bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 30 gennaio 2014

la bella gente del teatro Manzoni

lo spettacolo -Blind Date, teatro danza, The Darmstadt State Theatre Dance Company, coreografie di Mei Hong Lin, allieva prediletta di Pina Bausch- è una vera assoluta delizia: vivace, allegro, divertente, interessante, appassionante.
siamo sulla scia di Pina Bausch e quindi siamo nell'eccellenza della corporeità contemporanea. e ho detto tutto.
ma.
il teatro, Manzoni di Milano, è uno schifo.
non l'edificio in sè, anzi: vecchia gloria milanese, poltrone di velluto rosso vecchie un po' disfatte, una vera testimonianza del glorioso tempo teatrale di Milano, ma il suo pubblico.
orario di inizio 20.45. alle 20 e 30 sono in teatro, con non pochi sacrifici dati i miei tempi lavorativi e familiari, alle 20 e 40 sono seduta. 
alle 21.00 la sala è ancora piena, affollata, inquinata e asfissiata da gente che ancora non ha preso posto. non solo è arrivata con oltre 15 minuti di ritardo, e non sembra affatto darsene pena, ma nemmeno si siede.
la qualità umana del pubblico è di quella che io, dall'alto, magnanimo e altruista, della mia cultura democratica di sinistra, mitraglierei al muro senza un briciolo di pietà. anzi, con godimento viscerale, una morte netta, senza torture, al muro, bang, inesorabile e pulita. la prima è la signora, ormai ultracinquantenne, in minigonna, magra anoressica, completamente rifatta e cotonata che, abbonata di certo da secoli, tutti quelli che si porta penosamente e senza eleganza sulle spalle, al suddetto teatro (probabilmente di zona, e siamo in via Manzoni, Via Montenapoleone, chi ha orecchie per intendere intenda), passa, sorpassate ampiamente le 21 ovviamente, davanti alla prima fila per poi portarsi al suo posto effettivo, 10 file più indietro, con il solo eccelso voluttuoso scopo di farsi vedere dal pubblico che spera la acclami come la première dame della serata. faccio notare che i ballerini (quelli invece li sposerei tutti), sono già in scena, si allungano tra gli spettatori e le poltrone, tra le gallerie e gli scalini che portano al palco, stanno iniziando a scaldare l'ambiente con le loro mosse e sguardi, passaggi e volteggi, siamo al corteggiamento del Blind Date. ma la signora non li vede, ecchemifrega, non è venuta a teatro per vederli, ma per farsi vedere, ed è ben altra cosa.
ecco lei è la prima, prego si rivolga faccia al muro, sarà un attimo, la prego non faccia storie, silenzio per favore. clic. bang. finita, l'abbiamo fatta finita.
ma le file delle chirurgicamente rifatte sono molteplici, signore che di Pina Bausch non sanno nemmeno vagamente ripetere il nome, gente ignorante, si sono sbagliate, non hanno letto bene lo spettacolo di questa sera, non c'è ezio greggio e nemmeno la santarelli (pensate quale gusto, la sana e muscolosa ragazza farà la parte di Marilyn nella versione teatrale di Quando la moglie va in vacanza!). alle 21.00, la madre di famiglia, ancora si aggira con il pargolo (7 anni? a teatro? si finisce alle 23? non è meglio tenerlo a casa a dormire?) ancora, cazzo, non si siede, i ballerini le girano intorno, la salutano, che le vogliano far capire che, cazzo, è tempo di sedersi per dare inizio allo spettacolo? no, ma va, gira volteggiando, mostrando la sua creatura dalla faccia vagamente sperduta e parecchio assonnata, e ancora non capisce che lo spettacolo doveva iniziare 20 minuti fa e non comincia anche causa sua. un cicaleccio continua e perdura, la gente chiacchiera, sono le 21.05, si bacia, ciao tesoro, siamo qui anche questa sera, ma che c'è di bello da vedere? durante lo spettacolo la gente applaude di continuo, ad ogni cambio scena, o durante le scene stesse, i ballerini attori si interrompono, pazientemente, dato che gli applausi inopportuni coprono le loro battute. non sa, il colto pubblico in sala, che non si applaude di continuo ma a fine spettacolo, trattandosi di atto unico, magari  anche per tutto il tempo che si vuole.
sono atterrita. mi vergogno della gente, dell'ignoranza e della maleducazione, dei soldi che arricchiscono  pur nell'insipienza e nella deficienza, delle donne coglione e rifatte, degli annullamenti facciali chirurgici quasi sempre contemporanei a grave deficit di maturazione cerebrale. compro quindi sono.
detto questo, dello spettacolo, veramente delizioso, riparleremo.

martedì 28 gennaio 2014

Rodin: la germinazione della carne

e forse non è nemmeno il bacio la statua, il marmo più bello di Rodin alla mostra di  Palazzo Reale.
è un'esposizione singolare, le statue in fila, una dopo l'altra,  su più file, in modo essenziale e poco enfatico, poco celebrativo, una presentazione fuori dal comune, tutte raccolte nella Sala delle Cariatidi del nostro bel Palazzo regio.
sono una più bella dell'altra, un crescendo continuo, una sinfonia bianca.








una delle opere più emblematiche del periodo è La mano di Dio, che regge il blocco di terra da cui sono plasmati gli esseri umani. raccontava lo scrittore Camille Mauclair: «Ho detto un giorno a Rodin: “Si direbbe che voi sappiate che nel blocco c’è una figura, e che vi limitiate a rompere tutto intorno l’involucro che la nasconde”. Mi ha risposto che “era esattamente questa la sua impressione mentre lavorava”».



figure che nascono dal marmo e sembrano non liberarsene, sono lì, magari incomplete, solo una parte del corpo emerge, il resto rimane magmatico, imprigionato nella matrice originaria, nell'impronta materna del marmo.
i volti rimangono nascosti esaltando il busto, magari la schiena, a volte il corpo non esiste, c'è solo una mano, oppure affiora un volto, senza corpo, ancora irresoluto nel mondo della non esistenza. 
ogni statua è una nascita, una nascita dal nulla, dal nitore del vuoto.
per me, credo di averlo già scritto in un post su una mostra di Rodin a Legnano di alcuni anni fa (http://nuovateoria.blogspot.it/2011/05/la-bellezza-e-ovunque-e-non-vi-e-nulla.html), si tratta di una potenza espressiva senza eguali, del corpo che parla, di carne che esulta, di vita che spinge.
rimango catturata da questi marmi che conservano una sorta di indefinito e di incertezza, mi sembra di assistere a dei parti, alla creazione dell'uomo, ad adamo ed eva, all'emersione del corpo dal nulla dell'indefinito del cosmo.
e c'è di più, c'è l'eros, c'è una carnalità viva e pulsante, c'è sessualità.
a pensarci parrebbe difficile che la pietra possa comunicare erotismo, eccitazione, immaginazione erotica, eppure qualcosa freme, e vibra, qualcosa si muove in quei corpi apparentemente statici, qualcosa pulsa, vitalissimo, è un messaggio che arriva dritto al cervello.
almeno al mio.

sabato 25 gennaio 2014

Una sola volta compresi lo scopo della vita

Anne Sexton 

Una sola volta

Una sola volta compresi lo scopo della vita.
Accadde a Boston, inaspettatamente.
Camminavo lungo il Charles
e vidi le luci duplicarsi, tutte
con il cuore al neon e vibrante,
spalancando la bocca come cantanti dopera;
e contai le stelle, le mie piccole veterane,
cicatrici fiorite, e capii che stavo portando
il mio amore sulla sponda verde notturna, e in lacrime
aprii il cuore alle auto dirette a est e a ovest
e feci passare un ponticello alla mia verità
e la condussi a casa in fretta col suo fascino
e fino allalba accumulai queste costanti
per scoprire poi che se nerano andate. 


