono per il mondo dell'uomo, ve ne rimase uno, ignoto a tutti, quello supremo: la speranza. E' da allora che erroneamente l'uomo considera il vaso e il suo contenuto uno scrigno di buona fortuna. Ma abbiamo dimenticato il desiderio di Zeus che l'uomo continui a farsi tormentare. La speranza è il peggiore dei mali perché protrae il turbamento. 
è la storia del rapporto, puramente ipotetico, intelligente e fantasioso, tra Joseph Breuer e Frederick Nietzche. Breuer cura le emicranie del filosofo e l’altro ascolta le ansie e le preoccupazioni del medico, inquadrandole con suggerimenti filosofici o pedagogici, in una sorta di consulenza filosofica che sfiora di continuo le teorie freudiane, che fa del racconto il passaggio attraverso un'analisi.
ho letto Marina Bellezza, Silvia Avallone:
Io non voglio diventare ricco, non voglio diventare famoso, non voglio vivere con l'assillo di essere di più o di meno degli altri!» Esplose, finalmente. «Quella vita lì è un inferno, l'ho visto quando mio padre è diventato sindaco, che avevamo tutti quei giornalisti in casa... A me non interessa. Mio fratello scrive sulle riviste d'ingegneria aerospaziale» sorrise, «gli pubblicano gli articoli con il suo nome, bello grande neanche fosse Obama... Io voglio essere invisibile, capisci? Non voglio lasciare traccia, voglio solo svegliarmi la mattina e stare bene!» Gridava. «Non posso sentirmi in colpa per questo. Non voglio vendermi la vita. Mio nonno si metteva a piangere quando gli moriva un vitello, quando ne vedeva nascere uno... Era un uomo felice!
all'inizio non l'ho ritenuto un libro possibile. all'inizio mi è sembrata la brutta copia di libri già letti, di Come dio comanda di Niccolò Ammaniti, all'inizio ho pensato di smetterla lì. poi, con la luce negli occhi, mi sono detta che sono piena di pregiudizi e molto puzzona in fatto di letteratura, e cultura in genere,  e me lo sono poi letto tutto d'un fiato. è un libro moderno, di una scrittura moderna, di uno stile moderno al quale però, nonostante tutta la banalità del moderno,  riconosco di avere qualcosa da dire. il desiderio appagga, il godimento affossa nella ripetizione sintomatica dell'infelicità.
ho letto Non è più come prima, Massimo Recalcati:
L'amore che dura è l'amore che vuole vivere ancora. Non sopravvivere. Lacan definiva la parola d'amore più alta quella che recita: "ancora". Ancora come adesso, ancora come oggi, ancora te, ancora te per sempre. Ancora non esige il ricambio del vecchio oggetto per il nuovo - come accade nella logica del capitalismo - ma mostra che il Nuovo è nel rinnovare l'amore nello Stesso. Se questo miracolo esiste allora l'amore dura e non si lascia consumare.
da leggere, per pensare a ciò che può sussistere nella nostra vita fatta di niente che rincorre i niente pensando che siano il tutto. amore è ancora, un atto di fiducia verso l'ancoraggio a un mondo di senso.
e sto leggendo Viaggio al termine della notte, Loui-Ferdinand Celine.
...Non posso trattenermi dal dubitare che esiste una qualunque genuina realizzazione del nostro più profondo carattere, tranne la guerra e la malattia, quelle due infinità dell'incubo. 
e qui siamo nel mondo della parola che cerca il vero, che non si difende dalla morte, che sputa in faccia alla vita il suo peggio con scandaloso linguaggio, a costo della follia e dell'emarginazione, nella speranza che, lottando, qualcosa di umano ci differrenzi dal nulla.
È forse questo che si cerca nella vita, nient'altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi, prima di morire. Sono passati anni da quella partenza e poi ancora anni... Ho scritto spesso a Detroit e poi altrove a tutti gli indirizzi che mi ricordavo e dove potevano conoscerla, seguirla Molly. Non ho mai ricevuto risposta. [...] Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d'America.

domani torno a lavorare, in un luogo senza speranza di un meglio.
il tempo amico è finito, tornerà a ragliare, la luce negli occhi è finita. 
li cercherò in altro modo, forse nel sollievo dei miei pazienti.