Anne Sexton


accumulai queste costanti, la bellezza di un poeta è il suo linguaggio, e si capisce se unico o se preso a prestito. 
ma si è così dai, per un attimo capisci, ho una mia dignitosa verità, apri un ponte, lasciando passare, lasciando penetrare, stupiti fino alle lacrime, ma è l'illusione di un attimo, nemmeno di una notte intera.

giovedì 23 gennaio 2014

gli sdraiati

l'ho letto, in un paio d'ore.
definire, questo, un bel libro è la solita distorsione dei tempi nostri.
non è un libro, sono alcune pagine scritte.
si ride anche, e ci si annoia pure.
certe digressioni sulla Grande Guerra Finale tra giovani e vecchi ha reso ancora più veloce la sua lettura, le ho saltate, per tedio.
avevo letto, su un banner,  una specie di commento, direi un'esclamazione, di Massimo Recalcati che lo ha definito: irresistibile!!, me ne stupisco e anche rammarico.
pur con qualche distanza su alcune considerazioni fin troppo partigiane, l'articolo di Antonio Polito su La Lettura, che riporto, mi trova molto d'accordo.
ridacchio sulle considerazioni, comiche, sul disordine imperante, sulla sporcizia dilagante, sull'abbandono di ogni rigore, e, leggendo, mi dico: ma lui, il padre, dov'è? e l'altro, il figlio, chi è?
il primo si defila sulle regole, lo ammette, ma non sa esimersi dal richiedere il riconoscimento del suo senso estetico, che sia una vetta di montagna o una vendemmia, l'altro appare in prevalente posizione orizzontale, ma non solo, e sembra un cagnolino che sporca molto e pensa poco. difficile stabilire chi sia più mancante e ove origini la mancanza, dell'uno e dell'altro.
alla fine il libro mi ha infastidito, mi ha lasciato un senso incompiuto, e non posso certo dire di non essere a corrente della morte del padre edipico e del figlio complessato, delle evoluzioni odierne, ormai certezza, di un senso di colpa che non fa più presa, di una legge che non orienta il desiderio, di un vuoto genitoriale cui consegue uno spiattellamento digitale filiale. so di che parla il Serra, ma mi domando se ne parla. 
quel che mi resta è il rapporto, diciamo il contatto, tra due sconosciuti, due frequentatori di uno stesso spazio lercio e maleodorante, di una incomunicabilità senza scampo, l'una nativa digitale l'altra notoria formale, e senza alcun particolare merito letterario nello stile dei fumetti.


I nostri figli sdraiati, i padri capovolti
Michele Serra nell'ultimo libro fa il relativista sui valori etici e l'imperialista estetico.
Così aliena il ruolo di genitore e si disinteressa dei gusti culturali dei giovanissimi.

E se l’«universo sconosciuto» di cui ha scritto Barbara Stefanelli sul «Corriere della Sera» fossimo noi? Noi padri, intendo, e non i nostri figli adolescenti che tanto incomprensibili ci appaiono? E se, come in un racconto di fantascienza, gli umani si rivelassero i veri alieni? Devo confessare che il dubbio mi è venuto leggendo Gli sdraiati, l’ultimo libro di Michele Serra (edito da Feltrinelli). Molto bello, e molto popolare a giudicare dalle classifiche dei più venduti. E proprio per questo meritevole di una buona polemica, perché lì dentro c’è un bel po’ di senso comune della nostra generazione, di noi figli ribelli del baby boom, diventati genitori obbedienti di figli perlopiù unici, e solitamente viziati.

Il fatto è che leggendo Serra, la lunga lettera di un padre a un figlio incomunicante, ho parteggiato per il figlio. E questo è grave, per un genitore. Insomma, l’ossessione del protagonista per la cura delle portulache sulla terrazza della seconda casa al mare, per il rito annuale della vendemmia del Nebbiolo nella seconda casa di un’amica nelle Langhe, e per la scalata di un fantastico quanto simbolico Colle della Nasca (presso il quale par di potere ipotizzare una terza casa), tutte magnifiche attività borghesemente colte, o coltamente borghesi, che il padre vorrebbe imporre al figlio come prova di maturità, e di amore del bello, e di pregnanza dell’esperienza umana, paiono noiose e stravaganti a me, figurarsi al figlio. Il quale, non a torto, se ne resta sdraiato e iperconnesso sul divano della prima casa, emulando i coetanei che su Twitter si sono battezzati indivanados per distinguere la loro pigra rivolta da quella più attiva degli indignados (e che temo che Serra si sia perso perché, come da lui dichiarato, ha rifiutato la frequentazione di Twitter, giudicato troppo banale con i suoi 140 caratteri).

Ma Serra e io siamo coetanei (anche se lui ricorda il suo Sessantotto di quattordicenne mentre io, allora dodicenne, no) siamo cresciuti vicini, abbiamo lavorato nello stesso giornale («l’Unità») e sospetto che abbiamo votato a lungo lo stesso partito. E allora, mi domando, che cosa è successo perché io sia finito dalla parte del figlio invece che del padre-narratore? Io penso si tratti di questo: quel padre dichiara di essere un «relativista etico», riluttante dunque a trasmettere valori, a cercare verità, a parlare del bene e del male; ma, forse per compensare, si comporta come un assolutista estetico, comicamente ostinato nel tentativo di trasmettere un’idea di buon gusto, uno stile di vita, una concezione del bello. Da parte mia sono invece giunto alla conclusione che sia meglio fare l’opposto, e che il fallimento genitoriale della nostra generazione (e se è per questo anche della sinistra dal cui alveo veniamo) nasca proprio dall’aver tentato di sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Penso che noi padri dovremmo ricominciare a essere «etici», lasciando in compenso in pace i nostri figli sull’estetica.

Mi stupisce per esempio che nel padre di Serra, così inorridito dalla generazione wireless, dagli iPad, gli iPod e gli iPhone, non ci sia mai curiosità su che cosa il figlio ascolta, legge, condivide; che il rifiuto del mezzo (online) conviva con una sostanziale indifferenza al messaggio. Questo ragazzo «sdraiato» studia? Legge, seppure su un ebook? Che musica ascolta, satanica o angelica? Crede in Dio o in qualche forma di trascendenza? Ama? Non si viene a sapere niente di tutto questo dal libro, probabilmente perché il padre narratore non lo sa, e forse non lo sa perché non gli interessa. Ciò che sommamente lo smuove è piuttosto come il figlio accartocci l’amato kilim, o dove e in che condizioni sparga i suoi calzini. Niente che non possa risolvere una brava colf, che sicuramente non mancherà con tutte quelle case in giro per mari e monti.

Ma anche tutta la confusione, e perfino l’odore che l’adolescente promana (del resto è perfino etimologico che un adolescente abbia odore), par di capire che sarebbero tollerati se solo il ragazzo una volta all’anno vendemmiasse il Nebbiolo, o una volta nella vita ascendesse il Colle della Nasca, cedendo così al gioco di potere del genitore. Perché, e questo è per me il punto chiave del libro, tutte queste cose non sono concepite dal padre come gusti personali, e pertanto discutibili: «Come farti capire — scrive disperato — che non è la mia vita, ma è la vita degli uomini quella della quale io sono un così impacciato testimone?».

Dunque l’esperienza del padre interpreta niente di meno che «la vita degli uomini». Il ragazzo che la rifiuta quindi nega la condizione umana. Come potrebbero non sentirsi degli estranei i nostri figli, di fronte a tanta siderale distanza, a questa dicotomia umano/non umano? Invece di cercare succedanei estetici all’autorità etica cui abbiamo rinunciato, dovremmo piuttosto parlare con loro della verità. Non per convincerli della nostra, o ancor meno per piegarli alla nostra (il Sessantotto è stato davvero utile da questo punto di vista, anche se in Italia è durato troppo, dieci anni, ed è finito nel sangue di Aldo Moro).

L’educazione non si impartisce, è la libertà di una persona che incontra la libertà di un’altra. Ma se noi non abbiamo niente da dire sulla verità, di che cosa pretendiamo di parlare con i nostri figli? Come potranno cercare la loro verità, magari diversa, forse opposta, se noi ne abbiamo paura? Perché ci dovrebbero ascoltare mentre ci crogioliamo nei nostri riti di borghesi arrivati e progressisti, che non hanno più niente di cui stupirsi e più nessuna novità cui aprirsi e ai quali la verità non interessa più, perché il nostro pensiero si è fatto debole, debolissimo, quasi inesistente? Forse abbiamo paura della libertà dei nostri figli; temiamo che la usino male, ma non abbiamo niente da proporre in cambio. Forse, da «adulti politicizzati», qualche volta li odiamo persino; perché, come ha scritto Gustavo Pietropolli Charmet, rimproveriamo loro «di non avere nessuna intenzione di intristirsi per le stolide e appassite ragioni» per le quali abbiamo inutilmente sofferto noi. Forse gli alieni siamo noi.

Antonio Polito
La Lettura

mercoledì 22 gennaio 2014

inaspettatamente Cechov

TRE ATTI UNICI DA ANTON CECHOV 
Autore: Anton Cechov
Regia: Roberto Rustioni
Compagnia/Produzione: FATTOREK, ASSOCIAZIONE TEATRO C/R, OLINDA /Festival Castel dei Mondi di Andria
Cast: con Antonio Gargiulo, Roberto Rustioni, Valentina Picello, Roberta Rovelli
Teatro: Franco Parenti di Milano

Tre atti unici da Anton Cechov è una riscrittura scenica che tenta di scardinare la struttura chiusa – da vaudeville/farsa – dei tre atti unici (“L’orso”, “La domanda di matrimonio”, “L’anniversario”), rompere un genere allontanandosi anche da connotazioni storico-geografiche folkloristiche per arrivare al non transitorio, all’universale presente in questi piccoli gioielli cechoviani.
Anton Cechov cercava di catturare la vita così com’è, lontano dal soggettivismo e dal facile lirismo. Cercava un’emozione che non fosse sentimentalismo, un senso del tragico che non fosse melodramma, un umorismo per nulla grossolano. Detestava la magniloquenza e la retorica. A teatro non sopportava gli attori che recitavano troppo.
In questa fase di lavoro abbiamo lavorato ad una recitazione tesa ad una verità scenica, e che parta dall’essere autenticamente se stessi in situazione e abbiamo sviluppato una ricerca sul corpo, sui corpi isterici e nevrotici, corpi che esplodono e crollano, il corpo come veicolo per cui il teatro entra nella vita. Vediamo se resta qualcosa dello sguardo delicato e ironico di Cechov sulle cose, sul mondo, su di noi. 
Roberto Rustioni (regista e attore)




è stata una piacevolissima sorpresa.
uno spettacolo speciale.
attori bravissimi, giovani, una rilettura dei testi in versione moderna con molta tensione, anche moltissima ironia, a tratti vero divertimento.
uomini e donne -di questo si tratta in tutti e tre gli atti unici- relazione impossibile, relazione necessaria.
in fondo, a pensarci, è una vera ossessione. sempre in cerca di un contatto, quasi sempre incapaci di coltivarlo. già stanchi e sfiduciati prima di cominciare, già certi di non cascarci più, eppure ancora lì in cerca di quel momento, dello sguardo fulminante, dell'intesa dei corpi, della compagnia dell'altro, della sua comprensione.
sempre in cerca dell'altro senza aver capito niente, di noi e dell'altro.
il rapporto non è gratis, senza riflettere, senza ragionare, senza sapere di noi, non va.
funziona poco, funziona di rado, bisogna essere molto intelligenti perchè funzioni.
funziona per poco, funziona per alcune cose, non funziona assolutamente per altre.
eppure, chi sa rinunciare -ammesso che abbia un senso- al rapporto con l'altro?
chi sa stare solo?
io so solo che dalla solitudine, se si vuole stare e sapere stare con l'altro, bisogna passare.
chi non è mai stato solo, anche in due, solo sarà per sempre.

lunedì 20 gennaio 2014

un amore di Darcy

È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un'ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie.
adorabile Jane.
anche Orgoglio e Pregiudizio è una deliziosa passeggiata nella campagna inglese di 200 anni fa.
scopro che c'è un pullulare di meeting, anche in Italia a Riccione, rigorosamente in costume, di commemorazioni, di associazioni in suo nome, di pubblicazione su di lei e sui suoi personaggi. qualcuna, ovviamente rigorosamente femmina, si è addirittura inventata un Diario di Mr. Darcy, Fitzwilliam Darcy, ovvero la relazione con Elisabeth Bennet vista dal suo punto di vista. un delirio, il solito delirio al femminile.
perchè Darcy, Fitzwilliam Darcy, personaggio tenebroso, cupo, altero ma molto virile e coerente, entra nell'immaginario amoroso femminile come l'uomo più desiderabile al mondo.
ciò che lo rende irresistibile agli occhi delle donne, al punto da voler pensare alla sua versione dell'amore con Elisabeth, è la sua trasformazione. cosa può, una donna, desiderare al mondo, di più, di meglio, di più attraente e di maggiore testimonianza dell'amore, di un uomo che cambia per lei?
che meravigliosa invenzione quella di Jane, l'uomo cupo odioso inavvicinabile, ma profondamente retto e probo, che, per amore di Lizzy, modera e tempera il suo orribile carattere per ottenere il suo amore.
il desiderio malato di ogni donna: cambierà per me, o meglio, io lo cambierò.
ed ecco che Darcy manda in deliquio schiere di femmine, procura orgasmi a raffica, mette in fibrillazione erotica lettrici affamate di amore, amore quello vero.
peccato che Darcy, a voler ben guardare, non cambierà su richiesta di Lizzy, non sarà lì mutacico e ombroso ripetutamente scrollato dalle lamentele della sua amata che gli ricorda il suo dovere di fidanzato e amante brillante e premuroso. amami come si deve, santocielo! 
Elisabeth lo rifiuta, gli dice: gira al largo bello, i tuoi modi mi fanno orrore. sei maleducato e presuntuoso e ti trovo francamente inavvicinabile, infrequentabile. smamma.
"Vi state sbagliando, Mr. Darcy, se immaginate che il modo in cui vi siete dichiarato mi abbia colpito in altro modo, oltre a quello di risparmiarmi il dispiacere che avrei provato nel rifiutarvi, se vi foste comportato più da gentiluomo." 
A questo punto lo vide trasalire, ma senza dire nulla, e lei andò avanti, "Avreste potuto offrimi la vostra mano in qualunque modo, e io non sarei mai stata tentata di accettarla." 
Lo stupore fu di nuovo evidente, e lui la guardò con un'espressione insieme di incredulità e umiliazione. 
Lei proseguì, "Fin dall'inizio, potrei quasi dire dal primo istante in cui vi ho conosciuto, il vostro comportamento, dandomi la completa certezza della vostra arroganza, della vostra presunzione e del vostro egoistico disprezzo per i sentimenti degli altri, era tale da costituire il fondamento di una disapprovazione che, per gli eventi successivi, si è consolidata in una inalterabile avversione; vi conoscevo da meno di un mese, e già sentivo che sareste stato l'ultimo uomo al mondo che mi sarei lasciata convincere a sposare." 
"Avete detto abbastanza, signora. Comprendo perfettamente il vostri sentimenti, e ora devo solo vergognarmi dei miei. Perdonatemi per avervi sottratto così tanto tempo, e accettate i miei migliori auguri per la vostra salute e la vostra felicità."
quel che Jane, nella sua infinita saggezza dice a me, è che Darcy muterà su sua volontà, su suo ripensamento, su sua riflessione e non, come le eccitabili lettrici pensano, sulla base dello sprone di una Elisabeth innamorata e in versione crocerossina. il percorso di Darcy sembra, ed è, autonomo, indipendente, mosso da un rifiuto che lo fa riflettere e non dipendente dalle incessanti, amorevoli per carità, richieste di una donna che porta il vessillo dell'amore pretendendone il giusto riconoscimento, e pagamento in termini di sacrificio umano.
non è l'amore che ci cambia.

adorabile Jane.
la sua visione è poi sempre un po' quella, quello che ho già letto in Ragione e Sentimento, la struttura del romanzo è pressochè identica, ma certamente la sua scrittura, la sua narrazione, è una meravigliosa vacanza di sogno. è un accompagnamento quasi necessario, una volta intrapreso.
inoltre, ne convengo, la sua Elisabeth Bennet è una figura rara, rara nel mondo, nel mondo presente e, oso pensare, introvabile al suo di tempo.
Elisabeth è ironica.
a volte addirittura sarcastica, tagliente, ma sopratutto ironica e critica verso sè almeno verso quanto gli altri. gioca con la parola, e la verità, la scardina, allude, rimanda.
quante donne ironiche conoscete?

dice Elisabeth ballando con Darcy, all'inizio, burrascoso, della loro relazione:
"Un po' si deve parlare, sapete. Mi sembrerebbe strano restare insieme per mezzora completamente in silenzio, eppure, nell'interesse di qualcuno, la conversazione dovrebbe essere organizzata in modo da far sì che si dica il minimo indispensabile." 
"Nel caso presente state tenendo conto dei vostri desideri, o immaginate di fare piacere ai miei?" 
"Tutte e due le cose", rispose Elizabeth maliziosamente; "poiché ho sempre notato una notevole affinità nelle nostre menti. Abbiamo entrambi un temperamento poco socievole e taciturno, poco propenso a parlare, a meno che non ci si proponga di dire qualcosa che farà colpo su tutta la sala, e che sarà trasmesso alla posterità con tutto il lustro di una massima." 
"Sono certo che in questo non ci sia molta affinità con il vostro carattere", disse lui. "Quanto possa essere vicino al mio, non posso essere io a dirlo. Voi lo considerate senza dubbio un ritratto fedele."


adorabile Jane.
Jane for ever.

domenica 19 gennaio 2014

il ricordo d'una certa immagine non è che il rimpianto di un certo minuto

La realtà che avevo cosciuto non esisteva più. Bastava il fatto che la signora Swann non giungesse identica nel medesimo istante, perchè il viale fosse un'altra cosa. I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono soltanto al mondo dello spazio, nel quale li situiamo per maggiore facilità. Essi non erano che uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che formavano la nostra vita d'allora; il ricordo d'una certa immagine non è che il rimpianto di un certo minuto; e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimè, come gli anni.
M. Proust, La strada di Swann.
i luoghi non esistono se non nella costruzione della nostra memoria. sono impressioni, come fotografie. non tutto ciò che troviamo nella nostra memoria è realmente accaduto, tutto si ritrova in essa, anche quello che non è stato.
laddove qualcosa è accaduto, percettivamente, emotivamente in noi, quel luogo esiste.
nessuno, come Proust, ha scandagliato il mistero della memoria e tutta la verità simbolica che porta in sè.

giovedì 16 gennaio 2014

piovono angeli

adesso potrei anche farla lunga e riproporre le belle spiegazioni che ho ricevuto ammirandola.
ero nella bella sala Alessi di Palazzo Marino, come nelle occasioni precedenti, durante le feste natalizie e mi sono ritrovata in questo spazio magico.
potrei riportare, e magari lo faccio, alcune belle parole lette sul Corriere della Sera a proposito della bellezza delle nuvole e degli angeli.
ma, alla fin fine, quel che voglio veramente è mettere qui, a casa mia, l'immagine di questa strabiliante meraviglia che ho avuto la fortuna, insieme a molti miei concittadini, di poter vedere.

La Madonna di Foligno di Raffaello
Appena 25enne, Raffaello fu chiamato da Papa Giulio II della Rovere nei Palazzi Apostolici per decorare e affrescare il proprio appartamento privato. L'artista era molto giovane, ma sia a Roma sia a Firenze tutti sapevano che si trattava di un vero prodigio di bravura, già in possesso di una cultura figurativa immensa, nata nell'ambiente di Urbino, sua città natale - fra le preziosità fiamminghe, la pulizia di Piero della Francesca e l'umanesimo raffinato della corte ducale - e cresciuta nella cerchia di Pietro Perugino. 
E' il pittore urbinate il protagonista dell'iniziativa, giunta quest'anno alla sesta edizione, che vede Palazzo Marino a Milano teatro dell'appuntamento con un unico capolavoro della grande storia dell'arte, in occasione delle feste natalizie. Da domani, nella Sala Alessi, il pubblico potrà ammirare gratuitamente la pala "La Madonna di Foligno", realizzata da Raffaello intorno al 1512. Quest'anno Eni inaugura un accordo con i Musei Vaticani, dalla cui pinacoteca proviene l'opera. 
Il capolavoro rinascimentale, olio su tavola, trasportato su tela, poco conosciuto, fu dipinto dal maestro su incarico del segretario di Papa Giulio II, Sigismondo de' Conti, come ex voto per il miracolo che aveva visto uscire la sua casa di Foligno illesa dopo essere stata colpita da un fulmine, o da un meteorite.  
Sigismondo de' Conti, illustre umanista di Foligno, è raffigurato genuflesso in preghiera sulla destra, San Gerolamo (col viso di Papa Giulio II), in abito cardinalizio, lo presenta alla Vergine, seduta in cielo col Bambino; sulla sinistra San Giovanni Battista, vestito di pelli, indica la visione celeste, davanti cui s'inginocchia San Francesco, alla cui chiesa il quadro era destinato. Sullo sfondo un meraviglioso paesaggio e un elemento luminoso che cade su una casa. "Chi volesse aver conferma degli interessi cromatici di Raffaello negli anni 1511-1513 - spiega Antonio Paolucci, magistrale storico dell'arte e direttore dei Musei Vaticani -, deve sostare di fronte al paesaggio dipinto sullo sfondo della pala, un paesaggio così ricco di "toni", così scintillante e quasi brulicante di materia luminosa, che subito viene da pensare a Giorgione, al Lotto, al ferrarese Dosso, alla veneziana civiltà del colore… Non si può essere più bravi di così. Lo sapevano i contemporanei di Raffaello e continuiamo a pensarlo noi, cinque secoli dopo la sua morte". 





quel che mi piace di questa rappresentazione, pare di essere a teatro, sono molti aspetti, mi piace la madonna con il suo bambino che sfugge un po', vivacemente, alla sua presa -che immagine familiare, confidenziale, domestica in tanta sacralità!- e cerca di camminare sulle nuvole, mi piacciono i loro volti bellissimi, mi piace quel putto angelico che volge in alto il suo sguardo, curioso e che mostra una tavola vuota, cosa manca in quello spazio vacante?, è lassù che vorrebbe essere?, mi piace il movimento di mani dei personaggi nella parte inferiore, questo scambio di cortesie tra i partecipanti, compreso chi guarda, ma quel che mi piace sopra ogni cosa, sono quelle nuvole azzurre, blu, intense e abitate, formate, da angeli bellissimi in posizioni multiformi, dagli sguardi gentili, spazio e nuvole, tutto e niente, corpo e inconsistenza, tra poco pioveranno dal cielo sulla terra. 
mi piace quella corona azzurra a delimitare lo spazio dorato che ospita la madonna il suo inquieto bambino, che voglia, il piccolo Gesù, raggiungere gli angeli per stare con loro?

Scrive Emanuele Trevi sul Corriere della Sera (il 27 novembre 2013):
Bisogna ammettere che la Madonna di Foligno sembra dipinta apposta per tutt'altri spiriti: non necessariamente "religiosi", ma inclini alla fantasticheria  e allo stupore, amanti di illusioni e di miraggi. Quello che Raffaello ha dipinto intorno alle figure in primo piano è un paesaggio che per sottili transizioni di toni cromatici e volumi diventa un Cosmo. Partendo dal basso vediamo un a terra fradicia di pioggia da cui si leva un velo di bruma autunnale. Salendo, questa foschia si irrobustisce e, a un certo punto viene promossa al rango di nuvola acquistando volume e consistenza, ma soprattutto la capacità di generare forme. E come dal latte viene fuori la ricotta, dai cumuli di nuvole ecco apparire gli angeli, quel meravigliosi cherubini che si possono considerare a questo punto, come la quintessenza dell'atmosfera....Ma ancora più emozionante è rendersi conto che quello di Raffaello non è un semplice percorso ascensionale, ma un vero e proprio ciclo. L'alto e il basso sono una ruota, un anello magico. Quei deliziosi cherubini non se ne resteranno appesi al soffitto. Sanno bene di essere fatti della stessa sostanza delle nuvole, e della foschi. Ancora qualche minuto, e torneranno a visitare quella terra che evaporandoli aveva generati. In parole povere, cominceranno a piovere.
La pioggia che ci bagna è la carne degli angeli: è una visione talmente sublime e sorprendente da far girare, letteralmente, la testa: tutto sommato, non è sempre stato questo lo scopo più importante della pittura, della musica, della poesia?

martedì 14 gennaio 2014

Questa città divenne per me il più bel luogo della terra.

Questa città divenne per me il più bel luogo della terra. 
(Stendhal, che, tra un soggiorno e l'altro, visse a Milano per circa sei anni)

in una bella domenica mattina d'inverno, ieri, mi sono recata a vedere una bella mostra fotografica.
passeggiando nel famigerato quadrilatero della moda, tra l'odiosa via Montenapoleone e l'insopportabile via Sant'Andrea (era anche il we della moda maschile...figuriamoci cosa c'era in giro!), mi sono infilata, rapidamente, in quel di Palazzo Morando.
quivi si teneva questa mirabile esposizione: Milano tra le due guerre, alla scoperta della città dei Navigli attraverso le fotografie di Arnaldo Chierichetti.
la mostra è deliziosa, godibilissima, snella e ben congegnata.
attraverso gli scatti del fotoreporter milanese, conosciuto a Milano oltre che per il suo negozio di ottica in Porta Romana, anche per essere stato uno dei primi a immortalare con la sua macchina fotografica la vita quotidiana di quei tempi, si ammirano le foto di una Milano primi anni del 900, tra le due guerre, ormai per lo più inesistente, soprattutto se ci riferiamo all'interramento dei Navigli che la percorrevano e la completa ristrutturazione del quartiere attorno al duomo, il Bottonuto.
Ampie documentazioni fotografiche racconteranno la storia dei Navigli e la copertura della fine degli anni '20, in virtù di uno scellerato piano regolatore che privilegiò la funzionalità alla bellezza e alla tradizione, cancellando in un sol colpo quella connotazione di civiltà acquatica che aveva caratterizzato Milano per almeno otto secoli. La demolizione del Bottonuto - il quartiere medievale situato a ridosso di piazza Duomo, in quell'area che oggi possiamo approssimativamente identificare con l'isolato a sud di Piazza Diaz – modificò in modo irreversibile il cuore di Milano, lasciando il posto alla modernizzazione e alle speculazioni immobiliari che hanno caratterizzato in modo drastico il rapporto della città con la sua storia, con il suo passato, indicando una strada che di lì a poco sarebbe diventata il modello dell'intero sviluppo urbanistico.
le foto, alcune davvero pregevoli altre semplicemente descrittive, mostrano zone ancora riconoscibili, altre invece una Milano che non c'è più e, lo devo dire, qualcosa si stringe in me. le vie d'acqua, le case a ridosso dei navigli, la vita a contatto con l'acqua, i ponticelli, le zone pedonali, il Verziere, tutta la zona adiacente al Duomo, la vecchia Darsena con il primo approdo della canottieri Milano, mostrano un'altra città. sporca, povera, malconcia per certi aspetti, ma infinitamente romantica. attraente, seducente.
sono davvero grata a chi mi ha permesso di vedere la città che vide mia madre, che visse mia madre, che rimpianse mia madre tutta la vita a partire dalla scomparsa dei Navigli in poi. quante volte, passando da Via San Marco, mi ha ricordato che lì, al posto del parcheggio, c'era un laghetto, che là, in Via San Damiano, c'era il ponte delle Sirenette, che la Darsena era ben altra cosa dal letamaio che è ora.
questa mostra va vista, chi abita a Milano la deve vedere, è una generosa proposta di foto, di cultura e di rimpianto che non può passare inosservata, di enorme valore documentale e storico, di grande importanza riflessiva sulle miopie urbanistiche antiche e odierne.

 sciostra in Via Santa Sofia
la copertura della Fossa Interna
 il Bottonuto
 la Darsena
 San Marco e il Ponte "Dei Medici"
 sede Canottieri Milano sulla Darsena
 il ponte delle sirenette
 la Conca dell'Incoronata
 porta Romana
il laghetto di via San Marco

l'ultima parte della mostra è dedicata alla descrizione del Bottonuto, questo quartiere che era a ridosso del Duomo che fu completamente demolito a favore della visione odierna della città, più ariosa certamente, meno affollata di case e palazzi. è veramente impressionante vedere le foto di una città che non riconosco, eppure si vede la guglia del duomo sullo sfondo!, case, edicole, negozi ormai solo appartenenti alla memoria fotografica.

La contrada del Bottonuto era fatta di popolo e di sangue. Il ventre della città, povera gente, poche regole. Ma il cuore aristocratico batteva a due passi, in piazza Duomo, e i benpensanti storcevano il naso passando per il vecchio Verziere, in quel dedalo di vicoli che collezionavano solo cantoni maleodoranti e facce da «ligera», buone per la galera. C' era il vicolo del Bottonuto, dove ora è via Albricci, e il rione tutt' intorno. Via Vedraschi, vicolo Carnadin e la torre del sale di via Vallone sono scatti sbiaditi del civico archivio fotografico, datati 1884. Non esiste più nulla ovviamente, se non storie da raccontare. Gli anziani ricordano ancora le «case chiuse» che abbondavano nella zona, soprattutto una super in via Chiaravalle e un' altra in via Bergamini (la via dei venditori di formaggi provenienti da Bergamo). E poi, vespasiani e friggitorie a ogni angolo. Una vergogna per la Milano bene. Il Piano regolatore del 1937 restituisce alla via Adua l' antico nome di via Larga e, soprattutto, cancella il quartiere. Un colpo di spugna sulle vecchie case e sulla storia.
(Tesorio Giuseppe, Corriere della Sera 2010)
le foto sono accompagnate da commenti accorati di alcuni scrittori che si vedono defraudati della loro città, del loro quartiere, delle case e dei negozi, dell'ambiente ormai familiare che li accoglie ogni giorno, degli angoli e delle strade.
si legge, tra le foto, anche una bella, e lunghissima, poesia di Aldo Palazzeschi, veloce e futurista, La passeggiata, che richiama una città indaffarata e operosa, insegne, negozi e commerciati, una città che sale...

- Andiamo?
- Andiamo pure.

All'arte del ricamo,
fabbrica passamanerie,
ordinazioni, forniture.
Sorelle Purtarè.
Alla città di Parigi.
Modes, nouveauté.
Benedetto Paradiso
successore di Michele Salvato,
gabinetto fondato nell'anno 1843.
avviso importante alle signore !
La beltà del viso,
seno d'avorio,
pelle di velluto.
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole.
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran Sultano di Turchia ti aspetta.
La pasticca di Re Sole.
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta.
Orologeria di precisione.
93
Lotteria del milione.
Antica trattoria "La pace",
con giardino,
fiaschetteria,
mescita di vino.
Loffredo e Rondinella
primaria casa di stoffe,
panni, lane e flanella.
Oggetti d'arte,
quadri, antichità,
26
26 A.
Corso Napoleone Bonaparte.
Cartoleria del progresso.
...

lunedì 13 gennaio 2014

Spazio Forma

ha chiuso.
ieri, domenica 12 gennaio.
sabato pomeriggio sono andata in pellegrinaggio, per salutare e chiudere, anch'io, con questo luogo a me caro.
fino all'ultimo ho sperato che ATM e Comune di Milano trovassero una soluzione e invece, evidentemente, non è stato possibile.
c'era in corso una piccola mostra commemorativa, Una passione fotografica, con foto di alcune delle mostre più importanti dal 2005 ad oggi, c'era una piccola mostra di certa Betta Gancia, Una luce diversa, colore luce sfuocata niente di che, e un'altra di Irene Kung, La foresta dell'anima, con il solito sistema chiaroscurale totalmente manipolato digitalmente che non mi piace: effetto forte ma del tutto falso. per me la fotografia è altro.
c'era anche un lungo elenco di tutte le mostre effettuate dal 2005 ad oggi, diciamo che dal 2010 in poi le ho viste quasi tutte, prima solo un paio sporadicamente, Koudelka nel 2008 e Capa nel 2009. e posso dire di ricordarle praticamente tutte.

Una passione fotografica vuole ripercorrere proprio questi anni e questo impegno per e nella città di Milano. Attraverso alcune delle opere esposte nel tempo, accompagnate dai volumi, gli inviti e la memorabilia che ogni allestimento porta con sé, si ricostruisce il senso di una presenza e il valore di un lavoro – nutrito, appunto, da vera passione fotografica. 
 Opere di : Richard Avedon, Piergiorgio Branzi, Gianni Berengo Gardin, Robert Capa, Stefano Cerio, Lorenzo Cicconi Massi, Elliott Erwitt, Maurizio Galimberti, Mario Giacomelli, Mimmo Jodice, William Klein, Wendy Sue Lamm, Jacques Henri Lartigue, Saul Leiter, LIFE, Martial, Nino Migliori, Erwin Olaf, Martin Parr, Marco Pesaresi, Martin Schoeller, Massimo Siragusa, Phil Stern, Paolo Ventura, Albert Watson, WOMEN CHANGING INDIA, Andrew Zuckerman. 
Fare una mostra è cercare amici e alleati per la battaglia, ha scritto Edouard Manet nel 1867. E in effetti, si organizzano mostre per convincere, per sensibilizzare, per imporre un’idea, proporre uno stile, per voltar pagina. Insomma, e come diceva Manet, per partire in battaglia. Anche la fotografia non sfugge a questa regola. Anzi, sembra forse che l’aforisma di Manet sia stato composto proprio pensando alla fotografia – e chissà se poi in fondo non sia stato veramente così.

posso dire di condividere quanto scritto, ho sempre avuto l'impressione di una grande serietà, ogni cosa abbia visto o fatto a Spazio Forma. anche l'organizzazione di Fotografica, l'esposizione annuale della Canon, qui ha avuto un impatto e un'organizzazione superiori rispetto a qualsiasi altro posto in cui sia stata poi presentata.
indimenticabili:
Dies Irae di Paolo Pellegrin 
Rimini di Marco Pesaresi
La scelta delle felicità di Jacques Henry Lartigue
Robert Mapplethorpe
Le luci di New York di Saul Leiter
Fashion
Your wounds will be named silence di Robin Hammond 
Una storia americana di Gordon Parks.

J.H. Lartigue

venerdì 10 gennaio 2014

Combray


"Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro e il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d'inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un pò di tè. Rifiutai dapprima e poi, non so perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate "maddalenine", che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione di un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzetto di "maddalena". Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me ditazza di te' straordinario. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva subito rese indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di considerarmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo che io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E' chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che che io sono incapace di interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca ad esso trovare la verità. Ma come? grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente sorpassato da se medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? Non soltanto. Creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, per poi far entrare nella luce." 

leggendo, penso che Proust, in fondo, parli di nulla.
avevo sfiorato questo pensiero leggendo, o meglio rileggendo quasi 30 anni dopo, Un amore di Swann
ma quel libro aveva una narrazione, una storia, episodi in sequenza, sebbene ininfluenti rispetto al suo senso.
al senso di Proust intendo.
ma quel libro ha avuto un pregio incommensurabile, farmi aprire gli occhi, vedere, qualcosa che mi riguardava molto da vicino: l'idealizzazione dello sguardo amoroso. l'altro, oggetto d'amore, è costruzione dei nostri bisogni, o, al meglio, dei nostri desideri.
ora, leggendo Combray, e terminatolo, credo di non aver dubbi: Proust scrive sul nulla.
me la leggo tutta la Recherche? o mi fermo qui?
perchè per me, questa, è stata una lettura faticosissima.
Combray non parla di nulla, eppure tratta il tutto.
la scrittura di Proust è così ricca, così dettagliata e descrittiva che, spesso, mi costringe alla rilettura, a una maggiore concentrazione, oppure a sorvolare quel che mi sembra meno influente. ma è meno influente?
Il maggior pregio della passeggiata di Guermantes era d'avere sempre accanto il corso della Vivonne [...] nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, veri giardini di ninfee. Come le sponde erano assai boscose in quel punto, le grandi ombre degli alberi davano all'acqua un fondo che era abitualmente di un verde cupo, ma che a volte, qundo si rientrava in certe sere rasserenate di pomeriggi tempestosi [...] qua e là alla superficie, rosseggiava come una fragola un fior di ninfea scarlatto, bianco agli orli.
è una scrittura che nasconde, che sottintende, che evoca altro, che scrive sopra ciò che non si può scrivere.
è la scrittura della sensazione, sensazionale, delle emozioni, ma non emotiva, delle percezioni, dell'inconscio che ci fa dire oltre il nostro controllo, della memoria, ovviamente!, dell'opzione del presente a partire dal ricordo.
una scrittura davvero difficile.
in fondo, lo ripeto, in Combray non si parla di niente, non c'è una storia, non c'è una costruzione, non c'è narrazione, non ci sono dei capitoli. i personaggi?, forse, si, ma non comportano nulla, non hanno la funzione di costruire un significato, una storia di senso. se ci sono non sono lì per parlare di sè, rimandano ad altro. il narratore vaga nel ricordo di un'infanzia, ma nemmeno ricorda quella.
Tutti quei ricordi aggiunti gli uni agli altri non costituivano ormai che una massa; ma non era impossibile distinguere tra loro ,- tra i piu' antichi e i piu' recenti, nati da un profumo, poi tra quelli che non erano che i ricordi d'un'altra persona da cui li avevo appresi ,- se non delle fessure, delle crepe vere e proprie, almeno quelle venature, quelle screziature di colorazione che in certe rocce, in certi marmi, rivelano delle differenze d'origine, d'eta', di formazione.
ricorda, a partire dalla sua madeleinette inzuppata nel te, dei fiori, delle paure, degli odori, delle ombre, dei campanili, del bivio davanti a casa per una passeggiata o per un'altra -per Méséglise o per Guermantes?,- di un libro, di una fantasia, di un episodio di cattiveria. ricorda, ma non in modo strutturato, è la memoria dell'inconsistenza, del nulla e del tutto, ovvero della madre e della sua assoluta dipendenza da essa, ricorda di una simbiosi insostituibile, irrinunciabile, pena l'angoscia del non esistere. si può raccontare? si, come lo fa Proust si, senza raccontare, solo ricordando.
Il campanile di Saint-Hilaire lo si riconosceva da lontano, profilarsi nella sua linea indimenticabile all'orizzonte, su cui Combray non appariva ancora; quando, la settimana di Pasqua, dal treno che ci portava da Parigi, mio padre lo scorgeva balzare alternativamente da un lembo all'altro del cielo, menando in corsa per ogni senso il suo galletto di ferro, ci diceva: su, prendete le coperte, siamo arrivati.
niente di più inconsistente, niente di più ponderoso.
Combray è un embrione, possiede già tutto, ma un tutto che deve ancora venire.
E tuttavia, poiche' vi e' qualcosa di individuale nei luoghi, quando mi prende il desiderio di rivedere la parte di Guermantes, non mi appaghereste conducendomi in riva ad un fiume dove vi fossero ninfee di egual bellezza, di bellezza maggiore che nella Vivonne; non piu' di quanto la sera, rincasando,- nell'ora in cui si risvegliava dentro di me quell'angoscia che piu' tardi emigra nell'amore, e puo' divenire sua inseparabile compagna per sempre,- non avrei desiderato che venisse a darmi la buona notte una mamma piu' bella e piu' intelligente della mia. No : come quel che mi era necessario per potermi addormentare felice,- con quella pace senza turbamento che nessuna amante mi pote' ispirare piu' tardi, poiche' di loro si dubita sempre, anche nel momento in cui si presta loro fede, e non ci e' dato mai di possedere il loro cuore come era dato a me ricevere in un bacio quello di mia madre, tutto, senza la riserva d'un pensiero nascosto, senza il residuo d'un'intezione non rivolta a me- era che fosse lei, che lei chinasse verso di me quel volto dove c'era sotto l'occhio qualcosa che sembra fosse un difetto, e che amavo come il resto; nello stesso modo cio' che voglio rivedere e' la parte di Guermantes che ho conosciuta, con la fattoria un poco lontana dalle due seguenti strette l'una contro l'altra, sulla soglia del viale delle querce; sono le sue praterie, sulle quali, quando il sole le rende riflettenti come uno stagno, si disegnano le foglie dei meli; e' quel paesaggio di cui l'individualita', a volte la notte in sogno, m'afferra con forza quasi fantastica, e che non posso ritrovare al risveglio. Senza dubbio, con l'aver unito indissolubilmente in me, per sempre, impressioni diverse solo perche' me le avevano fatte provare nello stesso tempo, la parte di Meseglise e la parte di Guermantes m'hanno esposto, per l'avvenire, a molte delusioni e a molti errori. Infatti, spesso ho voluto rivedere una persona senza intendere che volevo rivederla semplicemente perche' mi ricordava una siepe di biancospini, e sono stato indotto a credere, a far credere a un ritorno d'affetto, per un semplice desiderio di viaggio. Ma anche cosi', e restando presenti in quelle tra le mie impressioni di oggi a cui possono ricollegarsi, danno loro dei sostrati, una profondita', una dimensione di piu' che alle altre. Aggiungono anche loro un fascino, un significato che e' vivo solo per me. Quando, nelle sere d'estate, il cielo armonioso ringhia come un animale selvatico, e ciascuno s'imbroncia per il temporale, e' alla parte di Meseglise ch'io vado debitore di restarmene solo, in estasi, a respirare, nel suono della pioggia che cade, l'odore d'invisibili e persistenti lilla.

giovedì 9 gennaio 2014

van gogh senza van gogh

colore colore colore e musica.
e qualche parola.
ecco fatto, ecco la mostra multimediale su Van Gogh alla Fabbrica del Vapore.


Promossa dal Comune di Milano, Van Gogh Alive è un'esperienza multimediale: fino al 9/03/14 i capolavori del genio olandese prendono vita grazie a più di 3000 immagini proiettate in HD: un viaggio attraverso l'universo creativo e visionario dell'artista, dagli intensi cromatismi alla tumultuosa vicenda esistenziale. 
Grazie all’innovativo sistema SENSORY4, che incorpora 40 proiettori HD, una grafica multi canale e un suono surround come quello delle sale cinematografiche, l’allestimento è uno dei più coinvolgenti ambienti multi screen al mondo, con immagini enormi, nitide e cristalline, realizzate su misura per lo spazio della Fabbrica del Vapore, così reali da desiderare di toccarle con mano. Il percorso, accompagnato da una colonna sonora che spazia da Schubert a Yann Tiersen, segue quattro movimenti come fosse una partitura musicale. Si comincia con la terra natia del pittore, l’Olanda, per poi passare in Francia e, a bordo di un treno ideale, ad Arles dove Van Gogh inizia la serie di Girasoli. I movimenti finali indagano il periodo di Saint Rémy e gli ampi paesaggi di Auvers-Sur-Oise, fino all’ultima opera Campo di Grano con Corvi.





il percorso dura circa 45 minuti, e qualcosa mi evoca la mostra The Visitors di Ragnar Kjartansson all'Hangar Bicocca (http://nuovateoria.blogspot.it/2013/11/my-feminine-ways.html): è un giro sensoriale, con un inizio e una fine, una passeggiata tra i colori, come quello della Bicocca era stato tra i suoni. 
la sensazione non è così trascinante come per l'esperienza della Bicocca, è solo piacevole, è inedita, è singolare. è un'immersione nella visione colorata e distorta di Van Gogh, nell'esplosione visuale, nel vortice di un'immaginazione grandangolare. la mia sensazione nel guardare i quadri di Van Gogh è quella di una mancanza di distanza dalle cose. è come se tutto fosse molto molto, troppo ravvicinato. è come uno zoom su ogni dettaglio, le cose, il mondo, è più grande perchè è più vicino con la distanza sbagliata. anche in una visione di insieme, in una notte stellata, gli oggetti sono troppo grandi, lontano il cielo e vicine le stelle. immagino che questa distorsione sia legata alla dissociazione nella mente di Van Gogh, la realtà viene misurata in modo disequilibrato, senza il giusto limite, senza "fuoco", come se tutto fosse sempre addosso.
e così è la mostra, addosso.
non è affatto spiacevole, è solo singolare finchè, per me che guardo, è solo un'esperienza di forme e di colore, ma mi trasmette il senso di un disagio insopportabile, accecante.
si cammina tra i colori, si leggono le lettere di Van Gogh, le sue citazioni sulla vita e l'amicizia, sulla follia e sulla pittura, si ascoltano Le quattro stagioni di Vivaldi, si abita, per un po', questo mondo stellare e solare, blu e giallo.
leggendo La Lettura ho avuto modo di leggere recensioni critiche, una in particolare mi è sembrata interessante. mostre come queste non hanno il senso di avvicinamento all'arte. andare a una mostra a vedere quadri, le tele e i colori vividi, è una cosa, è una scelta, un tragitto, un avvicinamento, un evento singolare e magari irripetibile. una mostra come questa è solo esperienza multimediale, è un evento per nativi digitali, una narrazione filmica, è tempo odierno, è contemporaneità. è un'altra cosa.
Ma qual è il senso di questo sempre più diffuso bisogno d’arte? È la testimonianza di un’epoca che tende a porre sul medesimo piano il vero e il verosimile. E troppo spesso non riesce più a distinguere la copia dall’originale. L’opera non c’è più. Viene sostituita dal suo simulacro, inteso — ha scritto Mario Perniola — non come sinonimo di inganno, frode o manipolazione, ma come «salvagente per galleggiare nel tempestoso oceano della comunicazione». Ci si consegna a un «mimetismo» che, nell’emanciparsi dalla mitologia dell’autenticità, conduce verso il vuoto e verso «un’ebbrezza prossima alla trance». E, tuttavia, l’arte resta inimitabile. Il confronto con un dipinto di van Gogh (di Leonardo, di Caravaggio) rimane un’esperienza irripetibile. Nessun apparato hi tech — che rende tutto luminosissimo e piatto come un videowall — potrà mai sostituire l’incontro con la grana di una tela. Nessun dispositivo ad alta definizione riuscirà mai a prendere il posto della seduzione sottesa alla scoperta delle screpolature del colore e dei segni del tempo. Molto affascinanti le rilocazioni. Ma non bisogna mai violare l’identità dei linguaggi. Diversamente da un film, da un programma televisivo o da una pubblicità, un quadro non può essere fruito in spazi diversi, nello stesso istante. Pretende di essere visto dal vivo. Per lasciarsi ammirare, ci chiede di viaggiare, di fare le file per entrare solo in quel museo. Dobbiamo andare versol’arte, mentre la tecnologia viene verso di noi. Tornano alla memoria le parole di un grande storico dell’arte inglese, Francis Haskell, il quale, nelle pagine conclusive di un suo libro (La nascita delle mostre), scriveva: "Il carattere non permanente di un’esposizione induce un’esaltazione speciale, riassunta nella convinzione che potrà non essere mai più possibile vedere qualcosa che essa offre — qualcosa che giunge da molto lontano. Potrebbe essere l’ultima occasione, e così ci si va".
Vincenzo Trione, La Lettura, 1/12/13

diceva Renoir: la pittura non si racconta, si guarda.

lunedì 6 gennaio 2014

due

Intanto, si sentivano all'inizio, alla vigilia di ogni cosa. Domani, tutto sarebbe stato ancor meglio! Ma i giorni passavano, la vita passava, e il meglio non arrivava. Quei domani continuamente attesi, e che continuamente, chissà perché, deludevano, erano ciò che alla fine faceva sfiorire la gioventù.


Si baciavano. Erano giovani. I baci nascono in modo così naturale sulle labbra di una ragazza di vent'anni!

che splendido libro questo di Irene Nemirovsky, uno splendido libro.
l'ho letto dopo Suite Francese, acclamato capolavoro della stessa autrice, e mi è piaciuto mille volte di più.
si scrive mille volte di più?
comunque, si dica o no, per me è andata così.
gioventù francese, annoiata esaltata e borghese, nell'immediato primo dopo guerra, e le loro vite.
vite che si incrociano, passione, incontri, matrimoni.
vita a due. in due, due.
vita in due non significa felice.
significa, però, in due. che non è poco.
questo si legge, questo io ho letto.
Due è una rappresentazione della Francia, di Parigi e dei suoi abitanti tra serate, tra il 1920 e 1930, inizialmente allegre, dove lo champagne corre a fiumi dentro case importanti e alberghi di lusso osservandone i movimenti e i mutamenti in un periodo indimenticabile. attraverso la storia delle due famiglie protagoniste, Carmondel e Segré, che hanno unito i loro destini, l'autrice racconta con disincanto la nostalgia di un amore, il testamento di una giovinezza perduta e di un'epoca a cavallo tra due spaventose guerre mondiali.
Senza amore, senza ancora immaginare il piacere, il presentimento dell'amore e del piacere dava a quelle carezze incompiute, ansimanti, un sapore che non avrebbero più ritrovato. 
mi piace e condivido visceralmente la visione schietta lucida nostalgica del "due".
la passione spinge ma fa male, toglie pietà, tenerezza, compassione. confonde e graffia.
eppure è necessaria perchè ogni amore umano, per durare, dev'essere nutrito di passione.
sviscera, emana energia ma deve spegnersi per lasciare finalmente spazio al vero autentico genuino sguardo sull'altro. disincantato, critico, spietato, eppure necessario, così, per volersi finalmente bene.
Come avveniva, nell'amore coniugale, il passaggio dall'amore all'amicizia? Quando si cessava di tormentarsi l'un l'altro per volersi finalmente bene?
consapevoli ma indivisibili, due.
stanchi annoiati ma mai soli, due.
disillusi ma uniti, due.
disincanto e conoscenza, due
Antoine non mi interessa più. E questa mancanza di curiosità, questa passività hanno spento in me ogni fonte di sofferenza e di felicità.
potrebbe risultare insopportabile, imbarazzante, spietato, eppure sento così vera questa scrittura mirabile, che merita un grande tributo, perchè è indimenticabile e necessaria.

  Irene Nemirovsky, nata a Kiev nel 1903, morta ad Auschwitz, 17 agosto 1942